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Tuesday, August 30, 2005

La «pax americana» è la nostra pace

Pax americana, di Winston Smith (1988)Il mondo messo a ferro e fuoco dagli americani? Non è che un mito. Proprio grazie all'espansione della democrazia la guerra è in via d'estinzione e le spese militari sono in netta diminuzione

Noi siamo quelli che la pace o è quella "americana", o non è. Qualche volta il Corriere della Sera ci prende. Come quando ci offre documenti come quelli che seguono. Il primo è un breve saggio di Ian Buruma, nel quale ricordando i successi delle occupazioni militari Usa in Giappone e in Germania Ovest, capaci di porre le basi per due delle maggiori democrazie avanzate e potenze economiche esistenti, invita gli europei a non ridicolizzare la retorica americana, perché al netto di «ipocrisia ufficiale» e «doppi standard», molti dei loro leader politici «credono veramente nella promozione della libertà».
«Gli ideali di Douglas MacArthur, di George Marshall e di Dwight Eisenhower riecheggiavano quelli di Thomas Jefferson, che nel 1826, nel cinquantesimo anniversario della Dichiarazione di Indipendenza, scrisse che il mondo avrebbe sicuramente seguito l'esempio americano, "il segnale di uomini che insorgono a spezzare le catene cui l'ottusa ignoranza e la superstizione li ha costretti, per assumere la benedizione e la sicurezza dell'autogoverno"... la solidarietà di Kennedy ai berlinesi nel 1963: "Tutti gli uomini liberi, indipendentemente da dove abitino, sono cittadini di Berlino. E per questo, da uomo libero, dico con orgoglio Ich bin ein Berliner". L'appello di Ronald Reagan a Gorbacev per "abbattere questo muro", riecheggiava lontanamente ma inequivocabilmente le parole di Kennedy».
Vi furono momenti alti, come il ponte aereo angloamericano che salvò Berlino, ma anche bassi (la Corea, il Vietnam, l'appoggio alle dittature sudamericane).
«Nel corso degli anni '80 avvenne però un cambiamento fondamentale. Una volta che gli americani decisero di appoggiare la democrazia anziché l'oppressione in nome dell'anticomunismo, i democratici ne trassero profitto e il divario fra idealismo americano e interesse nazionale si restrinse».
L'attacco all'Iraq nasconde di certo idee «non tutte idealistiche» e obiettivi anche egoistici, ma «la convinzione ideologica che gli Stati Uniti, con la sola forza delle armi, possano in qualche modo produrre una trasformazione democratica in Medio Oriente» è sincera.
«Nelle opinioni radicali di più d'un neo-con si possono ancora cogliere le tracce sottili che legano Lincoln e Jefferson a Trotsky, Wilson e Reagan. Se non si capisce l'impulso rivoluzionario che sta sotto la superficie dell'idealismo americano, non si può capire la politica americana. Gli intellettuali dell'est europeo, e non è sorprendente, l'hanno colto più velocemente dei loro colleghi occidentali... L'opposizione più forte all'America, non soltanto alla sua politica ma a gran parte di quanto rappresenta, viene dall'Europa occidentale, e precisamente da chi maggiormente ha beneficiato dell'abbraccio forse arrogante ma relativamente benigno della Pax Americana. Perché? Il disprezzo comune, specialmente a destra, nei confronti della civiltà americana - il suo volgare materialismo, il suo cosmopolitismo senza radici, il suo superficiale ottimismo, la sua mancanza di senso tragico — è riemerso quando il nemico comune è scomparso... Il sogno utopistico di una pace mondiale modellata sull'Unione Europea, una Pax Europea, per così dire, ha potuto prosperare soltanto sotto la protezione della Pax Americana».
Dividere l'Europa dagli Stati Uniti è l'obiettivo dei fondamentalisti che detestano Spinoza, Locke e Voltaire come Lincoln e Jefferson. Se la guerra in Iraq è ancora colma di pericoli e di errori l'idea che gli americani debbano cavarsela da soli è una trappola non meno pericolosa.
«Perché la Pax Americana è anche la nostra pax: con tutte le sue pecche e la sua storia sanguinosa, è ancora l'unica che abbiamo».
E di Pax americana ha bisogno anche il Medio Oriente. L'Iraq, dopo l'Afghanistan, deve farne esperienza perché possiamo proclamare il successo del primo esperimento democratico nel mondo arabo. A spiegare quanto la nuova costituzione sia un passo da gigante in quella direzione ci ha provato Magdi Allam giorni fa, indicando i caratteri rivoluzionari della costituzione irachena: elaborata dalla volontà dei legittimi rappresentanti del popolo; per la prima volta istituito l'ordinamento federale; la messa fuorilegge della pratica del takfir, ovvero della condanna di apostasia dei musulmani. Il tafkir, come spiega Il Foglio, è «il baricentro di tutta la dottrina politica fondamentalista».
«La Costituzione irachena, scritta da parlamentari democraticamente eletti, assume il punto di vista islamico, ma mette fuori legge il takfir, equiparandolo al razzismo, al terrorismo, alla pulizia etnica e al fascismo del Baath, e costruisce così l'argine all'onda lunga del fondamentalismo costituzionale che coinvolge tutti i paesi islamici da un trentennio».
Come ha sostenuto anche Emma Bonino, non basta il riferimento all'islam per fondare uno stato integralista. La Costituzione irachena stabilisce nell'articolo 5 che «Il popolo esprime la propria sovranità attraverso il voto libero e segreto». In Iraq, dunque, la sovranità è del popolo. Non come in Iran, dove la sovranità è di Allah, come stabilisce il primo principio della Costituzione: «La Repubblica islamica è un sistema che si basa sulla fede in un Dio Unico, nella sua sovranità esclusiva, nei suoi comandamenti e nella necessità di sottomettersi al suo ordine e nella Rivelazione Divina e nel suo ruolo fondamentale nella formazione delle leggi». Le elezioni iraniane servono non per esprimere sovranità, come stabilisce il sesto principio: «Nella Repubblica islamica dell'Iran gli affari del paese devono essere diretti, appoggiandosi sull'opinione pubblica attraverso elezioni». Appoggiandosi. Al popolo non è concessa sovranità, ma soltanto la possibilità di «appoggiare» il rahabar, l'ayatollah che esercita la sovranità in vece di Dio.
«Da oggi la Costituzione teocratica iraniana, come quelle fondamentaliste saudite, pachistane, sudanesi e via dicendo, hanno un'alternativa musulmana, forte, credibile e democratica. In Iraq è nato il testo costituzionale dell'Islam moderato».
Il mondo messo a ferro e fuoco dagli americani? Non è che un mito. Il secondo documento proposto dal Corriere che vi segnalo è un articolo di Gregg Easterbrook, redattore capo di The New Republic, secondo il quale la guerra, a dispetto di ciò che appare sulle tv e le prime pagine dei giornali, è un male in via d'estinzione. Per merito di chi? Non certo delle soluzioni proposte dai pacifisti. Il mondo sta diventando sempre più pacifico grazie a tre motivi: la fine della guerra fredda, le missioni di peacekeeping, la diffusione della democrazia. In quindici anni infatti, il numero dei conflitti si è più che dimezzato: dai 51 del 1991 fino ai 20 dell'anno scorso. E' «una tendenza globale ignorata», ma messa in risalto da un rapporto corredato di cifre, date, spiegazioni. Canali satellitari e internet aumentano le notizie, ma non le guerre.
«Vista l'attuale diminuzione delle guerre, per il momento uomini e donne di tutto il mondo rischiano molto di più per il traffico che per la guerra... Un altro dato straordinario è quello che indica come anche la spesa militare mondiale sia in declino... in rapporto alla crescita della popolazione, la spesa militare è diminuita di oltre il 30%»
L'espansione della democrazia ha rappresentato un importante contributo alla diminuzione delle guerre.
«Nel 1975, solo in un terzo delle nazioni del mondo si tenevano vere elezioni con più candidati; oggi la percentuale ha raggiunto i due terzi ed è in continua crescita. Negli ultimi vent'anni, circa 80 paesi hanno adottato una forma di governo democratica, mentre gli spostamenti in senso opposto sono stati minimi. I leader dei paesi in via di sviluppo sono sempre più consapevoli del fatto che le nazioni libere sono anche le più forti e le più ricche, e questa constatazione crea una motivazione molto forte per la diffusione della libertà».
In questo scenario anche sviluppo economico e culturale giocano un ruolo importante.
«La Seconda Guerra Mondiale ha rappresentato il trionfo della libertà sul militarismo. Esiste anche la possibilità che l'enorme rilevanza dell'economia nella vita moderna svolga un ruolo importante nella limitazione delle guerre. La progressiva diffusione dell'economia basata sulla conoscenza potrebbe far diminuire parallelamente l'importanza delle risorse fisiche e, d'altra parte, accrescere il valore della vita. E questo è indubbiamente un progresso culturale».
Dunque, se le cose stanno così, se la strada che stiamo percorrendo è quella giusta, avanti così, con sempre maggiore determinazione nell'espansione della democrazia, della libertà, dello stato di diritto, a partire dal Medio Oriente.

4 comments:

Anonymous said...

Sei sicuro, amico? Non nego che quello hai postato non abbia un fondo di verità, ma credi che sia con le armi che si risolvono le questioni? Io no. La pax americana non è altro che uno strumento di controllo in mano agli USA: non mi va bene come fai? ti attacco. In tutto questo non c'è volontà di esportare democrazia, ma semplicemente la volontà che il mondo giri come gli "gira" agli USA. Ti ricordo l'appoggio che ha dato la CIA ai Contra in Nicaragua. I Contra, grazie alla CIA, hanno ucciso migliaia di povera gente e saccheggiato villaggi, ma erano contro i Sandinisti e questo bastava... non elogerei troppo l'America, non sarei troppo filoamericano perchè loro non sono certo i salvatori della patria. Detto questo, con un sorriso, ti auguro buona giornata

Roberto Iza Valdés said...
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Roberto Iza Valdés said...
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Roberto Iza Valdés said...
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