Tra i tanti commenti sulla morte di Saddam Hussein, spiccano i toni apocalittici di Paolo Mieli. In realtà, comuni denominatori dei lacrimosi editoriali che vengono versati oggi sulle pagine dei giornali sono il monito a ricordarci che un peso indelebile graverà sulle coscienze di tutti, che il sangue versato ricadrà su iracheni, americani, europei, tutti, e l'annuncio dell'entrata dell'umanità nell'era del barbarismo. Insomma, filippiche da predicatori sull'orlo della fine del mondo.
Ho l'impressione, invece, che passata l'ondata di indignazione s'incaricherà la storia di rimarginare la ferita e fra qualche anno ci ricorderemo di Saddam come di uno dei tanti. Ma, appunto, è un'impressione: vedremo.
Stupisce che ci si stupisca del fatto che Saddam sia stato condannato per la strage di "solo" 148 sciiti, nel 1982 a Dujail, e non «per reati incommensurabilmente più gravi», le altre centinaia di migliaia di sue vittime. L'«incommensurabilmente più grave», a seconda, immaginiamo, del numero dei morti e delle armi usate, è un giudizo storico, politico, morale. Dal punto di vista giudiziario la condanna anche solo per un assassinio non è una «stravaganza», ma la regola.
Mieli, che è uno storico, dovrebbe saperlo. La differenza tra la sede giudiziaria e la sede storica è che nella prima l'assassinio anche di un solo individuo può portare alla condanna, in questo caso a morte, nella seconda ci si può soffermare sulla ricostruzione di un'intera vicenda umana e di un'epoca politica piena crimini orribili, valutando i diversi aspetti e soppesando le responsabilità.
«Far luce sui trent'anni del potere» di Saddam, sulle inconfessabili complicità e l'ampiezza reale dei suoi crimini, doveva essere lo scopo dei processi iracheni, sostengono in molti, ma in realtà è un lavoro che spetta agli storici. Quando ci provano i tribunali va a finire come con Milosevic: processo in panne e nessuna sentenza. Sempre il caso di Milosevic, ma anche i mesi che Saddam ha avuto per raccontare la sua "verità", dimostrano che questi scomodi segreti che si crede i dittatori abbiano da rivelare sono poco più che luoghi comuni. I suoi trentennali rapporti di quando era al potere sono per lo più noti e gli storici si incaricheranno di studiarli in modo più approfondito con il passare degli anni.
Inoltre, non c'è solo Saddam. Essendo ancora molti gli ex gerarchi del regime baathista che devono essere giudicati, non è assolutamente detto che i processi sugli eccidi più gravi non si tengano ugualmente, per far luce su responsabilità altre rispetto a quelle dell'ex raìs.
Nel ricordare errori e imperfezioni dei processi di Norimberga e in Giappone al termine della Seconda Guerra Mondiale, Mieli indirettamente ci ricorda come non abbiano pregiudicato lo sviluppo democratico della Germania o del Giappone.
Il modo in cui Mieli risolve il dilemma morale è però inaccettabile. Il despota «o viene ucciso al momento della sconfitta e della sua cattura oppure deve restare in vita». Dunque, sì all'assassinio vero e proprio, no alla condanna a morte dopo un regolare processo. Tra le due, se proprio dobbiamo scegliere, qui preferiamo la seconda. «Il nostro sistema morale può tollerare un'uccisione a caldo con modalità che sappiamo non verranno mai accertate...»: ma che ipocrisia! Occhio non vede cuore non duole.
Il punto è che se si vuole debellare la pratica della pena di morte, non si può perdere di vista l'elemento fondamentale: il processo secondo i dettami dello stato di diritto. Quel piccolo particolare che ci impone di considerare in modo del tutto diverso la pena di morte negli Stati Uniti da quella praticata in Iran o in Cina, altrimenti le nostre buone intenzioni rischiano di produrre effetti perversi. Posto che la giustizia è sempre quella dei vincitori sui vinti, la differenza è a quali principi e regole il vincitore sceglie di fare riferimento.
Poi c'è il tipo di commenti come quello di Furio Colombo, utilissimi per comprendere come l'equivoco di fondo sia nel fatto di pensare che la democrazia sia «buona». Allora avrebbe ragione Pera, che vuole non solo una società democratica, ma anche «buona», volta al «bene». La democrazia è un sistema di governo che meglio di altri funziona nel regolare la convivenza civile nel modo meno violento e più produttivo possibile, ma non ci risparmia le cose brutte e cattive della vita. Quando attaccata, la democrazia sa essere molto cattiva. Quindi sì, anche il cappio intorno al collo di un despota può essere una «vittoria per la democrazia», con grande scandalo di Colombo. Attenzione: non dico che lo sia di per sé, ma che può esserlo, e non è detto che in Iraq ci siano oggi le condizioni perché lo sia.
Nonostante tutto, nonostante i Saddam e gli Ahmadinejad, Colombo può tranquillizzarsi, stiamo attraversando senz'altro un periodo meno barbaro di altri. E questo unicamente grazie alla democrazia, comprese un paio di bombe atomiche e qualche impiccagione servite a difenderla e affermarla.
Riguardo la regolarità del processo a Saddam, sarebbe grave se fosse vero ciò che rivela a Il Messaggero (confesso che non lo sapevo) il professor Michael Newton, docente di Diritto internazionale alla Vanderbilt University e consulente del Tribunale iracheno che ha processato Saddam.
Secondo Newton, il processo è stato «quanto di meglio si potesse desiderare in Iraq date le circostanze. E la fretta dell'esecuzione è tradizionale nel sistema giudiziario iracheno, che considera crudele tenere un condannato in attesa di morte per un lungo periodo».
Ma il fatto grave è quanto aggiunge dopo: «Gli iracheni avevano chiesto sia alle Nazioni Unite che alla Comunità Europea di aiutarli a istruire il processo secondo le procedure internazionali. Hanno chiesto di essere ammessi alla Corte dell'Aia per studiarne il funzionamento. Hanno chiesto che i giudici dell'Aia andassero a Baghdad ad aiutarli. Hanno sempre ricevuto un netto rifiuto... perché in Iraq c'è la pena di morte e nessuno ha voluto aiutarli a istruire un processo che si sapeva avrebbe portalo a una pena capitale. Se noi avessimo aiutato ufficialmente i giudici iracheni, questo processo avrebbe potuto essere un esempio di giustizia per tutto il mondo. Li abbiamo abbandonati a se stessi, e io credo che abbiano fatto il meglio che potevano».
Sarebbe la conferma di quanto temevo. Abbiamo perso il senso delle misure e dei principi: la prima cosa, e più importante, da assicurare è un processo equo secondo i dettami dello stato di diritto, mentre chi ha negato l'aiuto agli iracheni guardando alla pena ha sacrificato anche il processo.
Tra i commenti un po' fuori dal coro, quello di Antonio Martino, contrario alla pena di morte, che però ritiene positivo che Saddam sia stato processato dall'Iraq, pubblicamente. «Mi sembra enormemente meglio non dico di piazzale Loreto ma anche di Norimberga. Quello era un tribunale dei vincitori, non tedesco».
L'ex ministro della Difesa osserva che «non è affatto certo che sia stato un errore politico». L'esecuzione, infatti, può suscitare rabbia in qualche clan sunnita, ma «l'iraq è composto in stragrande maggioranza da curdi e sciiti (ma anche sunniti, aggiungiamo noi) vittime
dei crimini di Saddam Hussein».
All'insegna della cautela sono i commenti di André Glucksmann, sul Corriere della Sera («da parte mia non mi sento autorizzato al perdono al posto degli iracheni che gioiscono per l'esecuzione capitale quando sono genitori, figli o parenti del milione di vittime assassinate da un tiranno infinitamente peggiore di Mussolini»), e di Andrea Romano, su La Stampa: «Beati coloro che sono animati dalla certezza delle proprie opinioni» di fronte a un'esecuzione che «dovrebbe costringerci tutti a un doloroso esercizio del dubbio. Compresi noi europei che veniamo da un lungo periodo di privilegio, da più di sei decenni all'insegna della pace e della democrazia durante i quali non ci è più toccato in sorte di giudicare chi tra noi si fosse reso responsabile del crimine di sterminio».
E l'ultima volta, ricorda Romano, «che ci siamo misurati con il problema lo abbiamo risolto con qualche approssimazione giuridica ma con efficacia, senza poi dovercene pentire più di tanto», come dimostrano le parole di Sandro Pertini, interrogato nel 1986 sul fallito attentato a Pinochet: «Se sia giusto uccidere un tiranno lo abbiamo chiarito una volta per tutte con la fucilazione di Benito Mussolini».
Certo, riconosce Andrea Romano, è stata una giustizia «fragile e parziale», ma è stata «la giustizia degli iracheni, di un popolo che non finisce di essere vittima dei propri carnefici, dei catastrofici errori di Bush e del pilatesco disinteresse della maggior parte dei paesi europei. Nel mare di sangue da cui è attraversato ogni giorno, quella di Saddam è l'unica morte giustificabile sulla strada di una speranza possibile per l'Iraq».
Ogni volta che muore un uomo per mano di un altro è «una tragedia», ma con un po' di pragmatismo potremmo anche ipotizzare che l'Iraq «può iniziare a ritrovarsi intorno all'esecuzione del primo responsabile della sua rovina. Una piccola dose di rispetto verso la sventura irachena dovrebbe spingerci a domandarci se non sia il caso di abbassare almeno un po' il ditino con il quale condanniamo quella forca».
Certo, è stato uno spettacolo «penoso», ma riconosciamo anche che è stato «un messaggio per gli altri sanguinari raìs rimasti nel mondo. Che forse per qualche giorno andranno a dormire massaggiandosi il collo».
Concludiamo ancora con Glucksmann e il suo invito a sforzarci di saper distinguere. «Nel mondo di oggi, in cui minoranze incendiarie e senza scrupoli (i nichilisti attivi) rivaleggiano in crudeltà approfittando del lassismo delle maggioranze intorpidite (i nichilisti passivi), non è mai troppo tardi per lottare contro le fiamme. A patto che si sappia identificare, di volta in volta, il volto degli incendiari».
Sunday, December 31, 2006
Saturday, December 30, 2006
Troppe falle nell'iniziativa di Pannella
Una fine da gerarca nazista, quella di Saddam Hussein. Ma non mi pare che quelle esecuzioni abbiano pregiudicato il futuro democratico tedesco o europeo.
Attenzione. Questo non vuol dire che la morte di Saddam di per sé contribuirà alla fine delle violenze in Iraq e consoliderà la democrazia irachena. Voglio dire che non è la sua eliminazione a pregiudicare, né ad assicurare, un roseo futuro agli iracheni. Dipende piuttosto dalla capacità del nuovo Governo iracheno e dalla determinazione americana a sconfiggere i nemici sul campo: la guerriglia sunnita, i terroristi di Al Qaida, e anche le milizie sciite filoiraniane.
Bush ha «regalato un martire» al terrorismo internazionale, come denuncia Pannella? Vedremo, fra qualche anno. Lo si diceva anche del già dimenticato Arafat, ma l'impressione è che il volto di Saddam lo rivedremo fra qualche anno nei finti busti dei mercatini di qualche villaggio, come capita ancora oggi d'imbattersi in simili paccottiglie nostalgiche del Duce nelle fiere di paese in Italia.
«Tutti sanno - si dice sicuro Pannella - che l'impiccagione di Saddam approfondirà gli odi e rafforzerà ancora di piu l'idea che l'uccisione dell'avversario è un elemento non solo lecito, ma che puo essere anche utile». Che l'esecuzione di Saddam aggravi la situazione di caos e violenza nel paese non è affatto certo, ma è certo che un Saddam vivo, che si rifiuta di giocare un ruolo attivo di pacificazione, sarebbe stato per anni un elemento di ulteriore destabilizzazione.
La guerriglia sunnita e le formazioni jihadiste avranno un pretesto in più, è vero, per continuare a uccidere, ma non è che finora non siano stati capaci di trovarne. E alzi la mano chi crede davvero che con il loro leader in carcere per anni si sarebbero fermati.
Dal momento, e a maggior ragione, che le autorità irachene hanno deciso di giocare la carta della trattativa con Saddam nel tentativo di strappargli un appello alla pacificazione in cambio di aver salva la vita, una volta ricevuto il suo rifiuto non potevano più permettersi di lasciarlo in vita.
Oltre a un paio di evidenti inesattezze (Tareq Aziz non era tra gli imputati e il processo non si è affatto svolto in clandestinità, ma è stato diffuso dalla televisione irachena), sconcertano i toni anti-americani e gli argomenti dietrologici, degni del "miglior" Giulietto Chiesa, utilizzati da Marco Pannella nella sua iniziativa.
Ha insinuato il dubbio che l'amministrazione Bush abbia voluto «chiudere per sempre la bocca» a «chi avrebbe potuto raccontare la storia delle complicità "insospettabili" delle quali il dittatore iracheno poté godere, o dalle quali è stato istigato e armato». Dalla difesa di Saddam in altri processi si sarebbero potute ascoltare «storie e storia», addirittura «un mucchio di verità».
A parte che gli americani e gli iracheni avrebbero potuto «chiudere la bocca» a Saddam molto prima, se avessero avuto questo timore, durante la sua cattura, avvenuta in un contesto di guerra, Pannella sembra ignorare del tutto il modo in cui Saddam ha deciso di difendersi nel processo che ha subito.
Il Saddam che si sofferma come sulla veranda a ricordare i vecchi tempi, a raccontarci la sua "verità", esiste solo nella fantasia di Pannella. Per lo meno, in questi due anni ha avuto l'occasione di essere un pozzo di storia, ma ha preferito inveire contro il Tribunale e continuare a fomentare le vendette. D'altronde, scomode verità dovevano uscire anche dalla difesa di Milosevic, ma non ci pare di ricordarne alcuna degna di nota.
L'esecuzione avrebbe «subito un'accelerazione - spiega il leader radicale - anche perché gli americani hanno capito che qualcosa stava montando, che il caso stava per esplodere, che la grande questione della sua salvezza rischiava di coinvolgere le coscienze del pianeta...». Sarebbe potuto esplodere nel cuore del Medio Oriente «un grande atto di pace, un grande dibattito nei popoli e nelle coscienze: lo "scandalo" della nonviolenza come alternativa di vita e di democrazia alle dittature e alla guerra».
Certo, un grande dibattito, ma non nel senso auspicato da Pannella, cioè di presa di coscienza della brutalità della pena di morte, ma di strumentalizzazioni da parte di quegli autocrati, chi più chi meno amico di Saddam, che hanno molto da temere da un precedente del genere.
Il grande «scandalo», per gli iracheni e per le masse arabe, è rappresentato dal dittatore alla sbarra, dal processo svoltosi, seppure in modo imperfetto, comunque secondo i più basilari dettami dello stato di diritto.
Lo «scandalo della non esecuzione» sarebbe stato dai "resistenti" percepito come segno di estrema debolezza politica, quindi di incoraggiamento, mentre dal resto della popolazione, che ha subito ben 35 anni di sanguinaria dittatura, come la conferma che gli uomini di potere, in un modo o nell'altro, la fanno sempre franca. Potrà non piacere, ma questa è la realtà dei sentimenti che attraversano l'Iraq oggi.
Pannella se la prende con «quel signore che siede alla Casa Bianca», che «sta coprendo di infamia i valori del suo splendido popolo». Eppure, non scopriamo oggi che gli Stati Uniti, sia da parte repubblicana sia da parte democratica, sono tendenzialmente favorevoli alla pena di morte. Un po' scontato prendersela con il "fondamentalista" Bush. Potrà dispiacere - e dispiace - ma lo «splendido popolo» americano in gran parte ancora approva il ricorso alla pena capitale. Ci auguriamo che ci ripensino, ma per ora l'America è questa: una grande democrazia, rispettosa dello stato di diritto, in cui la pena di morte è vigente in 37 Stati.
Anche che l'uccisione di Saddam «pregiudichi irreparabilmente la creazione di uno stato di diritto in Iraq», o che l'assassinio di un dittatore non sia «un contributo alla pace e alla democrazia» sono affermazioni discutibili. L'atto del governo iracheno, seppure brutale e deplorevole, non è paragonabile a quelli che furono propri di Saddam stesso: eccidi ed esecuzioni senza processo. Si confonde il fatto democratico e dello stato di diritto con la pena di morte. Che paesi in cui è, o era fino a pochi decenni fa, prevista la pena capitale per i reati più gravi ed efferati siano anche tra le democrazie più mature e dallo stato di diritto più compiuto è un fatto storico incontestabile. Come occorre riconoscere che spesso, storicamente, l'eliminazione di un tiranno è stata d'aiuto alla pace e alla democrazia successive.
Sarà ripugnante ammetterlo, e forse consigliabili altre soluzioni, ma che dalla condanna a morte di un dittatore «si possa costruire piu vita e più libertà» è più spesso qualcosa che accade che una «tragica illusione».
Non è neanche esatto dire che la morte di Saddam costituisce un furto di memoria e di giustizia alle sue vittime. Non c'è solo la sede giudiziaria per far luce sugli altri immensi crimini di Saddam. Il popolo iracheno avrà tutto il tempo di prendere coscienza, in sede di ricostruzione storica, della propria memoria. Le aule dei tribunali non sono le sedi migliori per la ricerca di una verità storica. Bisognerebbe chiedere direttamente alle vittime se sentono che oggi sia stata o meno fatta giustizia.
Ma la cifra dell'imprecisione politica con la quale Pannella ha condotto questa sua iniziativa, nel merito e sulla carta condivisibile, la dà Adriano Sofri, oggi su Il Foglio: «Temo che per una volta Marco Pannella abbia sacrificato alla suggestione dello slogan — Viva Saddam, Saddam viva — la limpidezza del significato. Avrei preferito dire: Abbasso Saddam, Saddam viva».
Come il pacifismo "senza se e senza ma" non era una reale alternativa alla guerra in Iraq, anche questa iniziativa di Pannella, così congegnata e condotta, non poteva essere una reale alternativa all'esecuzione di Saddam: l'appello andava rivolto non solo al Governo iracheno, ma allo stesso ex dittatore, affinché ottenesse salva la vita accettando di lanciare un concreto appello alla pacificazione. Un prezzo non troppo alto per l'ex raìs, ma l'unica possibilità concreta di far scattare lo «scandalo» dell'alternativa democratica a cui mirava Pannella.
Attenzione. Questo non vuol dire che la morte di Saddam di per sé contribuirà alla fine delle violenze in Iraq e consoliderà la democrazia irachena. Voglio dire che non è la sua eliminazione a pregiudicare, né ad assicurare, un roseo futuro agli iracheni. Dipende piuttosto dalla capacità del nuovo Governo iracheno e dalla determinazione americana a sconfiggere i nemici sul campo: la guerriglia sunnita, i terroristi di Al Qaida, e anche le milizie sciite filoiraniane.
Bush ha «regalato un martire» al terrorismo internazionale, come denuncia Pannella? Vedremo, fra qualche anno. Lo si diceva anche del già dimenticato Arafat, ma l'impressione è che il volto di Saddam lo rivedremo fra qualche anno nei finti busti dei mercatini di qualche villaggio, come capita ancora oggi d'imbattersi in simili paccottiglie nostalgiche del Duce nelle fiere di paese in Italia.
«Tutti sanno - si dice sicuro Pannella - che l'impiccagione di Saddam approfondirà gli odi e rafforzerà ancora di piu l'idea che l'uccisione dell'avversario è un elemento non solo lecito, ma che puo essere anche utile». Che l'esecuzione di Saddam aggravi la situazione di caos e violenza nel paese non è affatto certo, ma è certo che un Saddam vivo, che si rifiuta di giocare un ruolo attivo di pacificazione, sarebbe stato per anni un elemento di ulteriore destabilizzazione.
La guerriglia sunnita e le formazioni jihadiste avranno un pretesto in più, è vero, per continuare a uccidere, ma non è che finora non siano stati capaci di trovarne. E alzi la mano chi crede davvero che con il loro leader in carcere per anni si sarebbero fermati.
Dal momento, e a maggior ragione, che le autorità irachene hanno deciso di giocare la carta della trattativa con Saddam nel tentativo di strappargli un appello alla pacificazione in cambio di aver salva la vita, una volta ricevuto il suo rifiuto non potevano più permettersi di lasciarlo in vita.
Oltre a un paio di evidenti inesattezze (Tareq Aziz non era tra gli imputati e il processo non si è affatto svolto in clandestinità, ma è stato diffuso dalla televisione irachena), sconcertano i toni anti-americani e gli argomenti dietrologici, degni del "miglior" Giulietto Chiesa, utilizzati da Marco Pannella nella sua iniziativa.
Ha insinuato il dubbio che l'amministrazione Bush abbia voluto «chiudere per sempre la bocca» a «chi avrebbe potuto raccontare la storia delle complicità "insospettabili" delle quali il dittatore iracheno poté godere, o dalle quali è stato istigato e armato». Dalla difesa di Saddam in altri processi si sarebbero potute ascoltare «storie e storia», addirittura «un mucchio di verità».
A parte che gli americani e gli iracheni avrebbero potuto «chiudere la bocca» a Saddam molto prima, se avessero avuto questo timore, durante la sua cattura, avvenuta in un contesto di guerra, Pannella sembra ignorare del tutto il modo in cui Saddam ha deciso di difendersi nel processo che ha subito.
Il Saddam che si sofferma come sulla veranda a ricordare i vecchi tempi, a raccontarci la sua "verità", esiste solo nella fantasia di Pannella. Per lo meno, in questi due anni ha avuto l'occasione di essere un pozzo di storia, ma ha preferito inveire contro il Tribunale e continuare a fomentare le vendette. D'altronde, scomode verità dovevano uscire anche dalla difesa di Milosevic, ma non ci pare di ricordarne alcuna degna di nota.
L'esecuzione avrebbe «subito un'accelerazione - spiega il leader radicale - anche perché gli americani hanno capito che qualcosa stava montando, che il caso stava per esplodere, che la grande questione della sua salvezza rischiava di coinvolgere le coscienze del pianeta...». Sarebbe potuto esplodere nel cuore del Medio Oriente «un grande atto di pace, un grande dibattito nei popoli e nelle coscienze: lo "scandalo" della nonviolenza come alternativa di vita e di democrazia alle dittature e alla guerra».
Certo, un grande dibattito, ma non nel senso auspicato da Pannella, cioè di presa di coscienza della brutalità della pena di morte, ma di strumentalizzazioni da parte di quegli autocrati, chi più chi meno amico di Saddam, che hanno molto da temere da un precedente del genere.
Il grande «scandalo», per gli iracheni e per le masse arabe, è rappresentato dal dittatore alla sbarra, dal processo svoltosi, seppure in modo imperfetto, comunque secondo i più basilari dettami dello stato di diritto.
Lo «scandalo della non esecuzione» sarebbe stato dai "resistenti" percepito come segno di estrema debolezza politica, quindi di incoraggiamento, mentre dal resto della popolazione, che ha subito ben 35 anni di sanguinaria dittatura, come la conferma che gli uomini di potere, in un modo o nell'altro, la fanno sempre franca. Potrà non piacere, ma questa è la realtà dei sentimenti che attraversano l'Iraq oggi.
Pannella se la prende con «quel signore che siede alla Casa Bianca», che «sta coprendo di infamia i valori del suo splendido popolo». Eppure, non scopriamo oggi che gli Stati Uniti, sia da parte repubblicana sia da parte democratica, sono tendenzialmente favorevoli alla pena di morte. Un po' scontato prendersela con il "fondamentalista" Bush. Potrà dispiacere - e dispiace - ma lo «splendido popolo» americano in gran parte ancora approva il ricorso alla pena capitale. Ci auguriamo che ci ripensino, ma per ora l'America è questa: una grande democrazia, rispettosa dello stato di diritto, in cui la pena di morte è vigente in 37 Stati.
Anche che l'uccisione di Saddam «pregiudichi irreparabilmente la creazione di uno stato di diritto in Iraq», o che l'assassinio di un dittatore non sia «un contributo alla pace e alla democrazia» sono affermazioni discutibili. L'atto del governo iracheno, seppure brutale e deplorevole, non è paragonabile a quelli che furono propri di Saddam stesso: eccidi ed esecuzioni senza processo. Si confonde il fatto democratico e dello stato di diritto con la pena di morte. Che paesi in cui è, o era fino a pochi decenni fa, prevista la pena capitale per i reati più gravi ed efferati siano anche tra le democrazie più mature e dallo stato di diritto più compiuto è un fatto storico incontestabile. Come occorre riconoscere che spesso, storicamente, l'eliminazione di un tiranno è stata d'aiuto alla pace e alla democrazia successive.
Sarà ripugnante ammetterlo, e forse consigliabili altre soluzioni, ma che dalla condanna a morte di un dittatore «si possa costruire piu vita e più libertà» è più spesso qualcosa che accade che una «tragica illusione».
Non è neanche esatto dire che la morte di Saddam costituisce un furto di memoria e di giustizia alle sue vittime. Non c'è solo la sede giudiziaria per far luce sugli altri immensi crimini di Saddam. Il popolo iracheno avrà tutto il tempo di prendere coscienza, in sede di ricostruzione storica, della propria memoria. Le aule dei tribunali non sono le sedi migliori per la ricerca di una verità storica. Bisognerebbe chiedere direttamente alle vittime se sentono che oggi sia stata o meno fatta giustizia.
Ma la cifra dell'imprecisione politica con la quale Pannella ha condotto questa sua iniziativa, nel merito e sulla carta condivisibile, la dà Adriano Sofri, oggi su Il Foglio: «Temo che per una volta Marco Pannella abbia sacrificato alla suggestione dello slogan — Viva Saddam, Saddam viva — la limpidezza del significato. Avrei preferito dire: Abbasso Saddam, Saddam viva».
Come il pacifismo "senza se e senza ma" non era una reale alternativa alla guerra in Iraq, anche questa iniziativa di Pannella, così congegnata e condotta, non poteva essere una reale alternativa all'esecuzione di Saddam: l'appello andava rivolto non solo al Governo iracheno, ma allo stesso ex dittatore, affinché ottenesse salva la vita accettando di lanciare un concreto appello alla pacificazione. Un prezzo non troppo alto per l'ex raìs, ma l'unica possibilità concreta di far scattare lo «scandalo» dell'alternativa democratica a cui mirava Pannella.
Fine di un tiranno
Ora, bisogna ubriacarsi. Ora, bisogna che ognuno
a forza beva: è morto Mirsilo!
Alceo di Mitilene (VII - VI secolo a.C.)
a forza beva: è morto Mirsilo!
Alceo di Mitilene (VII - VI secolo a.C.)
Friday, December 29, 2006
Marco sui giornali d'Arabia
Pare che le lancette dell'orologio della vita di Saddam Hussein stiano compiendo gli ultimi giri. L'esecuzione sarebbe imminente. Forse sabato.
Potrebbe quindi concludersi prima del previsto lo sciopero della fame e della sete di Pannella, che non dovrebbe troppo rallegrarsi per l'attenzione ricevuta da molti siti e giornali arabi.
In decine hanno dato notizia della sua campagna per salvare Saddam dalla condanna a morte. Dal "moderato" Al Sharq Al Awsat, quotidiano panarabo di proprietà saudita, al ben più "radicale" Al Watan, primo quotidiano saudita per diffusione, stampato a Riad e Gedda e letto in tutti i paesi del Golfo, che mette la notizia addirittura in prima pagina e la correda di una foto di Pannella vicino a una gigantografia di Saddam. Dal kuwaitiano Al Qabas al giordano Al Ghad, quotidiano online nazionalista e contrario alla guerra in Iraq. Da Al Jazeera, tv satellitare degli sceicchi del Qatar, ad Almoslim.net, dello sceicco saudita Nasser Al Omar, fino ad AlArabonline, che ha definito il leader radicale «uno dei più grandi oppositori della guerra americana all'Iraq», ma dubitiamo che abbia precisato i termini della proposta "Iraq libero".
Chi più chi meno sono tutti organi controllati da quegli stessi autocrati e sceicchi mediorientali che negano ai loro popoli i diritti fondamentali e che vedono nell'esecuzione di Saddam un precedente pericoloso per la tenuta del loro potere. Vedono come ipotesi non più così remota venire anch'essi un giorno raggiunti dalla giustizia dei loro popoli. E la cosa non gli piace.
L'iniziativa di Pannella, debitamente rimasticata dai loro giornali a beneficio delle opinioni pubbliche arabe, fa in qualche modo il loro gioco. Segno che il connotato politico di questa campagna è rimasto ambiguo e si presta a strumentalizzazioni.
Un modo per precisare il segno politico dello slogan "Nessuno tocchi Saddam" poteva essere quello suggerito da Carlo Panella: rivolgersi non solo al Governo iracheno, affinché risparmi la vita a Saddam, ma anche direttamente allo stesso ex dittatore, perché paghi il «prezzo del suo sangue» attivandosi davvero per la pacificazione, lanciando un appello ad abbandonare le armi e a partecipare alla costruzione di un Iraq democratico.
Sappiamo che questo è un ruolo che Saddam evidentemente si rifiuta di svolgere, visto il fallimento delle trattative con le autorità irachene, ma tentare ancora non nuoce e comunque metterebbe in chiaro l'obiettivo politico dell'iniziativa di Pannella, che altrimenti rischia di ridursi a esercizio di "buonismo".
Potrebbe quindi concludersi prima del previsto lo sciopero della fame e della sete di Pannella, che non dovrebbe troppo rallegrarsi per l'attenzione ricevuta da molti siti e giornali arabi.
In decine hanno dato notizia della sua campagna per salvare Saddam dalla condanna a morte. Dal "moderato" Al Sharq Al Awsat, quotidiano panarabo di proprietà saudita, al ben più "radicale" Al Watan, primo quotidiano saudita per diffusione, stampato a Riad e Gedda e letto in tutti i paesi del Golfo, che mette la notizia addirittura in prima pagina e la correda di una foto di Pannella vicino a una gigantografia di Saddam. Dal kuwaitiano Al Qabas al giordano Al Ghad, quotidiano online nazionalista e contrario alla guerra in Iraq. Da Al Jazeera, tv satellitare degli sceicchi del Qatar, ad Almoslim.net, dello sceicco saudita Nasser Al Omar, fino ad AlArabonline, che ha definito il leader radicale «uno dei più grandi oppositori della guerra americana all'Iraq», ma dubitiamo che abbia precisato i termini della proposta "Iraq libero".
Chi più chi meno sono tutti organi controllati da quegli stessi autocrati e sceicchi mediorientali che negano ai loro popoli i diritti fondamentali e che vedono nell'esecuzione di Saddam un precedente pericoloso per la tenuta del loro potere. Vedono come ipotesi non più così remota venire anch'essi un giorno raggiunti dalla giustizia dei loro popoli. E la cosa non gli piace.
L'iniziativa di Pannella, debitamente rimasticata dai loro giornali a beneficio delle opinioni pubbliche arabe, fa in qualche modo il loro gioco. Segno che il connotato politico di questa campagna è rimasto ambiguo e si presta a strumentalizzazioni.
Un modo per precisare il segno politico dello slogan "Nessuno tocchi Saddam" poteva essere quello suggerito da Carlo Panella: rivolgersi non solo al Governo iracheno, affinché risparmi la vita a Saddam, ma anche direttamente allo stesso ex dittatore, perché paghi il «prezzo del suo sangue» attivandosi davvero per la pacificazione, lanciando un appello ad abbandonare le armi e a partecipare alla costruzione di un Iraq democratico.
Sappiamo che questo è un ruolo che Saddam evidentemente si rifiuta di svolgere, visto il fallimento delle trattative con le autorità irachene, ma tentare ancora non nuoce e comunque metterebbe in chiaro l'obiettivo politico dell'iniziativa di Pannella, che altrimenti rischia di ridursi a esercizio di "buonismo".
Ecco di quali progressi è capace Pechino
Asianews, l'agenzia cattolica particolarmente attenta alle persecuzioni dei cristiani in Asia e nel mondo, ha denunciato l'arresto da parte delle autorità cinesi di nove sacerdoti non ufficiali della diocesi di Baoding. Il gruppo, fa sapere l'agenzia, era riunito per studiare. Nella provincia dell'Hebei è in atto da tempo una dura campagna dell'Associazione patriottica contro le comunità non ufficiali. Secondo Asianews sono almeno sei i vescovi "sotterranei" dell'Hebei detenuti o scomparsi.
L'Hebei è la regione con il più alto numero di cattolici (1,5 milioni), in maggioranza della Chiesa non ufficiale, che rifiutano cioè il controllo dell'Associazione patriottica dei cattolici cinesi (AP), l'organismo di controllo voluto dal Partito comunista allo scopo di costituire una chiesa indipendente da Roma.
Questi ultimi nove arresti potrebbero essere una ritorsione per quanto detto il giorno di Santo Stefano da Papa Benedetto XVI, che all'Angelus ha ricordato, con riferimento alla situzione cinese, il sacrificio dei cristiani perseguitati per la loro fedeltà alla Chiesa di Roma.
Sarebbe questa una buona occasione per farsi sentire con i vertici della Repubblica popolare cinese, a meno che non s'intenda continuare a chiudere gli occhi illudendosi che il commercio e le rituali esortazioni formali di per sé bastino a garantire progressi anche sul piano dei diritti umani.
L'Hebei è la regione con il più alto numero di cattolici (1,5 milioni), in maggioranza della Chiesa non ufficiale, che rifiutano cioè il controllo dell'Associazione patriottica dei cattolici cinesi (AP), l'organismo di controllo voluto dal Partito comunista allo scopo di costituire una chiesa indipendente da Roma.
Questi ultimi nove arresti potrebbero essere una ritorsione per quanto detto il giorno di Santo Stefano da Papa Benedetto XVI, che all'Angelus ha ricordato, con riferimento alla situzione cinese, il sacrificio dei cristiani perseguitati per la loro fedeltà alla Chiesa di Roma.
Sarebbe questa una buona occasione per farsi sentire con i vertici della Repubblica popolare cinese, a meno che non s'intenda continuare a chiudere gli occhi illudendosi che il commercio e le rituali esortazioni formali di per sé bastino a garantire progressi anche sul piano dei diritti umani.
Il colpo basso di Magdi Allam
Peccato che Magdi Allam, nell'editoriale di oggi sulla condanna a morte di Saddam, sia caduto così in basso. Peccato che abbia ritenuto di ricorrere a una ignobile strumentalizzazione, chiamando in causa Welby, la cui sacralità della vita sarebbe stata violata da chi oggi invoca la sacralità della vita di Saddam. Peccato, perché certe contraddizioni di questa eccezionale mobilitazione per salvare dalla forca Saddam Hussein le aveva colte.
In un paese come l'Italia, capace di riscoprire il sentimento di unità nazionale solo in occasione dei mondiali di calcio, e in cui la politica è così rissosa da non riuscire a trovare momenti di intesa, né bipartisan, né all'interno di una coalizione di governo, sulle principali questioni d'interesse generale, suscita qualche sospetto che si sia costituito un «fronte così ampio e compatto» proprio per salvare la vita al genocida Saddam.
In realtà, tolti i radicali, che con "Nessuno tocchi Caino" da anni portano avanti con coerenza e a 360° la battaglia contro la pena di morte, all'iniziativa di Pannella si è accodato un corteo di approfittatori e anime belle.
Se questa mobilitazione è così genuina, perché nessuna iniziativa, nessun gesto simbolico per «le decine di civili innocenti che ogni giorno vengono massacrati dai terroristi di Bin Laden, di Saddam, dell'Iran o della Siria?». Perché nessun interesse per il regime saudita o quello iraniano che «regolarmente danno in pasto alla loro gente lo spettacolo pubblico della decapitazione o impiccagione dei trasgressori della morale islamica?». E perché «la sensibilità collettiva degli italiani non scatta quando al patibolo ci vanno i cinesi, gli americani o i giapponesi?».
In realtà, la maggior parte dei politici di sinistra e dei commentatori sui giornali che si sono aggregati a Pannella ci hanno visto una buona occasione per fare bella figura a buon mercato. Gente che quando bisogna davvero impegnarsi contro la pena di morte nel mondo, quando le uccisioni vengono commesse da altri regimi, di colpo scompaiono dalla nostra vista.
In un paese come l'Italia, capace di riscoprire il sentimento di unità nazionale solo in occasione dei mondiali di calcio, e in cui la politica è così rissosa da non riuscire a trovare momenti di intesa, né bipartisan, né all'interno di una coalizione di governo, sulle principali questioni d'interesse generale, suscita qualche sospetto che si sia costituito un «fronte così ampio e compatto» proprio per salvare la vita al genocida Saddam.
In realtà, tolti i radicali, che con "Nessuno tocchi Caino" da anni portano avanti con coerenza e a 360° la battaglia contro la pena di morte, all'iniziativa di Pannella si è accodato un corteo di approfittatori e anime belle.
Se questa mobilitazione è così genuina, perché nessuna iniziativa, nessun gesto simbolico per «le decine di civili innocenti che ogni giorno vengono massacrati dai terroristi di Bin Laden, di Saddam, dell'Iran o della Siria?». Perché nessun interesse per il regime saudita o quello iraniano che «regolarmente danno in pasto alla loro gente lo spettacolo pubblico della decapitazione o impiccagione dei trasgressori della morale islamica?». E perché «la sensibilità collettiva degli italiani non scatta quando al patibolo ci vanno i cinesi, gli americani o i giapponesi?».
In realtà, la maggior parte dei politici di sinistra e dei commentatori sui giornali che si sono aggregati a Pannella ci hanno visto una buona occasione per fare bella figura a buon mercato. Gente che quando bisogna davvero impegnarsi contro la pena di morte nel mondo, quando le uccisioni vengono commesse da altri regimi, di colpo scompaiono dalla nostra vista.
Adesso liberate anche Eluana
E' il padre Beppino, intervistato da Corriere.it, a combattere la battaglia per la figlia, Eluana, mantenuta artificialmente in coma da 15 anni senza alcun segno e possibilità di miglioramento. E' «oggetto di violenze terapeutiche da parte del sistema», denuncia il genitore. «Non hanno recuperato mai niente, ma non per loro incompetenza». Perché una volta attivate certe terapie, che stabilizzano una situazione vegetativa, si ferma il processo naturale del morire e tornare indietro non è più possibile. «Portano le persone in una condizione che non esiste in natura e poi la tutelano dicendo che la persona non è morta». Ma «con quale diritto lo Stato, attraverso medici e magistrati, può disporre di vite altrui?»
Già, ce lo chiediamo anche noi.
Già, ce lo chiediamo anche noi.
Thursday, December 28, 2006
Pannella ascolti Panella
Chissà se Pannella darà ascolto al suo quasi omonimo Carlo Panella, che oggi, intervistato da Radio Radicale, ha dato alcune notizie qui già note da tempo ma che potrebbero risultare nuove al leader radicale, in questo periodo piuttosto male informato di cose estere.
Esiste la possibilità, secondo Panella, che il Governo iracheno ci riservi una sorpresa decidendo di rinviare l'esecuzione di Saddam per arrivare alla fine dei processi a suo carico. D'altronde, si tratta del «primo dittatore che pur potendo essere ucciso durante la cattura in un contesto di guerra, le autorità americane e irachene hanno invece deciso di processare». E' l'unica valutazione su cui forse Panella s'inganna, visto che voci insistenti delle ultime ore parlano di esecuzione ormai imminente.
Anche lo studioso di islam si dice contrario alla pena di morte per Saddam, ma avverte che se l'esecuzione adesso certo non favorirebbe il raggiungimento di un accordo di pace tra il governo e le componenti sunnite, tuttavia la concezione della giustizia nel mondo islamico e il contesto di violenza in Iraq sono tali per cui si rischia anche «un contraccolpo»: che Saddam non venga ucciso venga interpretato non come «gesto di pace», come vorrebbe Pannella, ma come un «segno di straordinaria debolezza politica».
Panella ricorda che ci sono state, eccome, le trattative tra Saddam e le autorità irachene per l'appello alla pacificazione del paese, nel quale il leader radicale ripone tante speranze, ma sono fallite, perché Saddam e gli ex baathisti pretendevano non solo la salvezza dell'ex raìs, ma anche un pieno riconoscimento politico.
Per questo, Panella suggerisce al leader radicale di non rivolgersi solo al Governo iracheno perché risparmi la vita a Saddam, ma anche all'ex dittatore perché paghi il «prezzo del suo sangue» attivandosi davvero per la pacificazione, lanciando un appello ad abbandonare le armi e a partecipare alla costruzione di un Iraq democratico. Sarebbe anche un modo per definire meglio politicamente l'iniziativa "Nessuno tocchi Saddam". Tentar non nuoce, ma questo, insiste Panella, è il prezzo minimo che Saddam dev'essere disposto a pagare per salvarsi. Altrimenti, tenerlo in vita sarebbe troppo rischioso.
Su un'altra balla si fonda, in gran parte, il giudizio negativo di Pannella sull'amministrazione Bush. Per qualche strano motivo si è convinto che Saddam nel 2003 fosse pronto ad accettare la via dell'esilio ma che gli americani a quel punto volessero a tutti i costi la guerra e la trattativa per questo non andò in porto. Capita anche questo quando l'unica fonte d'informazione sulle cose estere è Le Monde.
In ogni caso, Panella, attento studioso della vita di Saddam Hussein, sulla quale ha scritto un libro, ha negato che le cose siano andate in questo modo. Saddam ha accettato la trattativa perché gli conveniva, ma non sarebbe mai stato disposto a un esilio che per lui equivaleva a un'umiliazione. Tale ipotesi, è pronto a giurare Panella, è «totalmente al di fuori della logica di Saddam, che è un personaggio nazista, dalla mentalità nazista».
Panella non si basa solo sulla sua profonda conoscenza della personalità del dittatore, ma ricorda dati di fatto che su questo blog cerco di sottolineare da tempo. Saddam, amico personale di Chirac, era sinceramente convinto che la pressione francese (e russa, aggiungiamo noi) al Consiglio di Sicurezza avrebbe indebolito gli americani e che questi alla fine non avrebbero portato la loro azione fino in fondo. Spesso i dittatori, anche nel valutare lo scenario internazionale in cui si muovono, sono vittime del loro stesso isolamento e tendono a nutrire una fiducia smisurata nelle loro risorse.
La proposta di Pannella "Iraq libero", che prevedeva l'esilio del dittatore Saddam, era destinata al fallimento non perché Bush e Blair avessero il grilletto facile, ma perché presupponeva un'ampia convergenza delle maggiori potenze (i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, o per lo meno l'Europa intera) per il cambio di regime a Baghdad. Invece, non solo le piazze occidentali erano tutte schierate con Saddam, ma anche i governi di Francia e Russia si sono attivamente adoperati affinché Saddam restasse al potere. In un simile clima aveva più possibilità di riuscita l'esilio di Blair dall'Europa. E ci auguriamo che Pannella trovi pace con questi fatti.
Esiste la possibilità, secondo Panella, che il Governo iracheno ci riservi una sorpresa decidendo di rinviare l'esecuzione di Saddam per arrivare alla fine dei processi a suo carico. D'altronde, si tratta del «primo dittatore che pur potendo essere ucciso durante la cattura in un contesto di guerra, le autorità americane e irachene hanno invece deciso di processare». E' l'unica valutazione su cui forse Panella s'inganna, visto che voci insistenti delle ultime ore parlano di esecuzione ormai imminente.
Anche lo studioso di islam si dice contrario alla pena di morte per Saddam, ma avverte che se l'esecuzione adesso certo non favorirebbe il raggiungimento di un accordo di pace tra il governo e le componenti sunnite, tuttavia la concezione della giustizia nel mondo islamico e il contesto di violenza in Iraq sono tali per cui si rischia anche «un contraccolpo»: che Saddam non venga ucciso venga interpretato non come «gesto di pace», come vorrebbe Pannella, ma come un «segno di straordinaria debolezza politica».
Panella ricorda che ci sono state, eccome, le trattative tra Saddam e le autorità irachene per l'appello alla pacificazione del paese, nel quale il leader radicale ripone tante speranze, ma sono fallite, perché Saddam e gli ex baathisti pretendevano non solo la salvezza dell'ex raìs, ma anche un pieno riconoscimento politico.
Per questo, Panella suggerisce al leader radicale di non rivolgersi solo al Governo iracheno perché risparmi la vita a Saddam, ma anche all'ex dittatore perché paghi il «prezzo del suo sangue» attivandosi davvero per la pacificazione, lanciando un appello ad abbandonare le armi e a partecipare alla costruzione di un Iraq democratico. Sarebbe anche un modo per definire meglio politicamente l'iniziativa "Nessuno tocchi Saddam". Tentar non nuoce, ma questo, insiste Panella, è il prezzo minimo che Saddam dev'essere disposto a pagare per salvarsi. Altrimenti, tenerlo in vita sarebbe troppo rischioso.
Su un'altra balla si fonda, in gran parte, il giudizio negativo di Pannella sull'amministrazione Bush. Per qualche strano motivo si è convinto che Saddam nel 2003 fosse pronto ad accettare la via dell'esilio ma che gli americani a quel punto volessero a tutti i costi la guerra e la trattativa per questo non andò in porto. Capita anche questo quando l'unica fonte d'informazione sulle cose estere è Le Monde.
In ogni caso, Panella, attento studioso della vita di Saddam Hussein, sulla quale ha scritto un libro, ha negato che le cose siano andate in questo modo. Saddam ha accettato la trattativa perché gli conveniva, ma non sarebbe mai stato disposto a un esilio che per lui equivaleva a un'umiliazione. Tale ipotesi, è pronto a giurare Panella, è «totalmente al di fuori della logica di Saddam, che è un personaggio nazista, dalla mentalità nazista».
Panella non si basa solo sulla sua profonda conoscenza della personalità del dittatore, ma ricorda dati di fatto che su questo blog cerco di sottolineare da tempo. Saddam, amico personale di Chirac, era sinceramente convinto che la pressione francese (e russa, aggiungiamo noi) al Consiglio di Sicurezza avrebbe indebolito gli americani e che questi alla fine non avrebbero portato la loro azione fino in fondo. Spesso i dittatori, anche nel valutare lo scenario internazionale in cui si muovono, sono vittime del loro stesso isolamento e tendono a nutrire una fiducia smisurata nelle loro risorse.
La proposta di Pannella "Iraq libero", che prevedeva l'esilio del dittatore Saddam, era destinata al fallimento non perché Bush e Blair avessero il grilletto facile, ma perché presupponeva un'ampia convergenza delle maggiori potenze (i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, o per lo meno l'Europa intera) per il cambio di regime a Baghdad. Invece, non solo le piazze occidentali erano tutte schierate con Saddam, ma anche i governi di Francia e Russia si sono attivamente adoperati affinché Saddam restasse al potere. In un simile clima aveva più possibilità di riuscita l'esilio di Blair dall'Europa. E ci auguriamo che Pannella trovi pace con questi fatti.
Se anche Il Foglio fa del relativismo culturale
Che clamoroso autogol l'editoriale con cui oggi Il Foglio tratta la questione della condanna a morte di Saddam Hussein. Una svista che pone il giornale in contraddizione con la linea di Bush e dei neoconservatori di esportazione della democrazia, sostenuta con forza e coerenza negli ultimi anni. Una contraddizione che esplode non nel merito, perché si ritiene politicamente opportuna l'esecuzione di Saddam, ma nell'argomento centrale dell'articolo.
Per anni - e noi d'accordo - a rimproverare tutti coloro che dicevano essere utopistico trasferire in una società islamica un sistema politico di concezione occidentale come la democrazia.
Oggi, invece, dobbiamo leggere su Il Foglio che quanti sono contrari alla pena di morte per Saddam commettono «l'errore di trasferire in una società islamica una concezione occidentale del rapporto tra politica e morale». Addirittura, si fa notare, «se in pressoché tutti gli stati islamici è vigente la pena di morte, una ragione ci sarà». Ahi, quale palese contraddizione! Non è forse questo l'argomento principe, che tanto abbiamo contestato ai realisti e ai relativisti culturali, contro l'idea di esportazione della democrazia in Iraq e in Medio Oriente? «Se in pressoché tutti gli stati islamici non c'è democrazia, una ragione ci sarà», si potrebbe sostenere.
Se riteniamo la democrazia e la libertà valori universali a cui aspirano tutte le genti, anche il rifiuto della pena di morte può benissimo far parte di questo pacchetto di valori "esportabili".
Pensare di «imporre lì un modo di ragionare estraneo», come il rifiuto della pena di morte, può benissimo essere «una forma di colonialismo culturale, addirittura di presunzione di superiorità della civiltà occidentale», come scrive sorprendentemente oggi Il Foglio, ma allora è «colonialismo culturale» e arroganza occidentale anche imporre la democrazia.
No, non può essere questo l'errore che commette chi è contrario alla condanna a morte dell'ex raìs. Decisamente non è questo l'argomento che ci saremmo aspettati dal giornale di Ferrara per contraddire le molte voci che si sono levate per salvare l'ex dittatore dalla forca. Eccone tre validi:
1) Se è assai improbabile che di per sé l'esecuzione di Saddam porrà fine alle violenze consentendo al Governo di Baghdad di ottenere il controllo del territorio, si può però ragionevolmente sostenere che Saddam rinchiuso per decenni in un carcere iracheno rappresenti un'ombra incombente, un elemento di destabilizzazione troppo pericoloso per la giovane democrazia.
2) E' storicamente falso che non possa nascere una vera democrazia dall'uccisione di un tiranno. Anzi, spesso un episodio violento di quel genere si rivela un contributo proprio alla democrazia e alla pace.
3) La commutazione della pena di morte a Saddam in ergastolo, in assenza di un suo impegno concreto per la pacificazione, non sarebbe affatto di per sé «un grande atto di pace», ma verrebbe percepita come un segno di debolezza nel contesto di guerra che si vive in Iraq.
Insomma, l'unico argomento fondato contro la condanna a morte di Saddam Hussein rimane quello di principio: uno Stato non ha il diritto di uccidere un suo cittadino attraverso la sentenza di un tribunale, neanche un genocida.
Non ci si venga però a raccontare che i popoli arabi per qualche innata ragione non siano in grado di convincersi di questo principio, o che non siano pronti per la democrazia. Pensare di «trasferire» queste concezioni in una società islamica sarà anche «una forma di colonialismo culturale», ma ritenere che la pena di morte, come l'assenza di democrazia, sia qualcosa di connaturato all'essere arabo è di sicuro una forma di relativismo culturale e di strisciante razzismo.
Per anni - e noi d'accordo - a rimproverare tutti coloro che dicevano essere utopistico trasferire in una società islamica un sistema politico di concezione occidentale come la democrazia.
Oggi, invece, dobbiamo leggere su Il Foglio che quanti sono contrari alla pena di morte per Saddam commettono «l'errore di trasferire in una società islamica una concezione occidentale del rapporto tra politica e morale». Addirittura, si fa notare, «se in pressoché tutti gli stati islamici è vigente la pena di morte, una ragione ci sarà». Ahi, quale palese contraddizione! Non è forse questo l'argomento principe, che tanto abbiamo contestato ai realisti e ai relativisti culturali, contro l'idea di esportazione della democrazia in Iraq e in Medio Oriente? «Se in pressoché tutti gli stati islamici non c'è democrazia, una ragione ci sarà», si potrebbe sostenere.
Se riteniamo la democrazia e la libertà valori universali a cui aspirano tutte le genti, anche il rifiuto della pena di morte può benissimo far parte di questo pacchetto di valori "esportabili".
Pensare di «imporre lì un modo di ragionare estraneo», come il rifiuto della pena di morte, può benissimo essere «una forma di colonialismo culturale, addirittura di presunzione di superiorità della civiltà occidentale», come scrive sorprendentemente oggi Il Foglio, ma allora è «colonialismo culturale» e arroganza occidentale anche imporre la democrazia.
No, non può essere questo l'errore che commette chi è contrario alla condanna a morte dell'ex raìs. Decisamente non è questo l'argomento che ci saremmo aspettati dal giornale di Ferrara per contraddire le molte voci che si sono levate per salvare l'ex dittatore dalla forca. Eccone tre validi:
1) Se è assai improbabile che di per sé l'esecuzione di Saddam porrà fine alle violenze consentendo al Governo di Baghdad di ottenere il controllo del territorio, si può però ragionevolmente sostenere che Saddam rinchiuso per decenni in un carcere iracheno rappresenti un'ombra incombente, un elemento di destabilizzazione troppo pericoloso per la giovane democrazia.
2) E' storicamente falso che non possa nascere una vera democrazia dall'uccisione di un tiranno. Anzi, spesso un episodio violento di quel genere si rivela un contributo proprio alla democrazia e alla pace.
3) La commutazione della pena di morte a Saddam in ergastolo, in assenza di un suo impegno concreto per la pacificazione, non sarebbe affatto di per sé «un grande atto di pace», ma verrebbe percepita come un segno di debolezza nel contesto di guerra che si vive in Iraq.
Insomma, l'unico argomento fondato contro la condanna a morte di Saddam Hussein rimane quello di principio: uno Stato non ha il diritto di uccidere un suo cittadino attraverso la sentenza di un tribunale, neanche un genocida.
Non ci si venga però a raccontare che i popoli arabi per qualche innata ragione non siano in grado di convincersi di questo principio, o che non siano pronti per la democrazia. Pensare di «trasferire» queste concezioni in una società islamica sarà anche «una forma di colonialismo culturale», ma ritenere che la pena di morte, come l'assenza di democrazia, sia qualcosa di connaturato all'essere arabo è di sicuro una forma di relativismo culturale e di strisciante razzismo.
La Somalia nuovo fronte della jihad di Al Qaida
Ha ragione Magdi Allam: poiché è impossibile sostenere «che la guerra in Somalia sia una sorta di metastasi del cancro iracheno», allora si deve concludere «che questo terrorismo islamico globalizzato è tutt'altro che reattivo, bensì il frutto deliberato di una strategia aggressiva decisa e attuata da potenti burattinai con lo scopo manifesto di dar vita a un Califfato Islamico Internazionale».
L'Etiopia non ha alcuna intenzione di occupare la Somalia. L'esercito etiopico è entrato in Somalia su richiesta del Governo transitorio somalo, la sola autorità riconosciuta dalla comunità internazionale. Non ci sono petrolio o altre risorse naturali in gioco. L'unico motivo per cui l'esercito etiopico è intervenuto è perché Addis Abeba teme che il contagio dell'estremismo islamico possa diffondersi da una Somalia in mano alle cosiddette Corti islamiche legate ad Al Qaida e ai paesi del Golfo.
Il Califfato di Al Qaida ha lanciato un comunicato in cui invita tutti a unirsi «ai fratelli somali» contro gli etiopi appoggiati dagli americani.
Insomma, quello islamista è un espansionismo che procede secondo piani e strategie indipendenti dalle politiche dei paesi occidentali. Non è la reazione alle presunte politiche inique degli Stati Uniti. E' falso che le guerre in Iraq e Afghanistan abbiano alimentato il terrorismo, semmai l'hanno costretto a uscire allo scoperto. Le facili conquiste delle Corti islamiche in Somalia, grazie anche a migliaia di jihadisti arabi, dimostrano che l'inazione è una scelta politica come l'azione, solo che è la scelta sbagliata.
«Non ci sono scorciatoie», avverte Magdi Allam. Né corteggiare gli islamisti, né affidarsi all'Onu, la cui missione è fuggita dalla Somalia nel 1995, sono delle soluzioni: «Se vogliamo la pace in Somalia, dobbiamo affrontare insieme la minaccia del terrorismo islamico globalizzato che è riuscito anche lì, tra l'indifferenza generale, a insediare il proprio potere».
L'Etiopia non ha alcuna intenzione di occupare la Somalia. L'esercito etiopico è entrato in Somalia su richiesta del Governo transitorio somalo, la sola autorità riconosciuta dalla comunità internazionale. Non ci sono petrolio o altre risorse naturali in gioco. L'unico motivo per cui l'esercito etiopico è intervenuto è perché Addis Abeba teme che il contagio dell'estremismo islamico possa diffondersi da una Somalia in mano alle cosiddette Corti islamiche legate ad Al Qaida e ai paesi del Golfo.
Il Califfato di Al Qaida ha lanciato un comunicato in cui invita tutti a unirsi «ai fratelli somali» contro gli etiopi appoggiati dagli americani.
Insomma, quello islamista è un espansionismo che procede secondo piani e strategie indipendenti dalle politiche dei paesi occidentali. Non è la reazione alle presunte politiche inique degli Stati Uniti. E' falso che le guerre in Iraq e Afghanistan abbiano alimentato il terrorismo, semmai l'hanno costretto a uscire allo scoperto. Le facili conquiste delle Corti islamiche in Somalia, grazie anche a migliaia di jihadisti arabi, dimostrano che l'inazione è una scelta politica come l'azione, solo che è la scelta sbagliata.
«Non ci sono scorciatoie», avverte Magdi Allam. Né corteggiare gli islamisti, né affidarsi all'Onu, la cui missione è fuggita dalla Somalia nel 1995, sono delle soluzioni: «Se vogliamo la pace in Somalia, dobbiamo affrontare insieme la minaccia del terrorismo islamico globalizzato che è riuscito anche lì, tra l'indifferenza generale, a insediare il proprio potere».
Non è la condanna a morte di Saddam a minacciare il futuro del nuovo Iraq
Non l'impiccagione di Saddam, ma la guerra che Al Qaeda, Siria e Iran alimentano sulla pelle degli iracheni pregiudica lo sviluppo democratico del paese
La condanna a morte dell'ex dittatore non rende il nuovo Iraq simile al vecchio o alle altre dittature arabe. Pur imperfetto, sta nel processo secondo i dettami dello stato di diritto la differenza
Parte la lacrimosa mobilitazione per salvare dalla forca il dittatore Saddam Hussein. Come spesso accade si intrecciano diverse istanze: le più nobili, i tipici casi di retorica da salotto e bella mostra di grandi principi a buon mercato, le strumentalizzazioni. Soprattutto da parte di chi, oggi al Governo, ha ostacolato e infine deciso di non presentare all'Onu una risoluzione per la moratoria universale della pena capitale, da parte di chi mostra scarso o nullo interesse per gli adolescenti omosessuali appesi alle gru in Iran, la denuncia della condanna a morte inflitta a Saddam appare strumentale alla delegittimazione del governo e delle istituzioni irachene sorte dopo l'intervento anglo-americano in Iraq e in generale a dimostrare che la nuova barbarie è simile alla vecchia e frutto dei fallimenti della politica americana.
Tutti coloro, e non sono pochi, che si ricordano della pena di morte solo quando il condannato è un ex dittatore deposto dall'esercito americano dovrebbero innanzitutto denunciare l'uccisione extragiudiziale di Mussolini da parte delle forze partigiane. S'insinua addirittura il dubbio che siano gli americani a volere la morte di Saddam per impedire che altri processi facciano luce sulle complicità di cui l'ex raìs ha goduto in Occidente, senza ricordare che gli stessi americani e gli iracheni avrebbero potuto risolvere la questione con una pallottola in fronte, durante l'azione che ha portato alla sua cattura, ma hanno preferito condurlo dinanzi alla giustizia. Magari fossimo stati in grado di fare altrettanto con Mussolini.
Isolato, c'è il rigore ideale di Marco Pannella, in sciopero della fame e della sete «perché il Governo Italiano mobiliti subito la comunità internazionale per impedire l'immediata esecuzione di Saddam». Qui la coerente battaglia radicale contro la pena di morte nel mondo vede in Saddam un Caino esemplare e un'occasione imperdibile per «far esplodere nel cuore del Medio Oriente e nel mondo un grande atto di pace, un grande dibattito nei popoli e nelle coscienze, lo scandalo della nonviolenza come alternativa alle dittature e alla guerra».
In questo caso l'astrattezza dei principi rischia però di prendere il sopravvento sulla concretezza della realtà. Qual è, davvero, il dibattito che dovrebbe esplodere presso i popoli arabi?
Ci sono motivi di principio e di convenienza che ci rendono contrari all'«omicidio di Stato», ma il dato più rilevante è che gli arabi, per la prima volta, vedano un tiranno chiamato a rispondere dei crimini che ha commesso davanti a una giustizia civile legittimamente istituita. Il dato fondamentale di progresso è il dittatore alla sbarra. Il fatto che la umma sunnita, che si sente la nazione araba eletta a comandare sugli altri musulmani, veda la fine del campione del panarabismo e del suo presunto intrinseco diritto a comandare; e che gli altri autocrati della regione vedano come ipotesi non più così remota venire anch'essi un giorno raggiunti dalla giustizia dei loro popoli.
Uccidendo Saddam si crea un martire e si alimentano le violenze in Iraq, sostengono in molti. Per farsi venire qualche dubbio basterebbe chiedersi quali ulteriori frustrazioni e violenze potrebbe, viceversa, causare la sua mancata esecuzione. D'altronde, la rabbia per l'uccisione dell'ex tiranno riguarderebbe i ristrettissimi clan che hanno beneficiato del suo regime. Se questi sono numericamente tanto consistenti da mettere a ferro e fuoco Baghdad con le autobomba già oggi, anche perché non contrastati né dalle forze di sicurezza irachene né dai soldati americani, appaiono però del tutto insignificanti se paragonati ai milioni di iracheni (curdi, sciiti, ma anche sunniti) che quella stessa reazione di rabbia potrebbero averla, e riversarla contro le giovani istituzioni del paese, vedendo il dittatore farla franca ancora una volta.
Soprattutto, a questo punto, l'intervento esterno di un Deus ex machina che arriva e si permette di riscrivere la sentenza (30 anni, propone salomonicamente Pannella) verrebbe interpretato come il massimo del sopruso alla fragile autodeterminazione appena riconquistata dal popolo iracheno. Abbiamo rimosso gli ostacoli, ora siano gli iracheni a decidere, nel bene e nel male.
Va considerato anche che oggi l'Iraq è un paese in guerra. Una guerra di cui Saddam è ancora pienamente parte, con molti ex baathisti in giro ad incutere timore nella popolazione, che ancora fatica a credere quella di Saddam un'epoca che non tornerà. Proprio per il ruolo che ancora oggi giocano l'ex raìs e i suoi fedelissimi nel caos iracheno, la via di una trattativa con Saddam, per ottenere da lui un appello alla pacificazione, è già stata praticata dalle autorità, ma evidentemente con scarso successo.
L'impiccagione di Saddam non chiuderà forse la stagione del sangue, perché è la guerra alimentata da Al Qaeda, Siria e Iran sulla pelle del popolo iracheno la vera minaccia che grava oggi sullo sviluppo democratico del paese, ma toglierà comunque dalla scena un'ingombrante ombra del passato. Spesso, storicamente, l'eliminazione di un dittatore si è rivelata un contributo alla democrazia e alla pace. E' ragionevole pensare che possa esserlo soprattutto dopo un regolare processo.
Si può certamente definire una condanna a morte «un atto infame», ma in nessun modo è paragonabile a «quelli che furono propri di Saddam Hussein stesso». Saddam si è avvalso di ciò che ha negato alle sue vittime: un processo pubblico, fondato su delle prove, con avvocati difensori di sua fiducia. La condanna a morte dell'ex dittatore non rende il nuovo Iraq uguale al precedente regime baathista, altrimenti dovremmo sostenere che ben 37 degli Stati Uniti siano paragonabili all'Iraq di Saddam. Sarebbe semplicemente ridicolo.
Ma è qui l'equivoco di fondo. Per quanto da abolizionisti riteniamo quella contro la pena di morte una sacrosanta battaglia di elevazione della civiltà giuridica di un paese, essa non attiene alla democrazia e allo stato di diritto. La presenza della pena di morte nella giurisdizione di un paese, per quanto esecrabile, non è di per sé indice di assenza di democrazia e di stato di diritto. Le prime e più mature democrazie del pianeta hanno previsto e prevedono la pena capitale nei loro ordinamenti e ciò non gli ha impedito di svolgere nei secoli il ruolo di autentici fari della democrazia nel mondo.
Se nella pena di morte troviamo un'analogia tra paesi così diversi come Stati Uniti, Iraq, Iran o Cina, a rendere ridicolo il fatto stesso di paragonarli è un fattore ben più dirimente: il rispetto o meno dello stato di diritto.
Per questo motivo possiamo dirci contrari alla pena di morte ma riconoscere che per la prima volta il mondo arabo, abituato a vedere leader assassinati o deposti extra legem, ha conosciuto la supremazia della legge, ha assistito a un processo dove il tiranno, giudicato da una corte legittimata da istituzioni elette, ha dovuto affrontare le proprie responsabilità, e dove la condanna è avvenuta secondo i dettami di uno stato di diritto. Uno stato di diritto certo imperfetto e sottoposto alle intimidazioni di entrambe le parti durante tutto il processo, ma pur sempre raro nella regione. Ora spetta agli iracheni farlo evolvere.
Chi parla di «giustizia dei vincitori» dovrebbe ricordare che fu proprio questa l'espressione coniata dal gerarca nazista Goering per delegittimare Norimberga. Il ricorso alla pena capitale nei confronti dei nazisti non ha oscurato il grande progresso giuridico rappresentato dal perseguimento dei crimini contro l'umanità. Ironia della sorte, chi come Antonio Cassese parla di «giustizia dei vincitori» è poi pronto a invocarla alla massima potenza quando pretende che siano ricostruiti processualmente decenni di crimini, arrivando a teorizzare una presunta «funzione di chiarificazione storica» del e nel processo. E' qui che si apre una grande questione giuridica su cosa sia il processo, sui limiti della giustizia internazionale e sulla funzione stessa della giustizia umana.
Cassese propone esattamente la riedizione del fallimentare processo a Milosevic. L'enorme mole di documenti e testimonianze necessari alla titanica impresa di ricostruire tutti i suoi crimini nel corso di decenni, senza individuarne uno in particolare, hanno permesso al sanguinario dittatore dei Balcani di sfuggire alla sentenza e di trasformare le udienze in una sua personale tribuna politica. Era un lavoro per gli storici, non per i tribunali.
I procuratori all'opera nel processo Saddam (preparati in Gran Bretagna) hanno optato invece per una strategia pragmatica (ricorda quella che inchiodò Al Capone per evasione fiscale), isolando tra tutti i crimini il massacro di Dujail, tutto sommato "minore" rispetto ad altri eccidi di massa, ma scelto per la gran quantità di testimonianze e prove incontrovertibili in grado di portare a un giudizio rapido.
Il problema è che nella cultura giuridica prevalente in Europa continentale è ancora radicata la presunzione che attraverso il processo si possa e si debba giungere a una sorta di verità storica e ontologica, a un giudizio morale definitivo sulla persona imputata. Dunque, sembra quasi che spostando il processo a una sede e a un livello internazionale si ricorra a un occhio superiore e a un ente infallibile. Non è così. E' questo un pregiudizio che rischia di minare alle fondamenta la credibilità e la possibilità stessa della giustizia internazionale. Nei tribunali non si fa Storia, né si fanno operazioni Verità. La giustizia è amministrata da uomini limitati e fallibili. Nel processo si devono accertare fatti precisi limitati nello spazio e nel tempo, chiedendo conto all'imputato del comportamento tenuto in una data circostanza.
Continuare a sostenere che per il "caso Saddam" fosse opportuno un Tribunale internazionale è profondamente sbagliato per due ragioni. Innanzitutto, lo stesso statuto del Tribunale penale internazionale stabilisce che la sua giurisdizione può scattare solo in vece delle giurisdizioni nazionali inadempienti e fissa il limite giuridico della irretroattività, che avrebbe impedito di processare Saddam per la maggior parte dei suoi crimini. Forse un tribunale misto, composto sia da giudici iracheni che internazionali, in accordo tra il governo iracheno e le Nazioni Unite, avrebbe fornito più garanzie, ma l'essenziale era, ed è, un processo che si svolgesse in Iraq e si celebrasse in arabo.
Ma soprattutto, anche nel perseguire feroci dittatori dobbiamo ricordarci dei principi generali della civiltà giuridica liberale, secondo i quali i crimini devono essere perseguiti laddove sono commessi e l'imputato giudicato dai suoi giudici naturali, emanazione diretta della cittadinanza di cui fa parte. Spesso ci si scorda del legame inscindibile tra democrazia, giustizia e territorio: democrazia e giustizia rispondono al meglio al loro scopo di regolare la convivenza civile quanto più la pratica della prima e l'amministrazione della seconda sono vincolate a un territorio circoscritto e impegnano una determinata comunità.
La condanna a morte dell'ex dittatore non rende il nuovo Iraq simile al vecchio o alle altre dittature arabe. Pur imperfetto, sta nel processo secondo i dettami dello stato di diritto la differenza
Parte la lacrimosa mobilitazione per salvare dalla forca il dittatore Saddam Hussein. Come spesso accade si intrecciano diverse istanze: le più nobili, i tipici casi di retorica da salotto e bella mostra di grandi principi a buon mercato, le strumentalizzazioni. Soprattutto da parte di chi, oggi al Governo, ha ostacolato e infine deciso di non presentare all'Onu una risoluzione per la moratoria universale della pena capitale, da parte di chi mostra scarso o nullo interesse per gli adolescenti omosessuali appesi alle gru in Iran, la denuncia della condanna a morte inflitta a Saddam appare strumentale alla delegittimazione del governo e delle istituzioni irachene sorte dopo l'intervento anglo-americano in Iraq e in generale a dimostrare che la nuova barbarie è simile alla vecchia e frutto dei fallimenti della politica americana.
Tutti coloro, e non sono pochi, che si ricordano della pena di morte solo quando il condannato è un ex dittatore deposto dall'esercito americano dovrebbero innanzitutto denunciare l'uccisione extragiudiziale di Mussolini da parte delle forze partigiane. S'insinua addirittura il dubbio che siano gli americani a volere la morte di Saddam per impedire che altri processi facciano luce sulle complicità di cui l'ex raìs ha goduto in Occidente, senza ricordare che gli stessi americani e gli iracheni avrebbero potuto risolvere la questione con una pallottola in fronte, durante l'azione che ha portato alla sua cattura, ma hanno preferito condurlo dinanzi alla giustizia. Magari fossimo stati in grado di fare altrettanto con Mussolini.
Isolato, c'è il rigore ideale di Marco Pannella, in sciopero della fame e della sete «perché il Governo Italiano mobiliti subito la comunità internazionale per impedire l'immediata esecuzione di Saddam». Qui la coerente battaglia radicale contro la pena di morte nel mondo vede in Saddam un Caino esemplare e un'occasione imperdibile per «far esplodere nel cuore del Medio Oriente e nel mondo un grande atto di pace, un grande dibattito nei popoli e nelle coscienze, lo scandalo della nonviolenza come alternativa alle dittature e alla guerra».
In questo caso l'astrattezza dei principi rischia però di prendere il sopravvento sulla concretezza della realtà. Qual è, davvero, il dibattito che dovrebbe esplodere presso i popoli arabi?
Ci sono motivi di principio e di convenienza che ci rendono contrari all'«omicidio di Stato», ma il dato più rilevante è che gli arabi, per la prima volta, vedano un tiranno chiamato a rispondere dei crimini che ha commesso davanti a una giustizia civile legittimamente istituita. Il dato fondamentale di progresso è il dittatore alla sbarra. Il fatto che la umma sunnita, che si sente la nazione araba eletta a comandare sugli altri musulmani, veda la fine del campione del panarabismo e del suo presunto intrinseco diritto a comandare; e che gli altri autocrati della regione vedano come ipotesi non più così remota venire anch'essi un giorno raggiunti dalla giustizia dei loro popoli.
Uccidendo Saddam si crea un martire e si alimentano le violenze in Iraq, sostengono in molti. Per farsi venire qualche dubbio basterebbe chiedersi quali ulteriori frustrazioni e violenze potrebbe, viceversa, causare la sua mancata esecuzione. D'altronde, la rabbia per l'uccisione dell'ex tiranno riguarderebbe i ristrettissimi clan che hanno beneficiato del suo regime. Se questi sono numericamente tanto consistenti da mettere a ferro e fuoco Baghdad con le autobomba già oggi, anche perché non contrastati né dalle forze di sicurezza irachene né dai soldati americani, appaiono però del tutto insignificanti se paragonati ai milioni di iracheni (curdi, sciiti, ma anche sunniti) che quella stessa reazione di rabbia potrebbero averla, e riversarla contro le giovani istituzioni del paese, vedendo il dittatore farla franca ancora una volta.
Soprattutto, a questo punto, l'intervento esterno di un Deus ex machina che arriva e si permette di riscrivere la sentenza (30 anni, propone salomonicamente Pannella) verrebbe interpretato come il massimo del sopruso alla fragile autodeterminazione appena riconquistata dal popolo iracheno. Abbiamo rimosso gli ostacoli, ora siano gli iracheni a decidere, nel bene e nel male.
Va considerato anche che oggi l'Iraq è un paese in guerra. Una guerra di cui Saddam è ancora pienamente parte, con molti ex baathisti in giro ad incutere timore nella popolazione, che ancora fatica a credere quella di Saddam un'epoca che non tornerà. Proprio per il ruolo che ancora oggi giocano l'ex raìs e i suoi fedelissimi nel caos iracheno, la via di una trattativa con Saddam, per ottenere da lui un appello alla pacificazione, è già stata praticata dalle autorità, ma evidentemente con scarso successo.
L'impiccagione di Saddam non chiuderà forse la stagione del sangue, perché è la guerra alimentata da Al Qaeda, Siria e Iran sulla pelle del popolo iracheno la vera minaccia che grava oggi sullo sviluppo democratico del paese, ma toglierà comunque dalla scena un'ingombrante ombra del passato. Spesso, storicamente, l'eliminazione di un dittatore si è rivelata un contributo alla democrazia e alla pace. E' ragionevole pensare che possa esserlo soprattutto dopo un regolare processo.
Si può certamente definire una condanna a morte «un atto infame», ma in nessun modo è paragonabile a «quelli che furono propri di Saddam Hussein stesso». Saddam si è avvalso di ciò che ha negato alle sue vittime: un processo pubblico, fondato su delle prove, con avvocati difensori di sua fiducia. La condanna a morte dell'ex dittatore non rende il nuovo Iraq uguale al precedente regime baathista, altrimenti dovremmo sostenere che ben 37 degli Stati Uniti siano paragonabili all'Iraq di Saddam. Sarebbe semplicemente ridicolo.
Ma è qui l'equivoco di fondo. Per quanto da abolizionisti riteniamo quella contro la pena di morte una sacrosanta battaglia di elevazione della civiltà giuridica di un paese, essa non attiene alla democrazia e allo stato di diritto. La presenza della pena di morte nella giurisdizione di un paese, per quanto esecrabile, non è di per sé indice di assenza di democrazia e di stato di diritto. Le prime e più mature democrazie del pianeta hanno previsto e prevedono la pena capitale nei loro ordinamenti e ciò non gli ha impedito di svolgere nei secoli il ruolo di autentici fari della democrazia nel mondo.
Se nella pena di morte troviamo un'analogia tra paesi così diversi come Stati Uniti, Iraq, Iran o Cina, a rendere ridicolo il fatto stesso di paragonarli è un fattore ben più dirimente: il rispetto o meno dello stato di diritto.
Per questo motivo possiamo dirci contrari alla pena di morte ma riconoscere che per la prima volta il mondo arabo, abituato a vedere leader assassinati o deposti extra legem, ha conosciuto la supremazia della legge, ha assistito a un processo dove il tiranno, giudicato da una corte legittimata da istituzioni elette, ha dovuto affrontare le proprie responsabilità, e dove la condanna è avvenuta secondo i dettami di uno stato di diritto. Uno stato di diritto certo imperfetto e sottoposto alle intimidazioni di entrambe le parti durante tutto il processo, ma pur sempre raro nella regione. Ora spetta agli iracheni farlo evolvere.
Chi parla di «giustizia dei vincitori» dovrebbe ricordare che fu proprio questa l'espressione coniata dal gerarca nazista Goering per delegittimare Norimberga. Il ricorso alla pena capitale nei confronti dei nazisti non ha oscurato il grande progresso giuridico rappresentato dal perseguimento dei crimini contro l'umanità. Ironia della sorte, chi come Antonio Cassese parla di «giustizia dei vincitori» è poi pronto a invocarla alla massima potenza quando pretende che siano ricostruiti processualmente decenni di crimini, arrivando a teorizzare una presunta «funzione di chiarificazione storica» del e nel processo. E' qui che si apre una grande questione giuridica su cosa sia il processo, sui limiti della giustizia internazionale e sulla funzione stessa della giustizia umana.
Cassese propone esattamente la riedizione del fallimentare processo a Milosevic. L'enorme mole di documenti e testimonianze necessari alla titanica impresa di ricostruire tutti i suoi crimini nel corso di decenni, senza individuarne uno in particolare, hanno permesso al sanguinario dittatore dei Balcani di sfuggire alla sentenza e di trasformare le udienze in una sua personale tribuna politica. Era un lavoro per gli storici, non per i tribunali.
I procuratori all'opera nel processo Saddam (preparati in Gran Bretagna) hanno optato invece per una strategia pragmatica (ricorda quella che inchiodò Al Capone per evasione fiscale), isolando tra tutti i crimini il massacro di Dujail, tutto sommato "minore" rispetto ad altri eccidi di massa, ma scelto per la gran quantità di testimonianze e prove incontrovertibili in grado di portare a un giudizio rapido.
Il problema è che nella cultura giuridica prevalente in Europa continentale è ancora radicata la presunzione che attraverso il processo si possa e si debba giungere a una sorta di verità storica e ontologica, a un giudizio morale definitivo sulla persona imputata. Dunque, sembra quasi che spostando il processo a una sede e a un livello internazionale si ricorra a un occhio superiore e a un ente infallibile. Non è così. E' questo un pregiudizio che rischia di minare alle fondamenta la credibilità e la possibilità stessa della giustizia internazionale. Nei tribunali non si fa Storia, né si fanno operazioni Verità. La giustizia è amministrata da uomini limitati e fallibili. Nel processo si devono accertare fatti precisi limitati nello spazio e nel tempo, chiedendo conto all'imputato del comportamento tenuto in una data circostanza.
Continuare a sostenere che per il "caso Saddam" fosse opportuno un Tribunale internazionale è profondamente sbagliato per due ragioni. Innanzitutto, lo stesso statuto del Tribunale penale internazionale stabilisce che la sua giurisdizione può scattare solo in vece delle giurisdizioni nazionali inadempienti e fissa il limite giuridico della irretroattività, che avrebbe impedito di processare Saddam per la maggior parte dei suoi crimini. Forse un tribunale misto, composto sia da giudici iracheni che internazionali, in accordo tra il governo iracheno e le Nazioni Unite, avrebbe fornito più garanzie, ma l'essenziale era, ed è, un processo che si svolgesse in Iraq e si celebrasse in arabo.
Ma soprattutto, anche nel perseguire feroci dittatori dobbiamo ricordarci dei principi generali della civiltà giuridica liberale, secondo i quali i crimini devono essere perseguiti laddove sono commessi e l'imputato giudicato dai suoi giudici naturali, emanazione diretta della cittadinanza di cui fa parte. Spesso ci si scorda del legame inscindibile tra democrazia, giustizia e territorio: democrazia e giustizia rispondono al meglio al loro scopo di regolare la convivenza civile quanto più la pratica della prima e l'amministrazione della seconda sono vincolate a un territorio circoscritto e impegnano una determinata comunità.
Una battaglia per valori universali
«Molti nei Paesi occidentali danno ascolto alla propaganda degli estremisti. Se riconoscessimo questa battaglia per quello che è realmente, saremmo almeno ai primi passi del cammino verso la vittoria. Ma buona parte della nostra opinione pubblica è distante da questa meta»
Tony Blair è un leader che ha compreso la natura dello scontro, e che il maggiore pericolo per l'Occidente è un'opinione pubblica che invece non l'ha compresa o si rifiuta di comprenderla preferendo dare ascolto alla propaganda dei nemici.
E' il leader, l'unico, di una sinistra liberale che non si accontenta di difendere lo status quo e la stabilità, ma che raccoglie la bandiera dell'espansione della democrazia, della lotta contro la tirannia e l'oppressione, sfidando il pacifismo e l'anti-americanismo dei salotti. Lo dimostra in un lungo intervento su Foreign Affairs, da cui il Corriere della Sera ha riportato ieri ampi estratti.
E' una battaglia di idee, innanzitutto. Se non si comprende il carattere ideologico della guerra al terrorismo non la si potrà vincere per quanta forza o mezzi si sia disposti a impiegare: «... non si può sconfiggere un'ideologia fanatica imprigionando o uccidendo i suoi leader: bisogna sconfiggerne le idee».
Sì, anche Blair non teme di infrangere il tabù: siamo in guerra. «Io penso che la situazione che stiamo affrontando sia di guerra, ma è una guerra non convenzionale, e non si può vincerla in modo convenzionale. Non vinceremo la battaglia contro l'estremismo globale se non avremo successo sul piano dei valori, oltre che della forza. Possiamo prevalere solo dimostrando che i nostri valori sono più forti, migliori, e più giusti di quelli che ci si oppongono».
A differenza di Papa Benedetto XVI, Blair ritiene che l'Islam e il suo testo sacro, il Corano, non siano intrinsecamente violenti. In passato l'Islam «ha guidato il mondo nelle scoperte, nell'arte e nella cultura». Fu all'inizio del XX secolo che le cose cominciarono a cambiare:
Per questa ideologia fondamentalista «noi siamo il nemico». Ma, precisa Blair, «noi non siamo l'Occidente. Noi possiamo essere musulmani o cristiani, ebrei o indù. Noi siamo tutti coloro che credono nella tolleranza religiosa, nell'essere aperti agli altri, nella democrazia, nella libertà e nei diritti umani garantiti da tribunali laici».
Ecco perché «questo non è uno scontro di civiltà», ma è «uno scontro per la civiltà. È la vecchia lotta tra il progresso e la reazione, tra chi abbraccia il mondo moderno e chi ne rifiuta l'esistenza — tra l'ottimismo e la speranza da un lato, e il pessimismo e la paura dall'altro». E' una guerra anti-fascista.
Non uno scontro di civiltà o di religioni, dunque. Il terrorismo colpisce non solo paesi occidentali, non solo popolazioni cristiane. Anzi, lo scopo degli estremisti è impedire che i paesi musulmani diventino delle democrazie — non delle democrazie «all'occidentale», ma democrazie di qualsiasi genere.
Occorre sfatare alcuni miti della propaganda islamista. «È stupido dire che il terrorismo islamista sia il prodotto della povertà. Certo, usa la povertà per giustificare i suoi atti. Ma i suoi fanatici non sono di sicuro campioni dello sviluppo economico... I terroristi non vogliono che i paesi musulmani si modernizzino». Il loro scopo non è la nascita di uno Stato palestinese, ma di impedirlo e di cancellare Israele.
«In tutte le battaglie la prima sfida è capire con esattezza la natura di quello per cui ci si batte, e qui c'è ancora molto da fare. Mi sembra quasi incredibile che l'opinione pubblica occidentale pensi in così larga misura che l'emergere di questo terrorismo globale sia in qualche modo colpa nostra... Dobbiamo rifiutare non solo i loro atti barbarici, ma anche il loro falso senso di rivalsa contro l'Occidente, il tentativo di persuaderci che sono altri, e non loro stessi, i responsabili della loro violenza».
In ultima istanza, conclude Blair, «questa è una battaglia per la modernità». In parte dovrà essere «condotta e vinta all'interno dell'Islam stesso», perché «l'estremismo non è la vera voce dell'Islam». Il carattere universale dei valori che difendiamo ci viene ricordato dal fatto che «milioni di musulmani nel mondo vogliono quel che vogliamo tutti: la libertà per noi e per gli altri. Considerano la tolleranza una virtù e il rispetto per la fede altrui parte della loro fede».
E' «una battaglia di valori e per il progresso»: «Se vogliamo difendere il nostro modo di vivere, non abbiamo alternative se non combattere per esso. Questo significa sostenere i nostri valori, non solo nei nostri paesi ma in tutto il mondo».
Come? Costruendo «un'alleanza globale per difendere questi valori globali e portarli avanti insieme». Perché «l'inazione è una scelta di segno politico, che ha delle conseguenze. Ed è la scelta sbagliata».
Non solo tattica militare o sicurezza, ma «cuori e menti», la «capacità di ispirare le persone, di convincerle, di mostrare che cosa rappresentano i nostri valori. Perché non ci siamo ancora riusciti? Perché non siamo abbastanza coraggiosi, coerenti, scrupolosi nel combattere per i valori in cui crediamo. (...) Dobbiamo mostrare che i nostri valori non sono occidentali, e ancor meno americani o anglosassoni, ma sono valori che appartengono all'umanità, valori universali che dovrebbero essere un diritto per i cittadini del mondo».
Per questo ci vuole «un'alleanza forte, che abbia al centro Stati Uniti ed Europa». I sentimenti anti-americani che percorrono parte dell'Europa sono una «pazzia»:
Nei suoi nove anni da primo ministro, conclude Blair, non è diventato meno idealista o più cinico: «Mi sono solo convinto ancor di più che distinguere una politica estera guidata dai valori da una guidata dagli interessi è sbagliato. La globalizzazione genera interdipendenza e l'interdipendenza genera la necessità di un sistema comune di valori per funzionare. L'idealismo diventa, così, realpolitik».
Tony Blair è un leader che ha compreso la natura dello scontro, e che il maggiore pericolo per l'Occidente è un'opinione pubblica che invece non l'ha compresa o si rifiuta di comprenderla preferendo dare ascolto alla propaganda dei nemici.
E' il leader, l'unico, di una sinistra liberale che non si accontenta di difendere lo status quo e la stabilità, ma che raccoglie la bandiera dell'espansione della democrazia, della lotta contro la tirannia e l'oppressione, sfidando il pacifismo e l'anti-americanismo dei salotti. Lo dimostra in un lungo intervento su Foreign Affairs, da cui il Corriere della Sera ha riportato ieri ampi estratti.
E' una battaglia di idee, innanzitutto. Se non si comprende il carattere ideologico della guerra al terrorismo non la si potrà vincere per quanta forza o mezzi si sia disposti a impiegare: «... non si può sconfiggere un'ideologia fanatica imprigionando o uccidendo i suoi leader: bisogna sconfiggerne le idee».
Sì, anche Blair non teme di infrangere il tabù: siamo in guerra. «Io penso che la situazione che stiamo affrontando sia di guerra, ma è una guerra non convenzionale, e non si può vincerla in modo convenzionale. Non vinceremo la battaglia contro l'estremismo globale se non avremo successo sul piano dei valori, oltre che della forza. Possiamo prevalere solo dimostrando che i nostri valori sono più forti, migliori, e più giusti di quelli che ci si oppongono».
A differenza di Papa Benedetto XVI, Blair ritiene che l'Islam e il suo testo sacro, il Corano, non siano intrinsecamente violenti. In passato l'Islam «ha guidato il mondo nelle scoperte, nell'arte e nella cultura». Fu all'inizio del XX secolo che le cose cominciarono a cambiare:
«Dopo che in Occidente vi erano stati il Rinascimento, la Riforma e l'Illuminismo, il mondo musulmano e arabo era incerto, insicuro e sulla difensiva. Alcuni paesi musulmani, come la Turchia, fecero un passo deciso verso il laicismo. Altri furono attraversati dalla colonizzazione, dal nascente nazionalismo, dall'oppressione politica e dal radicalismo religioso».Gli atti di terrorismo non sono incidenti isolati, ma la precisa strategia di un movimento fondamentalista in crescita, che non si accontenta più di colpire i musulmani che si sono allontanati dalla loro vera fede, che si sono arresi alla cultura occidentale o che sono governati da "servi" dell'Occidente. Con gli attacchi dell'11 settembre si è voluto dare inizio a una guerra dell'Islam contro l'Occidente.
Per questa ideologia fondamentalista «noi siamo il nemico». Ma, precisa Blair, «noi non siamo l'Occidente. Noi possiamo essere musulmani o cristiani, ebrei o indù. Noi siamo tutti coloro che credono nella tolleranza religiosa, nell'essere aperti agli altri, nella democrazia, nella libertà e nei diritti umani garantiti da tribunali laici».
Ecco perché «questo non è uno scontro di civiltà», ma è «uno scontro per la civiltà. È la vecchia lotta tra il progresso e la reazione, tra chi abbraccia il mondo moderno e chi ne rifiuta l'esistenza — tra l'ottimismo e la speranza da un lato, e il pessimismo e la paura dall'altro». E' una guerra anti-fascista.
Non uno scontro di civiltà o di religioni, dunque. Il terrorismo colpisce non solo paesi occidentali, non solo popolazioni cristiane. Anzi, lo scopo degli estremisti è impedire che i paesi musulmani diventino delle democrazie — non delle democrazie «all'occidentale», ma democrazie di qualsiasi genere.
Occorre sfatare alcuni miti della propaganda islamista. «È stupido dire che il terrorismo islamista sia il prodotto della povertà. Certo, usa la povertà per giustificare i suoi atti. Ma i suoi fanatici non sono di sicuro campioni dello sviluppo economico... I terroristi non vogliono che i paesi musulmani si modernizzino». Il loro scopo non è la nascita di uno Stato palestinese, ma di impedirlo e di cancellare Israele.
«In tutte le battaglie la prima sfida è capire con esattezza la natura di quello per cui ci si batte, e qui c'è ancora molto da fare. Mi sembra quasi incredibile che l'opinione pubblica occidentale pensi in così larga misura che l'emergere di questo terrorismo globale sia in qualche modo colpa nostra... Dobbiamo rifiutare non solo i loro atti barbarici, ma anche il loro falso senso di rivalsa contro l'Occidente, il tentativo di persuaderci che sono altri, e non loro stessi, i responsabili della loro violenza».
In ultima istanza, conclude Blair, «questa è una battaglia per la modernità». In parte dovrà essere «condotta e vinta all'interno dell'Islam stesso», perché «l'estremismo non è la vera voce dell'Islam». Il carattere universale dei valori che difendiamo ci viene ricordato dal fatto che «milioni di musulmani nel mondo vogliono quel che vogliamo tutti: la libertà per noi e per gli altri. Considerano la tolleranza una virtù e il rispetto per la fede altrui parte della loro fede».
E' «una battaglia di valori e per il progresso»: «Se vogliamo difendere il nostro modo di vivere, non abbiamo alternative se non combattere per esso. Questo significa sostenere i nostri valori, non solo nei nostri paesi ma in tutto il mondo».
Come? Costruendo «un'alleanza globale per difendere questi valori globali e portarli avanti insieme». Perché «l'inazione è una scelta di segno politico, che ha delle conseguenze. Ed è la scelta sbagliata».
Non solo tattica militare o sicurezza, ma «cuori e menti», la «capacità di ispirare le persone, di convincerle, di mostrare che cosa rappresentano i nostri valori. Perché non ci siamo ancora riusciti? Perché non siamo abbastanza coraggiosi, coerenti, scrupolosi nel combattere per i valori in cui crediamo. (...) Dobbiamo mostrare che i nostri valori non sono occidentali, e ancor meno americani o anglosassoni, ma sono valori che appartengono all'umanità, valori universali che dovrebbero essere un diritto per i cittadini del mondo».
Per questo ci vuole «un'alleanza forte, che abbia al centro Stati Uniti ed Europa». I sentimenti anti-americani che percorrono parte dell'Europa sono una «pazzia»:
«Il pericolo oggi non è che gli Stati Uniti siano troppo impegnati nelle questioni mondiali, ma semmai che smettano di occuparsene e se ne lavino le mani».Per dare coerenza ai valori in cui crediamo bisogna «combattere la povertà, la fame, le malattie...», attraverso uno sviluppo fondato sull'«accesso completo al mercato». Il protezionismo agricolo europeo è «una politica superata, che è ora di abbandonare».
Nei suoi nove anni da primo ministro, conclude Blair, non è diventato meno idealista o più cinico: «Mi sono solo convinto ancor di più che distinguere una politica estera guidata dai valori da una guidata dagli interessi è sbagliato. La globalizzazione genera interdipendenza e l'interdipendenza genera la necessità di un sistema comune di valori per funzionare. L'idealismo diventa, così, realpolitik».
«Tutto questo non esclude battute d'arresto, problemi, contraddizioni e ipocrisie che sono una conseguenza della necessità di decidere in un mondo difficile. Ma mostra anche che il meglio dello spirito umano, che ha fatto progredire l'umanità, è la miglior speranza per il futuro del mondo. Per questo dico che la battaglia è sui valori. I nostri valori sono la nostra guida. Rappresentano il progresso dell'umanità attraverso i secoli. A ogni punto di svolta abbiamo dovuto combattere per difenderli. Ora che una nuova era si sta avvicinando, dobbiamo farlo di nuovo».
Wednesday, December 27, 2006
Se Bush vuole la svolta faccia sul serio
Il presidente Bush si sta preparando ad annunciare una nuova strategia per vincere in Iraq. Molti i rapporti, interni all'amministrazione e da parte di gruppi di studio di diverso orientamento, che vengono in queste ore presi in considerazione. L'impressione è che il presidente voglia tentare un rilancio dell'iniziativa, incrementando il numero di soldati impegnati sul campo in Iraq.
A prevalere dovrebbe essere insomma l'approccio suggerito dall'analista dell'AEI Frederick W. Kagan e dall'ex Capo di Stato Maggiore Jack Keane nello studio "Choosing Victory: A Plan for Success in Iraq", di cui ho parlato in questo articolo. I due però, oggi sul Washington Post, hanno messo in guardia il presidente dalla tentazione di apportare cambiamenti di tipo meramente cosmetico: «Ogni incremento di truppe dev'essere ampio e duraturo».
«Portare la sicurezza a Baghdad - condizione essenziale per il compromesso politico, la riconciliazione nazionale e lo sviluppo economico - richiede almeno 30 mila truppe da combattimento e 18 mesi. Ogni altra opzione è destinata al fallimento», precisano Kagan e Keane.
La «chiave del successo» sta anche nel mutare la natura della missione militare. Le iniziative diplomatiche, politiche, economiche non devono naturalmente essere abbandonate. E naturalmente bisogna continuare a lavorare con il Governo di Baghdad e ad addestrare le forze di sicurezza irachene affinché siano in grado al più presto di prendere il controllo del territorio. Tuttavia, in questo momento, riportare la sicurezza a Baghdad è un obiettivo primario che solo le forze americane possono conseguire attraverso la ripresa di vere e proprie operazioni militari.
Ogni piano per riportare la sicurezza a Baghdad deve prevedere un numero di soldati adeguato non solo a «ripulire» i quartieri, ma anche a mantenerne il controllo in seguito.
Insomma, se Bush vuole davvero la svolta in Iraq non può accontentarsi di un'operazione cosmetica, dovrà fare sul serio: più truppe (30 mila), più a lungo (18 mesi), per combattere.
A prevalere dovrebbe essere insomma l'approccio suggerito dall'analista dell'AEI Frederick W. Kagan e dall'ex Capo di Stato Maggiore Jack Keane nello studio "Choosing Victory: A Plan for Success in Iraq", di cui ho parlato in questo articolo. I due però, oggi sul Washington Post, hanno messo in guardia il presidente dalla tentazione di apportare cambiamenti di tipo meramente cosmetico: «Ogni incremento di truppe dev'essere ampio e duraturo».
«Portare la sicurezza a Baghdad - condizione essenziale per il compromesso politico, la riconciliazione nazionale e lo sviluppo economico - richiede almeno 30 mila truppe da combattimento e 18 mesi. Ogni altra opzione è destinata al fallimento», precisano Kagan e Keane.
La «chiave del successo» sta anche nel mutare la natura della missione militare. Le iniziative diplomatiche, politiche, economiche non devono naturalmente essere abbandonate. E naturalmente bisogna continuare a lavorare con il Governo di Baghdad e ad addestrare le forze di sicurezza irachene affinché siano in grado al più presto di prendere il controllo del territorio. Tuttavia, in questo momento, riportare la sicurezza a Baghdad è un obiettivo primario che solo le forze americane possono conseguire attraverso la ripresa di vere e proprie operazioni militari.
Ogni piano per riportare la sicurezza a Baghdad deve prevedere un numero di soldati adeguato non solo a «ripulire» i quartieri, ma anche a mantenerne il controllo in seguito.
Insomma, se Bush vuole davvero la svolta in Iraq non può accontentarsi di un'operazione cosmetica, dovrà fare sul serio: più truppe (30 mila), più a lungo (18 mesi), per combattere.
La lezione di John Stuart Mill
«E' possibile nel nostro paese una bioetica liberale... che ponga deliberatamente al suo centro il valore dell'autonomia individuale, che riconosca una netta divisione tra sfera della morale e sfera della legge, che coltivi un autentico pluralismo etico?». Se lo chiede, oggi su il Riformista, Luisella Battaglia, membro del Comitato nazionale per la Bioetica. In realtà il caso Welby ha rivelato come «si continui a rendere, nella nostra cultura, solo un formale e ipocrita omaggio a quel principio di autonomia che si traduce nel diritto all'autodeterminazione e che gioca un ruolo rilevante nella costruzione dell'idea moderna della dignita umana».
Nel 1859, ricorda la Battaglia, John Stuart Mill si interrogava, nel classico "On Liberty", sulla natura e sui limiti del potere che la società poteva esercitare sull'individuo e rispondeva formulando il "principio del danno":
La tutela di una sfera di autonomia personale dalle interferenze del potere politico e religioso era la preoccupazione di Mill ed è, o dovrebbe essere, anche la nostra: «La libertà che sola merita questo nome è la libertà di cercare il nostro bene personale come meglio crediamo, finché non priviamo gli altri del loro o non ne ostacoliamo gli sforzi per procurarselo. Ognuno è custode naturale delle proprie facoltà, sia fisiche che intellettuali e spirituali. Il genere umano si avvantaggia di più se si lasciano vivere gli uomini come meglio loro piace, che obbligarli a vivere come piace agli altri».
Anche per Mill, uomo dell'800, esistono "vizi morali": crudeltà, invidia, cupidigia, egoismo estremo, e molti altri "vizi" sono tutti degni di biasimo e rendono odioso il carattere umano. Ma è fondamentale distinguere il discredito a cui una persona può essere esposta in ragione dei suoi "vizi" dalla sanzione che le è dovuta per aver violato i diritti altrui. Nel primo caso, ci muoviamo nell'ambito della libertà e la società non ha alcun diritto di interferire; nel secondo, siamo nell'ambito della legge e l'intervento dello Stato è richiesto in presenza del danno arrecato alla collettività.
Sui temi dell'eutanasia, del rifiuto delle cure e dell'accanimento terapeutico è tornato anche Gian Enrico Rusconi, su La Stampa, che insiste nel richiamare la Chiesa a una riflessione più che mai urgente su natura e morale: «Siamo davanti all'equivoco dei teologi moralisti che non hanno il coraggio intellettuale di prendere atto che la tecnologia rimette in discussione il nesso tra natura e una certa idea tradizionale di Dio. La de-naturalizzazione della morte è l'ultimo segnale della necessità di riflettere radicalmente sul concetto tradizionale di natura che sta alla base delle dottrine religiose tradizionali. E quindi della necessità di ricostruire i criteri della moralità a partire da qui».
Nel 1859, ricorda la Battaglia, John Stuart Mill si interrogava, nel classico "On Liberty", sulla natura e sui limiti del potere che la società poteva esercitare sull'individuo e rispondeva formulando il "principio del danno":
«L'intervento della società è giustificato solo quando la condotta di un individuo è tale da nuocere agli altri e il singolo deve rispondere verso la società solo delle azioni che incidono sulla sfera di attività del prossimo. La società non ha dunque in alcun modo il diritto di definire che cosa sia il "bene", sia fisico che morale di un individuo il quale, di conseguenza, non può essere costretto a fare o non fare qualcosa in base alla pretesa giustificazione che ciò sarebbe meglio per lui, lo renderebbe piu felice o il suo agire sarebbe più saggio o piu giusto. Ci troveremmo in tal caso in presenza di uno "stato etico" che si prefigge il conseguimento di certi valori a cui la volontà del singolo deve obbedienza, anziché di uno "stato di diritto" che lascia ciascuno libero di definire il proprio piano di vita, sulla base di valori spontaneamente scelti».Da qui la celebre massima di Mill in base alla quale «su se stesso, sul suo corpo, sul suo spirito l'individuo è sovrano».
La tutela di una sfera di autonomia personale dalle interferenze del potere politico e religioso era la preoccupazione di Mill ed è, o dovrebbe essere, anche la nostra: «La libertà che sola merita questo nome è la libertà di cercare il nostro bene personale come meglio crediamo, finché non priviamo gli altri del loro o non ne ostacoliamo gli sforzi per procurarselo. Ognuno è custode naturale delle proprie facoltà, sia fisiche che intellettuali e spirituali. Il genere umano si avvantaggia di più se si lasciano vivere gli uomini come meglio loro piace, che obbligarli a vivere come piace agli altri».
Anche per Mill, uomo dell'800, esistono "vizi morali": crudeltà, invidia, cupidigia, egoismo estremo, e molti altri "vizi" sono tutti degni di biasimo e rendono odioso il carattere umano. Ma è fondamentale distinguere il discredito a cui una persona può essere esposta in ragione dei suoi "vizi" dalla sanzione che le è dovuta per aver violato i diritti altrui. Nel primo caso, ci muoviamo nell'ambito della libertà e la società non ha alcun diritto di interferire; nel secondo, siamo nell'ambito della legge e l'intervento dello Stato è richiesto in presenza del danno arrecato alla collettività.
Sui temi dell'eutanasia, del rifiuto delle cure e dell'accanimento terapeutico è tornato anche Gian Enrico Rusconi, su La Stampa, che insiste nel richiamare la Chiesa a una riflessione più che mai urgente su natura e morale: «Siamo davanti all'equivoco dei teologi moralisti che non hanno il coraggio intellettuale di prendere atto che la tecnologia rimette in discussione il nesso tra natura e una certa idea tradizionale di Dio. La de-naturalizzazione della morte è l'ultimo segnale della necessità di riflettere radicalmente sul concetto tradizionale di natura che sta alla base delle dottrine religiose tradizionali. E quindi della necessità di ricostruire i criteri della moralità a partire da qui».
Sunday, December 24, 2006
Capaci di tutto
Che errore, Cardinale Ruini! Nel merito, perché Welby non si è suicidato, ma ha deciso di rifiutare un trattamento medico estremo, senza più senso e per altro inutilmente doloroso negli ultimi giorni di una malattia terminale. Un rifiuto del tutto analogo a quello che fu di Papa Wojtyla. Il Papa non si è fatto "attaccare", Welby si è fatto "staccare", ma entrambi consapevoli dei loro ultimi giorni hanno voluto in modo naturale ricongiungersi al Padre, sapendo che era giunta l'ora. Quando l'esito dell'autopsia confermerà per i più dubbiosi che di questo si è trattato, saranno in molti a doversi scusare.
Nel metodo, perché voi - voi sì - pur di strumentalizzare la vicenda di Welby contro l'eutanasia gli avete appiccicato addosso l'etichetta infamante di "suicida", senza scrupoli passando sopra alla sofferenza di una famiglia cattolica, appartenente a pieno titolo a quella comunità di credenti di cui pretendete essere guida, non essendo in realtà che degli impostori. Assassini, banditi, criminali della Storia, per tutti si sono aperte le porte dei funerali con i vostri riti. Non per Welby, il cui unico peccato è stato quello di aver voluto smettere di soffrire e di aver affermato la propria volontà e il proprio diritto.
Ma vi serviva "il caso" di eutanasia per emettere una sentenza esemplare, per diffondere in modo eclatante il vostro monito. A questa esigenza, ben poco pastorale e molto "politica", avete sacrificato innanzitutto la verità di ciò che davvero è stata la scelta di Piergiorgio, poi il conforto a una famiglia che tanto ha sofferto. Un'operazione resa diabolica dalla menzogna più spudorata cui avete dovuto far ricorso e dalla più pura cattiveria umana.
Non avete riconosciuto Cristo in croce nel volto sofferente di Piero Welby. E allora, che cosa ci state a fare? E di quali altre nefandezze, mi chiedo, sareste capaci?
Ebbene, avete ottenuto l'effetto opposto, perché oggi, a piazza Don Bosco (video), davanti alla Chiesa, c'è voluta la serenità di Mina, e la responsbilità di Cappato, per placare quella folla colma d'amore per Welby, ma anche di parrocchiani parecchio arrabbiati, da cui cominciavano a partire bordate di fischi non appena si faceva cenno alla decisione del Vicariato o al ceto politico. Gli abitanti, anime semplici, di quel quartiere, che hanno conosciuto, con-vissuto e rispettato le sofferenze di Piergiorgio e della famiglia hanno capito benissimo la vostra impostura.
E' stata comunque una celebrazione composta, serena, religiosa in senso pieno. La Chiesa, quella vera, la comunità dei credenti, credenti in altro che nel potere dell'uomo sull'altro uomo, quella che sa riconoscere il suo prossimo, e nel prossimo sofferente vedere il volto di Cristo, era lì a salutare Welby. Voi, no.
«Non voglio parlare di politici, di preti e di giudici, ma spero che ci siano ancora uomini coraggiosi come lui, che abbiano in loro la sincerità e la capacità di comprendere le ragioni dell'altro senza pregiudizi e senza barriere ideologiche».
Carolina Welby, nipote di Piergiorgio
Nel metodo, perché voi - voi sì - pur di strumentalizzare la vicenda di Welby contro l'eutanasia gli avete appiccicato addosso l'etichetta infamante di "suicida", senza scrupoli passando sopra alla sofferenza di una famiglia cattolica, appartenente a pieno titolo a quella comunità di credenti di cui pretendete essere guida, non essendo in realtà che degli impostori. Assassini, banditi, criminali della Storia, per tutti si sono aperte le porte dei funerali con i vostri riti. Non per Welby, il cui unico peccato è stato quello di aver voluto smettere di soffrire e di aver affermato la propria volontà e il proprio diritto.
Ma vi serviva "il caso" di eutanasia per emettere una sentenza esemplare, per diffondere in modo eclatante il vostro monito. A questa esigenza, ben poco pastorale e molto "politica", avete sacrificato innanzitutto la verità di ciò che davvero è stata la scelta di Piergiorgio, poi il conforto a una famiglia che tanto ha sofferto. Un'operazione resa diabolica dalla menzogna più spudorata cui avete dovuto far ricorso e dalla più pura cattiveria umana.
Non avete riconosciuto Cristo in croce nel volto sofferente di Piero Welby. E allora, che cosa ci state a fare? E di quali altre nefandezze, mi chiedo, sareste capaci?
Ebbene, avete ottenuto l'effetto opposto, perché oggi, a piazza Don Bosco (video), davanti alla Chiesa, c'è voluta la serenità di Mina, e la responsbilità di Cappato, per placare quella folla colma d'amore per Welby, ma anche di parrocchiani parecchio arrabbiati, da cui cominciavano a partire bordate di fischi non appena si faceva cenno alla decisione del Vicariato o al ceto politico. Gli abitanti, anime semplici, di quel quartiere, che hanno conosciuto, con-vissuto e rispettato le sofferenze di Piergiorgio e della famiglia hanno capito benissimo la vostra impostura.
E' stata comunque una celebrazione composta, serena, religiosa in senso pieno. La Chiesa, quella vera, la comunità dei credenti, credenti in altro che nel potere dell'uomo sull'altro uomo, quella che sa riconoscere il suo prossimo, e nel prossimo sofferente vedere il volto di Cristo, era lì a salutare Welby. Voi, no.
«Non voglio parlare di politici, di preti e di giudici, ma spero che ci siano ancora uomini coraggiosi come lui, che abbiano in loro la sincerità e la capacità di comprendere le ragioni dell'altro senza pregiudizi e senza barriere ideologiche».
Carolina Welby, nipote di Piergiorgio
Friday, December 22, 2006
L'ultima stilla d'odio di una Chiesa non più cristiana
«In merito alla richiesta di esequie ecclesiastiche per il defunto Dott. Piergiorgio Welby, il Vicariato di Roma precisa di non aver potuto concedere tali esequie perché, a differenza dai casi di suicidio nei quali si presume la mancanza delle condizioni di piena avvertenza e deliberato consenso, era nota, in quanto ripetutamente e pubblicamente affermata, la volontà del Dott. Welby di porre fine alla propria vita, ciò che contrasta con la dottrina cattolica (vedi il Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 2276-2283; 2324-2325). Non vengono meno però la preghiera della Chiesa per l'eterna salvezza del defunto e la partecipazione al dolore dei congiunti».
Comunicato ufficiale del Vicariato di Roma.
Si dà il caso che anche Papa Wojtyla abbia rifiutato trattamenti medici estremi per ricongiungersi con il Padre, ma evidentemente il fratello Welby stava sul cazzo, coi suoi grilli per la testa, osava cianciare di libertà, diritto e altri simili capricci.
E non sfugga la raggelante ipocrisia del Vicariato: praticamente si ammette che nel caso dei suicidi, quelli veri (non come Welby, che ha voluto andare incontro alla sua morte naturale), si chiude un occhio.
I funerali di Piergiorgio Welby si terranno comunque domenica 24 dicembre alle ore 10.30 in Piazza San Giovanni Bosco, a Roma, secondo rito popolare di laica religiosità.
Comunicato ufficiale del Vicariato di Roma.
Si dà il caso che anche Papa Wojtyla abbia rifiutato trattamenti medici estremi per ricongiungersi con il Padre, ma evidentemente il fratello Welby stava sul cazzo, coi suoi grilli per la testa, osava cianciare di libertà, diritto e altri simili capricci.
E non sfugga la raggelante ipocrisia del Vicariato: praticamente si ammette che nel caso dei suicidi, quelli veri (non come Welby, che ha voluto andare incontro alla sua morte naturale), si chiude un occhio.
I funerali di Piergiorgio Welby si terranno comunque domenica 24 dicembre alle ore 10.30 in Piazza San Giovanni Bosco, a Roma, secondo rito popolare di laica religiosità.
Thursday, December 21, 2006
Welby e la marcia del sale
«Morire dev'essere come addormentarsi dopo l'amore, stanchi, tranquilli e con quel senso di stupore che pervade ogni cosa». Spero con tutte le forze che sia stato così.
Ciao Piergiorgio, quella lungo la quale ci hai condotti è una lunga, gandhiana, marcia del sale. Pur immobile sul tuo letto ci hai guidati in questa lunga, composta marcia che certo non abbandoneremo. Mi sono sentito in marcia, con gli occhi fissi a seguire la tua figura orgogliosa. Ci hai guidati fin qui con dignità e fermezza, da leader poietico e nonviolento, offrendo il tuo corpo e la tua sofferenza, facendotene forte di fronte a un Potere impotente e per questo prepotente, con il tuo amore cristallino per obiettivi ideali, umani, civili, politici. E' vero, non potevi più muoverti, ma si può fare molta più strada dal proprio letto che in decenni di grigie carriere ministeriali. Abbiamo marciato insieme, per questa interminabile lotta di umanesimo liberale, instancabili, animati dalla fame per il nostro "sale", per il diritto, per la libertà, per l'autodeterminazione. Lasci un pieno. Un pieno di politica, un paese più ricco del tuo coraggio; sei vivo nei cuori e nelle menti di quanti a cui hai insegnato cosa vuol dire essere cittadini; non sono che penosi, loschi zombie i mezzibusti, i gerarchi vaticani e le ministre imbiancate che hanno fatto finta di non capire, che fanno della tortura infinita il mezzo, lo strumento obbligato di realizzazione o di difesa della loro "etica condivisa".
Un bacio, capitano
Federico
Ciao Piergiorgio, quella lungo la quale ci hai condotti è una lunga, gandhiana, marcia del sale. Pur immobile sul tuo letto ci hai guidati in questa lunga, composta marcia che certo non abbandoneremo. Mi sono sentito in marcia, con gli occhi fissi a seguire la tua figura orgogliosa. Ci hai guidati fin qui con dignità e fermezza, da leader poietico e nonviolento, offrendo il tuo corpo e la tua sofferenza, facendotene forte di fronte a un Potere impotente e per questo prepotente, con il tuo amore cristallino per obiettivi ideali, umani, civili, politici. E' vero, non potevi più muoverti, ma si può fare molta più strada dal proprio letto che in decenni di grigie carriere ministeriali. Abbiamo marciato insieme, per questa interminabile lotta di umanesimo liberale, instancabili, animati dalla fame per il nostro "sale", per il diritto, per la libertà, per l'autodeterminazione. Lasci un pieno. Un pieno di politica, un paese più ricco del tuo coraggio; sei vivo nei cuori e nelle menti di quanti a cui hai insegnato cosa vuol dire essere cittadini; non sono che penosi, loschi zombie i mezzibusti, i gerarchi vaticani e le ministre imbiancate che hanno fatto finta di non capire, che fanno della tortura infinita il mezzo, lo strumento obbligato di realizzazione o di difesa della loro "etica condivisa".
Un bacio, capitano
Federico
Wednesday, December 20, 2006
Tutti in strada: per le giovani stelle iraniane
Ahmadinejad, fuck you!
Tutti alla manifestazione per gli studenti iraniani che hanno contestato Ahmadinejad. All'università Amir Kabir, quella della contestazione, dopo il divieto di qualsiasi tipo di riunione tra studenti, la distruzione delle loro sedi, l'allontanamento dei professori "non allineati", il giro di vite sull'abbigliamento delle ragazze, il rettore-ayatollah ha introdotto le stelle (da una a tre a seconda dei richiami) come marchi d'infamia che gli studenti sospettati di minacciare l'ordine costituito devono indossare sugli abiti. L'analogia con la stella gialla che i nazisti imponevano agli ebrei è fin troppo evidente.
Eppure, la misura repressiva delle stelle sugli abiti rischia di trasformare gli studenti "sovversivi" costretti a indossarle in altrettanti evocativi messaggi di libertà: le stelle si vedono quando fa buio.
Alcuni degli studenti contestatori sono scomparsi: costretti a nascondersi (ma fino a quando?) dalla inevitabile repressione del regime nei loro confronti. Per loro, contro il regime degli ayatollah, a Roma, giovedì 21, ore 20, tutti davanti all'Ambasciata iraniana. All'iniziativa, promossa dall'Unione Giovani Ebrei d'Italia in collaborazione con Il Foglio, hanno aderito i movimenti giovanili di tutti i partiti - tranne i comunisti - e il Partito Radicale Transnazionale.
Ci sarò solo idealmente, perché in carne e ossa bloccato a casa dalla polmonite.
Tutti alla manifestazione per gli studenti iraniani che hanno contestato Ahmadinejad. All'università Amir Kabir, quella della contestazione, dopo il divieto di qualsiasi tipo di riunione tra studenti, la distruzione delle loro sedi, l'allontanamento dei professori "non allineati", il giro di vite sull'abbigliamento delle ragazze, il rettore-ayatollah ha introdotto le stelle (da una a tre a seconda dei richiami) come marchi d'infamia che gli studenti sospettati di minacciare l'ordine costituito devono indossare sugli abiti. L'analogia con la stella gialla che i nazisti imponevano agli ebrei è fin troppo evidente.
Eppure, la misura repressiva delle stelle sugli abiti rischia di trasformare gli studenti "sovversivi" costretti a indossarle in altrettanti evocativi messaggi di libertà: le stelle si vedono quando fa buio.
Alcuni degli studenti contestatori sono scomparsi: costretti a nascondersi (ma fino a quando?) dalla inevitabile repressione del regime nei loro confronti. Per loro, contro il regime degli ayatollah, a Roma, giovedì 21, ore 20, tutti davanti all'Ambasciata iraniana. All'iniziativa, promossa dall'Unione Giovani Ebrei d'Italia in collaborazione con Il Foglio, hanno aderito i movimenti giovanili di tutti i partiti - tranne i comunisti - e il Partito Radicale Transnazionale.
Ci sarò solo idealmente, perché in carne e ossa bloccato a casa dalla polmonite.
Più truppe
Per una long struggle contro i terroristi. Lo ha detto il presidente Bush nella sua conferenza stampa di fine anno. Non ha specificato dove, anche se l'Iraq è il primo fronte, ma ciò che ha voluto assicurare è che l'esercito americano «resti in combattimento per un lungo periodo di tempo». Per questo, ha aggiunto, «è indispensabile incrementare le dimensioni dell'Esercito degli Stati Uniti e del corpo dei marines per la lotta contro il terrorismo». Al Pentagono il presidente ha chiesto di studiare le modalità.
Bush annuncerà solo a gennaio la nuova strategia per l'Iraq, ma le sue parole di oggi indicano che si va verso un aumento di truppe, non un disimpegno. Gli Stati Uniti non si faranno buttare fuori dalla regione. Un concetto ribadito con insistenza che esclude qualsiasi cedimento di fronte alle violenze alimentate da Al Qaeda, dalla Siria e dall'Iran per destabilizzare l'Iraq e provocare proprio il ritiro americano.
Di recente consegnato al presidente Bush, il rapporto dell'Iraq Study Group, a cui tanta attenzione hanno riservato i media americani e quelli italiani, sembra già caduto nell'irrilevanza.
Sembra invece pravalere un altro studio, quello di Kagan-Keane: "Choosing Victory: A Plan for Success in Iraq". Il messaggio che i due autori hanno voluto inviare al presidente Bush è che l'unico esito «accettabile» in Iraq è la vittoria, che è ancora possibile, ma che prima di tutto bisogna «scegliere» la vittoria. In altre parole, bisogna tornare a combattere, togliersi dalla testa che la guerra sia finita dopo la caduta di Saddam. Per vincere bisogna sconfiggere i nemici sul campo: i terroristi sunniti e anche le milizie sciite e filoiraniane di Moqtada al Sadr, che finora si era tentato di far rientrare nell'arco istituzionale del nuovo Iraq.
... tutto l'articolo, qualche giorno fa su L'Opinione.
Bush annuncerà solo a gennaio la nuova strategia per l'Iraq, ma le sue parole di oggi indicano che si va verso un aumento di truppe, non un disimpegno. Gli Stati Uniti non si faranno buttare fuori dalla regione. Un concetto ribadito con insistenza che esclude qualsiasi cedimento di fronte alle violenze alimentate da Al Qaeda, dalla Siria e dall'Iran per destabilizzare l'Iraq e provocare proprio il ritiro americano.
Di recente consegnato al presidente Bush, il rapporto dell'Iraq Study Group, a cui tanta attenzione hanno riservato i media americani e quelli italiani, sembra già caduto nell'irrilevanza.
Sembra invece pravalere un altro studio, quello di Kagan-Keane: "Choosing Victory: A Plan for Success in Iraq". Il messaggio che i due autori hanno voluto inviare al presidente Bush è che l'unico esito «accettabile» in Iraq è la vittoria, che è ancora possibile, ma che prima di tutto bisogna «scegliere» la vittoria. In altre parole, bisogna tornare a combattere, togliersi dalla testa che la guerra sia finita dopo la caduta di Saddam. Per vincere bisogna sconfiggere i nemici sul campo: i terroristi sunniti e anche le milizie sciite e filoiraniane di Moqtada al Sadr, che finora si era tentato di far rientrare nell'arco istituzionale del nuovo Iraq.
... tutto l'articolo, qualche giorno fa su L'Opinione.
Saturday, December 16, 2006
Il diritto che c'è ma non si tocca
Vittoria amarissima, ora tutti alla veglia
Ai tanti Soloni il Tribunale di Roma ha spiegato il perché della battaglia politica di Welby. Il perché della sua necessità, della sua urgenza, il perché rivolgersi alle istituzioni non significa voler affidare la vita e la morte nelle mani dello Stato, ma viceversa riavere indietro un proprio diritto che è ora negato da uno Stato che non c'è, si nasconde, ti calpesta e non se ne accorge neanche, come nel più tipico ingranaggio kafkiano.
Il Giudice ha sia riconosciuto il diritto di Welby, sia constatato l'incertezza giuridica. Piergiorgio Welby ha diritto di chiedere l'interruzione della respirazione assistita, previa somministrazione della sedazione terminale, ma è un «diritto non concretamente tutelato dall'ordinamento», scrive il giudice Salvio nella sentenza con cui ha dichiarato inammissibile il ricorso di Welby, sollecitando inoltre «un'iniziativa politica e legislativa per colmare il vuoto normativo in materia».
Significa esattamente che pur essendo un diritto ciò che chiede Welby, le contraddizioni tra le normative vigenti, esattamente come temevano i radicali, espongono i medici che volessero attuare la volontà del paziente a delle serie ripercussioni. Tradotto: lo Stato è responsabile della prigionia di Welby. Ma chi è lo Stato? Chi risponde per Lui?
Una decisione che chiama drammaticamente in causa il potere politico, che - scommettiamo - non risponderà, rendendosi inadempiente del suo dovere primario: tutelare le libertà dei cittadini. A chi spetta, se non alle istituzioni, tutelare concretamente i diritti? Vedremo quanti vili uomini di governo declineranno le proprie responsabilità.
Vittoria amarissima, ora tutti alla veglia, almeno chi non è costretto come me a letto per una maledetta febbre.
Ai tanti Soloni il Tribunale di Roma ha spiegato il perché della battaglia politica di Welby. Il perché della sua necessità, della sua urgenza, il perché rivolgersi alle istituzioni non significa voler affidare la vita e la morte nelle mani dello Stato, ma viceversa riavere indietro un proprio diritto che è ora negato da uno Stato che non c'è, si nasconde, ti calpesta e non se ne accorge neanche, come nel più tipico ingranaggio kafkiano.
Il Giudice ha sia riconosciuto il diritto di Welby, sia constatato l'incertezza giuridica. Piergiorgio Welby ha diritto di chiedere l'interruzione della respirazione assistita, previa somministrazione della sedazione terminale, ma è un «diritto non concretamente tutelato dall'ordinamento», scrive il giudice Salvio nella sentenza con cui ha dichiarato inammissibile il ricorso di Welby, sollecitando inoltre «un'iniziativa politica e legislativa per colmare il vuoto normativo in materia».
Significa esattamente che pur essendo un diritto ciò che chiede Welby, le contraddizioni tra le normative vigenti, esattamente come temevano i radicali, espongono i medici che volessero attuare la volontà del paziente a delle serie ripercussioni. Tradotto: lo Stato è responsabile della prigionia di Welby. Ma chi è lo Stato? Chi risponde per Lui?
Una decisione che chiama drammaticamente in causa il potere politico, che - scommettiamo - non risponderà, rendendosi inadempiente del suo dovere primario: tutelare le libertà dei cittadini. A chi spetta, se non alle istituzioni, tutelare concretamente i diritti? Vedremo quanti vili uomini di governo declineranno le proprie responsabilità.
Vittoria amarissima, ora tutti alla veglia, almeno chi non è costretto come me a letto per una maledetta febbre.
Friday, December 15, 2006
D'Alema non ne manca una per prendersela con Israele
Mentre i palestinesi s'ammazzano fra loro, in quello che sembra l'inizio di una guerra civile forse inevitabile, e Israele decide di non far passare dal valico di Rafah il leader di un'organizzazione terroristica di stampo nazislamico con una valigetta piena di milioni di dollari (pare 35) gentilmente offerti da quell'altro ben poco raccomandabile regime di Teheran, il nostro ministro degli Esteri Massimo D'Alema non trova di meglio che prendersela con Israele.
Solo dopo otto ore Haniyeh è potuto rientrare a Gaza, ma senza il denaro. Grazie alla mediazione egiziana infatti è stato trovato un accordo secondo cui i 35 milioni di dollari saranno versati nel conto della Lega Araba al Cairo con la garanzia dell'Egitto che non arriveranno nelle casse del governo palestinese e in particolare ad Hamas, a causa delle sanzioni internazionali imposte dopo l'ascesa al potere del gruppo estremista. In cambio di questo impegno Israele ha autorizzato la riapertura della stazione di confine.
Ma forse il nostro ministro non è a conoscenza del fatto che vi siano quelle sanzioni. Forse vorrebbe che anche lì, come nel sud del Libano, ci siano truppe europee, e italiane, a garantire che tutto transiti regolarmente: missili, dollari iraniani e tutto quanto necessario a preparare il grande momento del "popolo" palestinese.
Solo dopo otto ore Haniyeh è potuto rientrare a Gaza, ma senza il denaro. Grazie alla mediazione egiziana infatti è stato trovato un accordo secondo cui i 35 milioni di dollari saranno versati nel conto della Lega Araba al Cairo con la garanzia dell'Egitto che non arriveranno nelle casse del governo palestinese e in particolare ad Hamas, a causa delle sanzioni internazionali imposte dopo l'ascesa al potere del gruppo estremista. In cambio di questo impegno Israele ha autorizzato la riapertura della stazione di confine.
Ma forse il nostro ministro non è a conoscenza del fatto che vi siano quelle sanzioni. Forse vorrebbe che anche lì, come nel sud del Libano, ci siano truppe europee, e italiane, a garantire che tutto transiti regolarmente: missili, dollari iraniani e tutto quanto necessario a preparare il grande momento del "popolo" palestinese.
Autostrade-Abertis. Dubitare è lecito
La mancata fusione Autostrade-Abertis, è stato scritto, è «la vittoria di Tonino e la disfatta di Emma». Avrebbe prevalso, all'interno del Governo, chi si è opposto alla fusione per motivi politici, di bandiera nazionale, violando così le regole del libero mercato e rimediando all'Italia una brutta figura presso gli investitori stranieri.
Non tutti la pensano così. C'è chi avanza interessanti considerazioni: è l'ennesimo caso in cui ha perso il libero mercato, o un raro caso in cui lo Stato ha saputo svolgere il suo ruolo di garante delle regole dei servizi nei confronti di un concessionario inadempiente? Se così fosse, per cosa si è battuta, e ha perso, Emma Bonino?
Non tutti la pensano così. C'è chi avanza interessanti considerazioni: è l'ennesimo caso in cui ha perso il libero mercato, o un raro caso in cui lo Stato ha saputo svolgere il suo ruolo di garante delle regole dei servizi nei confronti di un concessionario inadempiente? Se così fosse, per cosa si è battuta, e ha perso, Emma Bonino?
L'irresistibile richiamo dell'autorità morale
Signor Mancuso, il comunismo non ha nulla a che fare con la libertà e i valori della sinistra.
Prima o poi doveva accadere. A forza di tirarla, la corda s'è rotta. Rassicura oggi, rassicura domani...
«Caro Fassino, ti informo che non rinnoverò la tessera ai Democratici di Sinistra, un partito che sembra aver smarrito il senso dell'umanità e del socialismo democratico».
Aurelio Mancuso, segretario nazionale dell'Arcigay, era iscritto ai Ds da 25 anni ininterrotti.
Si evince dalle parole del segretario Ds («Non credo che sia una scelta che la società possa accogliere e neppure penso che sia utile per il bambino essere adottato e crescere con due persone dello stesso sesso») che il riconoscimento della dignità omosessuale e transessuale è «una concessione difficile e, non la logica concretizzazione dei valori della sinistra».
Caro Mancuso, ma quando il Pci-Pds-Ds ha mai avuto «senso dell'umanità e del socialismo democratico»?
Dopo la caduta del muro, necessitava un grande rinnovamento al proprio interno di uomini e di cultura politica; di leader che accettassero la sfida di costruire nel paese una cultura di una sinistra democratica e liberale. Il socialismo democratico italiano, il liberalismo, il laburismo blairiano, erano tutti modelli a portata di mano.
I leader di oggi hanno mancato, per codardia, quella sfida, e stanno lì che arrabbattano qualche risposta ballerina e imbarazzata, opportunistica, accennano a qualche riformucchia, parlano di Partito democratico, rassicurano, rassicurano, ma non si curano. "Don't Care".
Hanno scelto di prolungare la gestione di un potere oligarchico completamente avulso dal contesto sociale italiano. Perché questo è ciò che sanno fare, perché hanno ereditato l'egemonia culturale che nei decenni scorsi con i soldi di Mosca si sono costruiti nel paese. Un peccato gettarla al vento, no?
Istintivamente diffidano della libertà individuale e avendo perduto un grande sistema etico di riferimento sono costantemente alla ricerca di altri cui attribuire l'autorità sugli individui. Così ciò che è rimasto dopo il biennio '89-'91 è il catto-comunismo, l'ibrido etico che i Ds si sono scelti per il nuovo compromesso storico che dovrebbe assicurargli il Potere per i prossimi anni. Ebbene, vedremo nei prossimi mesi cosa sarà di Pacs, eutanasia, droghe, eccetera... ma se nonostante le grandi difficoltà a ricomporre la faglia aperta dai diritti civili e dai temi di bioetica sulla strada del Partito democratico, questo patto etico-politico si salderà, non rimarrà che punirlo nelle urne con la massima urgenza, anche prendendosi la responsabilità di determinare un'altra, rapida, alternanza alla guida del paese.
E Livia Turco? L'avete vista ieri sera a "8 e mezzo"? Vile e ipocrita, mentre si nascondeva dietro i suoi occhioni da mamma austera e contrita. Irritante e inquietante un ministro così. Farfugliando in quel modo per tentare di non prendersi la responsabilità politica delle sue idee e dell'incarico che ricopre. Meglio Ruini!
Sono tutte scorie di una nomenklatura partitocratica che non ci toglieremo di mezzo finché in questo paese non verrà adottato un sistema autenticamente uninominale e con le primarie.
Gli avversari più temibili di laici e liberali sono gli inviti buonisti a ritrovarsi sotto un'"etica condivisa", la ricerca di apparente buon senso di "soluzioni condivise", tutti propositi atti a non far maturare tra i cittadini l'urgenza di scelte tra due visioni chiaramente alternative che si confrontino democraticamente: l'una che mette l'individuo al centro, l'altra che mette sempre un'autorità al di fuori e al di sopra che dispone di lui.
Prima o poi doveva accadere. A forza di tirarla, la corda s'è rotta. Rassicura oggi, rassicura domani...
«Caro Fassino, ti informo che non rinnoverò la tessera ai Democratici di Sinistra, un partito che sembra aver smarrito il senso dell'umanità e del socialismo democratico».
Aurelio Mancuso, segretario nazionale dell'Arcigay, era iscritto ai Ds da 25 anni ininterrotti.
Si evince dalle parole del segretario Ds («Non credo che sia una scelta che la società possa accogliere e neppure penso che sia utile per il bambino essere adottato e crescere con due persone dello stesso sesso») che il riconoscimento della dignità omosessuale e transessuale è «una concessione difficile e, non la logica concretizzazione dei valori della sinistra».
Caro Mancuso, ma quando il Pci-Pds-Ds ha mai avuto «senso dell'umanità e del socialismo democratico»?
Dopo la caduta del muro, necessitava un grande rinnovamento al proprio interno di uomini e di cultura politica; di leader che accettassero la sfida di costruire nel paese una cultura di una sinistra democratica e liberale. Il socialismo democratico italiano, il liberalismo, il laburismo blairiano, erano tutti modelli a portata di mano.
I leader di oggi hanno mancato, per codardia, quella sfida, e stanno lì che arrabbattano qualche risposta ballerina e imbarazzata, opportunistica, accennano a qualche riformucchia, parlano di Partito democratico, rassicurano, rassicurano, ma non si curano. "Don't Care".
Hanno scelto di prolungare la gestione di un potere oligarchico completamente avulso dal contesto sociale italiano. Perché questo è ciò che sanno fare, perché hanno ereditato l'egemonia culturale che nei decenni scorsi con i soldi di Mosca si sono costruiti nel paese. Un peccato gettarla al vento, no?
Istintivamente diffidano della libertà individuale e avendo perduto un grande sistema etico di riferimento sono costantemente alla ricerca di altri cui attribuire l'autorità sugli individui. Così ciò che è rimasto dopo il biennio '89-'91 è il catto-comunismo, l'ibrido etico che i Ds si sono scelti per il nuovo compromesso storico che dovrebbe assicurargli il Potere per i prossimi anni. Ebbene, vedremo nei prossimi mesi cosa sarà di Pacs, eutanasia, droghe, eccetera... ma se nonostante le grandi difficoltà a ricomporre la faglia aperta dai diritti civili e dai temi di bioetica sulla strada del Partito democratico, questo patto etico-politico si salderà, non rimarrà che punirlo nelle urne con la massima urgenza, anche prendendosi la responsabilità di determinare un'altra, rapida, alternanza alla guida del paese.
E Livia Turco? L'avete vista ieri sera a "8 e mezzo"? Vile e ipocrita, mentre si nascondeva dietro i suoi occhioni da mamma austera e contrita. Irritante e inquietante un ministro così. Farfugliando in quel modo per tentare di non prendersi la responsabilità politica delle sue idee e dell'incarico che ricopre. Meglio Ruini!
Sono tutte scorie di una nomenklatura partitocratica che non ci toglieremo di mezzo finché in questo paese non verrà adottato un sistema autenticamente uninominale e con le primarie.
Gli avversari più temibili di laici e liberali sono gli inviti buonisti a ritrovarsi sotto un'"etica condivisa", la ricerca di apparente buon senso di "soluzioni condivise", tutti propositi atti a non far maturare tra i cittadini l'urgenza di scelte tra due visioni chiaramente alternative che si confrontino democraticamente: l'una che mette l'individuo al centro, l'altra che mette sempre un'autorità al di fuori e al di sopra che dispone di lui.
Natura è cultura
«C'è da chiedersi perché la Chiesa italiana e il Vaticano stiano assumendo una posizione tanto intransigente e irragionevole e con toni tanto risentiti... Certamente al primo posto, al fondo, c'è una distorsione teologica a proposito del concetto di "natura", da cui discende come corollario un modello unico idealizzato di "famiglia naturale" quale si è codificata storicamente nella tradizione. Soprattutto da questa convinzione discende il sospetto diffamatorio di immoralità per ogni diversa concezione dei rapporti interpersonali...»
Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 13 dicembre)
Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 13 dicembre)
Thursday, December 14, 2006
«Cultura radicale» e legge di natura
Non so dire se per ignoranza o per malafede, ma l'editoriale di Don Baget Bozzo, oggi su il Giornale, emana odore di mistificazioni, e di quelle grossolane.
Vi risulta che welby o i radicali sostengano che «lo Stato può decidere che una vita che non vale la pena di essere vissuta a giudizio dell'opinione pubblica... possa essere soppressa»? O che nei «casi analoghi a quelli di Piergiorgio» a decidere siano altri dal singolo malato?
Vi sembra che accogliere la richiesta di Welby segnerebbe il «diritto dello Stato a dare la buona morte»? La «cultura radicale... toglie la morte dalla natura e la affida allo Stato»?
Non giochiamo con le parole. Ci si rivolge alle istituzioni, alle leggi, ai Tribunali, perché a legislazione vigente non è chiaro se chi eseguisse le richieste del paziente Welby rischierebbe la galera. Ogni giorno che passa attaccato al suo ventilatore polmonare, giacché Welby ha chiesto che gli sia staccato, non significa lasciare che le cose facciano il loro corso naturale, ma reiterare ogni giorno e notte una decisione dello Stato, dal momento che il medico curante ha declinato ogni responsabilità proprio chiamando in causa le leggi attuali. Dunque, proprio in questo preciso momento, per Welby sta decidendo lo Stato.
Al contrario, la «cultura radicale», ma non solo quella spero, vorrebbe che lo Stato facesse un passo indietro e che i tanti Welby potessero disporre di sé.
Ma Don Baget Bozzo va oltre, attribuisce alla «cultura radicale» una «cultura dei diritti, ma non nel senso della legge naturale, interpretata dal Cristianesimo come fondante diritti inerenti alla persona e antecedenti lo Stato». Nella «cultura radicale» l'unico diritto sarebbe «il diritto positivo e si tratta perciò di concessione dei diritti fatti con leggi dello Stato». La concezione radicale sarebbe «del tutto interna a quel sistema giuridico... nella più pura dottrina di Hans Kelsen», in assoluta «continuità con il Leviathan di Hobbes».
I radicali, dunque, sarebbero positivisti, kelseniani e hobbesiani. La «cultura radicale» non conosce legalità senza legittimità democratica. Per i radicali i diritti umani, il diritto di uomini e donne alla vita, alla democrazia, alla libertà, precedono il diritto degli Stati alla loro sovranità, precedono la loro legalità "positiva": «Diritti storicamente acquisiti come naturali per ogni essere umano». Esattamente l'opposto di quanto gli attribuisce Baget Bozzo.
Di questa convinzione hanno animato parecchie battaglie, anche grazie alle quali si è affermato fin dagli anni '80 non il «diritto» di ingerenza, ma il «dovere» di ingerenza: laddove sono negati i diritti naturali della persona umana cessa il diritto "positivo" degli Stati alla propria sovranità.
Baget Bozzo preferisce, forse per comodità, ignorare che anche per i liberali i diritti umani sono inalienabili e antecedenti lo Stato. Così come enunciati dal giusnaturalismo individualistico di John Locke, appartengono a una "legge" di natura pregiuridica e prepolitica, sovraordinata rispetto al diritto "posto" dagli uomini, il diritto positivo, nel senso che gli uomini e le loro leggi non ne dispongono.
Se per Don Baget Bozzo quella legge naturale trova in Dio il suo fondamento, per i liberali quei diritti sono naturali perché evidenti di per sé alla ragione (We hold these truths to be self-evident). Non vengono "posti" dai costituenti, ma semplicemente "dichiarati", come risultato ed espressione non del volere variabile di una maggioranza, ma di una concezione generale dell'uomo e della società condivisa - per alcuni appresa per rivelazione da Dio, per altri grazie all'uso della stessa ragione umana - e assunta dunque come valore definitivo, senza la quale non si ha il patto sociale.
Il vero «spartiacque» su tante «questioni personali e sociali» lo individua piuttosto Massimo Teodori: «Non è tra cattolici e laici, ma tra le persone tendenzialmente autoritarie che vogliono imporre i loro valori all'intera comunità nazionale, e gli uomini che ritengono di porre al centro dei propri comportamenti solo la loro coscienza nel rispetto delle legittime scelte altrui. È questo uno dei principi dell'umanesimo liberale che ha reso grande l'Occidente».
Dunque, oggi osserviamo emergere in modo lampante dal dibattito su questi temi una «dicotomia» molto netta e, se non offuscata per interessi di Botteghe, preziosa per il progresso civile del paese: da una parte la «centralità dell'uomo», dall'altra, «il riconoscimento di un'autorità al di fuori e al di sopra dell'uomo».
Chi è il padrone della vita umana? Questa è la domanda prima e ultima. A sentire il Papa, i vescovi e, ahimé, molti politici e ministri è Dio, che sulla terra ha lasciato agli uomini, come guide, la Chiesa e lo Stato, ciascuno nella sua sfera ma in «strettissima collaborazione», in una «comune missione educativa», come forse direbbe il presidente Napolitano.
Recentemente in un'intervista il Cardinale Tonini ha detto che «se qualcuno esprime il desiderio di affrettare la fine della propria pena, non è peccato. Anzi può essere anche un desiderio sano. Però... C'è un principio a cui non possiamo sfuggire. La vita è un dono, è sacro, è intangibile...». Si chiede Teodori: «Ma se Welby o chiunque altro ritiene che la vita appartenga solo a se stesso? Si può imporre la visione di una vita appartenente a Dio a chi non lo pratica o crede ad altre forme spirituali o trascendenti?» Ad ogni cittadino la sua risposta.
Vi risulta che welby o i radicali sostengano che «lo Stato può decidere che una vita che non vale la pena di essere vissuta a giudizio dell'opinione pubblica... possa essere soppressa»? O che nei «casi analoghi a quelli di Piergiorgio» a decidere siano altri dal singolo malato?
Vi sembra che accogliere la richiesta di Welby segnerebbe il «diritto dello Stato a dare la buona morte»? La «cultura radicale... toglie la morte dalla natura e la affida allo Stato»?
Non giochiamo con le parole. Ci si rivolge alle istituzioni, alle leggi, ai Tribunali, perché a legislazione vigente non è chiaro se chi eseguisse le richieste del paziente Welby rischierebbe la galera. Ogni giorno che passa attaccato al suo ventilatore polmonare, giacché Welby ha chiesto che gli sia staccato, non significa lasciare che le cose facciano il loro corso naturale, ma reiterare ogni giorno e notte una decisione dello Stato, dal momento che il medico curante ha declinato ogni responsabilità proprio chiamando in causa le leggi attuali. Dunque, proprio in questo preciso momento, per Welby sta decidendo lo Stato.
Al contrario, la «cultura radicale», ma non solo quella spero, vorrebbe che lo Stato facesse un passo indietro e che i tanti Welby potessero disporre di sé.
Ma Don Baget Bozzo va oltre, attribuisce alla «cultura radicale» una «cultura dei diritti, ma non nel senso della legge naturale, interpretata dal Cristianesimo come fondante diritti inerenti alla persona e antecedenti lo Stato». Nella «cultura radicale» l'unico diritto sarebbe «il diritto positivo e si tratta perciò di concessione dei diritti fatti con leggi dello Stato». La concezione radicale sarebbe «del tutto interna a quel sistema giuridico... nella più pura dottrina di Hans Kelsen», in assoluta «continuità con il Leviathan di Hobbes».
I radicali, dunque, sarebbero positivisti, kelseniani e hobbesiani. La «cultura radicale» non conosce legalità senza legittimità democratica. Per i radicali i diritti umani, il diritto di uomini e donne alla vita, alla democrazia, alla libertà, precedono il diritto degli Stati alla loro sovranità, precedono la loro legalità "positiva": «Diritti storicamente acquisiti come naturali per ogni essere umano». Esattamente l'opposto di quanto gli attribuisce Baget Bozzo.
Di questa convinzione hanno animato parecchie battaglie, anche grazie alle quali si è affermato fin dagli anni '80 non il «diritto» di ingerenza, ma il «dovere» di ingerenza: laddove sono negati i diritti naturali della persona umana cessa il diritto "positivo" degli Stati alla propria sovranità.
Baget Bozzo preferisce, forse per comodità, ignorare che anche per i liberali i diritti umani sono inalienabili e antecedenti lo Stato. Così come enunciati dal giusnaturalismo individualistico di John Locke, appartengono a una "legge" di natura pregiuridica e prepolitica, sovraordinata rispetto al diritto "posto" dagli uomini, il diritto positivo, nel senso che gli uomini e le loro leggi non ne dispongono.
Se per Don Baget Bozzo quella legge naturale trova in Dio il suo fondamento, per i liberali quei diritti sono naturali perché evidenti di per sé alla ragione (We hold these truths to be self-evident). Non vengono "posti" dai costituenti, ma semplicemente "dichiarati", come risultato ed espressione non del volere variabile di una maggioranza, ma di una concezione generale dell'uomo e della società condivisa - per alcuni appresa per rivelazione da Dio, per altri grazie all'uso della stessa ragione umana - e assunta dunque come valore definitivo, senza la quale non si ha il patto sociale.
Il vero «spartiacque» su tante «questioni personali e sociali» lo individua piuttosto Massimo Teodori: «Non è tra cattolici e laici, ma tra le persone tendenzialmente autoritarie che vogliono imporre i loro valori all'intera comunità nazionale, e gli uomini che ritengono di porre al centro dei propri comportamenti solo la loro coscienza nel rispetto delle legittime scelte altrui. È questo uno dei principi dell'umanesimo liberale che ha reso grande l'Occidente».
Dunque, oggi osserviamo emergere in modo lampante dal dibattito su questi temi una «dicotomia» molto netta e, se non offuscata per interessi di Botteghe, preziosa per il progresso civile del paese: da una parte la «centralità dell'uomo», dall'altra, «il riconoscimento di un'autorità al di fuori e al di sopra dell'uomo».
Chi è il padrone della vita umana? Questa è la domanda prima e ultima. A sentire il Papa, i vescovi e, ahimé, molti politici e ministri è Dio, che sulla terra ha lasciato agli uomini, come guide, la Chiesa e lo Stato, ciascuno nella sua sfera ma in «strettissima collaborazione», in una «comune missione educativa», come forse direbbe il presidente Napolitano.
Recentemente in un'intervista il Cardinale Tonini ha detto che «se qualcuno esprime il desiderio di affrettare la fine della propria pena, non è peccato. Anzi può essere anche un desiderio sano. Però... C'è un principio a cui non possiamo sfuggire. La vita è un dono, è sacro, è intangibile...». Si chiede Teodori: «Ma se Welby o chiunque altro ritiene che la vita appartenga solo a se stesso? Si può imporre la visione di una vita appartenente a Dio a chi non lo pratica o crede ad altre forme spirituali o trascendenti?» Ad ogni cittadino la sua risposta.
Molto peggiore o peggiore: 41,1%
Rispetto al Governo Berlusconi, il Governo Prodi finora è stato:
Molto peggiore o peggiore: 41,1%
Uguale: 25,4%
Molto migliore o migliore: 18,9%
Non sa/non risponde: 14,6%
Il «Paese degli ossimori», lo definisce Ilvo Diamanti a commento della sua indagine statistica. Il paese che chiunque governi, «non cambia mai».
Un altro recente sondaggio quantifica la popolarità del Governo Prodi in uno striminzito 31%, polverizzando qualsiasi record negativo dell'odiato Bush.
D'altra parte, il consenso per il Governo Prodi si è cominciato a volatilizzare addirittura prima del giorno delle elezioni, in quelle settimane in cui l'Unione perse oltre 8 punti percentuali di vantaggio sul centrodestra.
I dati parlano chiaro a chi ha orecchie per intendere. A questo punto, il mondo si divide tra gli ultimi giapponesi di Prodi e chi pensa/lavora al dopo. Non manca nell'Ulivo chi un giorno sì e l'altro pure prende in parte le distanze da Prodi o, comunque, non fa mistero di portare avanti il suo gioco.
Prendiamo il segretario dei Ds, Fassino, che in questi giorni non ha esitato a criticare l'atteggiamento del Governo: «Quando un disagio si manifesta, una classe dirigente non gira le spalle, né rivolge lo sguardo altrove»; né a dettare delle vere e proprie condizioni per la sua sopravvivenza. «Serve un cambio di passo»; bisogna «imprimere una correzione di rotta»; occorre «una innovazione di metodo di lavoro»; «senza un radicale mutamento degli indirizzi di politica economica l'Italia non ce la fa».
Francesco Giavazzi, oggi sul Corriere della Sera, si chiede dove mai finisca «tutto il denaro che spendono le nostre amministrazioni pubbliche, se non aiuta i poveri, né le donne che vorrebbero lavorare». La «vera priorità» della "Fase 2", conclude, è «l'eliminazione dell'inefficienza e delle situazioni di vero e proprio parassitismo che si annidano nelle amministrazioni pubbliche».
Molto peggiore o peggiore: 41,1%
Uguale: 25,4%
Molto migliore o migliore: 18,9%
Non sa/non risponde: 14,6%
Il «Paese degli ossimori», lo definisce Ilvo Diamanti a commento della sua indagine statistica. Il paese che chiunque governi, «non cambia mai».
Un altro recente sondaggio quantifica la popolarità del Governo Prodi in uno striminzito 31%, polverizzando qualsiasi record negativo dell'odiato Bush.
D'altra parte, il consenso per il Governo Prodi si è cominciato a volatilizzare addirittura prima del giorno delle elezioni, in quelle settimane in cui l'Unione perse oltre 8 punti percentuali di vantaggio sul centrodestra.
I dati parlano chiaro a chi ha orecchie per intendere. A questo punto, il mondo si divide tra gli ultimi giapponesi di Prodi e chi pensa/lavora al dopo. Non manca nell'Ulivo chi un giorno sì e l'altro pure prende in parte le distanze da Prodi o, comunque, non fa mistero di portare avanti il suo gioco.
Prendiamo il segretario dei Ds, Fassino, che in questi giorni non ha esitato a criticare l'atteggiamento del Governo: «Quando un disagio si manifesta, una classe dirigente non gira le spalle, né rivolge lo sguardo altrove»; né a dettare delle vere e proprie condizioni per la sua sopravvivenza. «Serve un cambio di passo»; bisogna «imprimere una correzione di rotta»; occorre «una innovazione di metodo di lavoro»; «senza un radicale mutamento degli indirizzi di politica economica l'Italia non ce la fa».
Francesco Giavazzi, oggi sul Corriere della Sera, si chiede dove mai finisca «tutto il denaro che spendono le nostre amministrazioni pubbliche, se non aiuta i poveri, né le donne che vorrebbero lavorare». La «vera priorità» della "Fase 2", conclude, è «l'eliminazione dell'inefficienza e delle situazioni di vero e proprio parassitismo che si annidano nelle amministrazioni pubbliche».
«Una battaglia in salita, perché è difficile fare il muso duro dopo aver approvato una Legge finanziaria che per accontentare un po' tutti aumenta la spesa pubblica di circa 7 miliardi di euro (Boeri/Garibaldi, lavoce.info)... E perché è difficile controllare la spesa se, prima ancora di sedersi a discutere il nuovo contratto con i sindacati del pubblico impiego, si mette sul tavolo abbastanza denaro per aumenti delle retribuzioni pari al 5% (dopo cinque anni in cui le retribuzioni dei pubblici dipendenti sono cresciute il doppio rispetto a quelle dei dipendenti privati)»."Fase 2", "discontinuità", "cambio di rotta", sono le espressioni che più irritano Prodi, ma il premier è avvisato. I primi sei mesi del 2007 saranno decisivi: riforme, pensioni soprattutto, o a casa. Dato per certo il "rimpastino", che dovrebbe dare all'inizio del prossimo anno quel segno di discontinuità tanto per placare l'opinione pubblica, non è detto che ciò sia sufficiente. E non c'è dubbio che a nessuno farebbe piacere rimanere sotto le eventuali macerie, il problema sarebbe solo quello di trovare non un killer, ma un becchino.
Wednesday, December 13, 2006
Nazislam
Di nuovo, il problema del 1933. Ma non vogliono capirlo
Inequivocabili le parole del premier israeliano Olmert nell'intervista di ieri su la Repubblica.
Esiste il rischio di un nuovo olocausto e «l'Europa non si può permettere di vedere la ripetizione di un'esperienza a cui siamo sopravvissuti per condannarla. Ahmadinejad è la più pura forma di antisemitismo, del peggior tipo. C'è solo un modo per fronteggiarlo: bisogna fermarlo. Nessuna tolleranza, nessuna pazienza. Bisogna fermarlo, e quelli che non agiranno per fermarlo dovranno portare sulle loro spalle il peso di quest'omissione».
Del lavoro delle forze italiane in Libano dice diplomaticamente di avere «un'opinione positiva», ma ciò che aggiunge suona come una pesante bocciatura:
Olmert difende la decisione di muovere guerra a Hezbollah, ma pecca un po' troppo di ottimismo sul suo esito: la mobilitazione di questi giorni dimostrerebbe che gli Hezbollah rischiano «di perdere completamente la loro influenza e il controllo della loro zona». Avrebbero perso le loro basi strategiche nel sud, area oggi controllata da migliaia di soldati libanesi e truppe internazionali, alle quali però, nella risposta precedente, rimproverava di permettere il riarmo dalla Siria. Non sarebbero più in grado di «attraversare il confine con Israele... di creare quel tipo di aggressioni, di pericoli che abbiamo conosciuto in passato». Si dice convinto che Siniora «riuscirà a rafforzare la sua posizione politica», e «questo significherà l'emarginazione di Hezbollah». Eppure, una «futura guerra» potrebbe essere «solo questione di tempo», avverte.
Un "no" deciso, comunque, a ogni dialogo con Siria e Iran, e l'amministrazione Bush, assicura Olmert, la pensa allo stesso modo. Iraq e Libano potrebbero fare la fine della Cecoslovacchia prima della Seconda Guerra Mondiale, sacrificate a un accordo che comunque non scongiurerebbe una guerra più ampia e disastrosa. E Israele potrebbe fare la parte della Polonia. Negoziare con Damasco e Teheran potrebbe significare una nuova Monaco 1938.
E' importante capire la natura della minaccia. Non sono in gioco l'Istria e la Dalmazia, Nizza e la Savoia, né le alture del Golan. Non si tratta di confini o dispute territoriali, di interessi economici, né della questione palestinese. «Il radicalismo arabo è la causa del conflitto israelo-palestinese, e non la sua conseguenza», ricorda David Frum.
Negando l'Olocausto, osserva Fiamma Nirenstein, Ahmadinejad sta in realtà enunciando un programma: «Israele non ha diritto ad esistere».
Della stessa idea Carlo Panella: la Conferenza è «un passaggio fondamentale per giustificare per via religiosa la necessità che tutti i musulmani si impegnino a distruggere Israele». Si proclama «un imperativo religioso a sostituire all'entità sionista uno stato islamico "dal Giordano al Mediterraneo"»
Sbaglia chi si ostina a ritenere che sia possibile sedersi attorno a un tavolo e trovare insieme ad Assad e Ahmadinejad un equilibrio tra potenze in grado di rispecchiare meglio i rapporti di forza nella regione, quindi di soddisfare tutti gli attori e garantire una nuova stabilità. Siria e Iran non cercano, se non come tappa strumentale, il riconoscimento di un loro status di potenze regionali. Non si fermerebbero lì. Il conflitto è ideologico e la posta in gioco - la distruzione di Israele - non negoziabile. Di fronte, una nuova utopia totalitaria, che si fonda su una versione fondamentalista dell'Islam, contraria alla modernità occidentale e cementata dall'antisemitismo.
Inoltre, la visione apocalittica e l'ideologia del martirio - ormai radicata nel mondo islamico anche se non ha paralleli nel suo passato - rende il regime degli ayatollah impermeabile a quella paura di distruzione reciproca che frenò Usa e Urss, India e Pakistan.
Inequivocabili le parole del premier israeliano Olmert nell'intervista di ieri su la Repubblica.
Esiste il rischio di un nuovo olocausto e «l'Europa non si può permettere di vedere la ripetizione di un'esperienza a cui siamo sopravvissuti per condannarla. Ahmadinejad è la più pura forma di antisemitismo, del peggior tipo. C'è solo un modo per fronteggiarlo: bisogna fermarlo. Nessuna tolleranza, nessuna pazienza. Bisogna fermarlo, e quelli che non agiranno per fermarlo dovranno portare sulle loro spalle il peso di quest'omissione».
Del lavoro delle forze italiane in Libano dice diplomaticamente di avere «un'opinione positiva», ma ciò che aggiunge suona come una pesante bocciatura:
«... ma dovrebbero fare uno sforzo addizionale per evitare che Hezbollah continui a riarmarsi: ci sono armi che continuamente, passando dalla Siria, arrivano ad Hezbollah. Bisogna fermare questo traffico, perché se non verrà fermato completamente potrebbe diventare il detonatore per una futura guerra. Sarebbe solo questione di tempo».Non servono chissà quali traduzioni: mentre Hezbollah si sta riarmando l'Unifil resta a guardare.
Olmert difende la decisione di muovere guerra a Hezbollah, ma pecca un po' troppo di ottimismo sul suo esito: la mobilitazione di questi giorni dimostrerebbe che gli Hezbollah rischiano «di perdere completamente la loro influenza e il controllo della loro zona». Avrebbero perso le loro basi strategiche nel sud, area oggi controllata da migliaia di soldati libanesi e truppe internazionali, alle quali però, nella risposta precedente, rimproverava di permettere il riarmo dalla Siria. Non sarebbero più in grado di «attraversare il confine con Israele... di creare quel tipo di aggressioni, di pericoli che abbiamo conosciuto in passato». Si dice convinto che Siniora «riuscirà a rafforzare la sua posizione politica», e «questo significherà l'emarginazione di Hezbollah». Eppure, una «futura guerra» potrebbe essere «solo questione di tempo», avverte.
Un "no" deciso, comunque, a ogni dialogo con Siria e Iran, e l'amministrazione Bush, assicura Olmert, la pensa allo stesso modo. Iraq e Libano potrebbero fare la fine della Cecoslovacchia prima della Seconda Guerra Mondiale, sacrificate a un accordo che comunque non scongiurerebbe una guerra più ampia e disastrosa. E Israele potrebbe fare la parte della Polonia. Negoziare con Damasco e Teheran potrebbe significare una nuova Monaco 1938.
E' importante capire la natura della minaccia. Non sono in gioco l'Istria e la Dalmazia, Nizza e la Savoia, né le alture del Golan. Non si tratta di confini o dispute territoriali, di interessi economici, né della questione palestinese. «Il radicalismo arabo è la causa del conflitto israelo-palestinese, e non la sua conseguenza», ricorda David Frum.
Negando l'Olocausto, osserva Fiamma Nirenstein, Ahmadinejad sta in realtà enunciando un programma: «Israele non ha diritto ad esistere».
Della stessa idea Carlo Panella: la Conferenza è «un passaggio fondamentale per giustificare per via religiosa la necessità che tutti i musulmani si impegnino a distruggere Israele». Si proclama «un imperativo religioso a sostituire all'entità sionista uno stato islamico "dal Giordano al Mediterraneo"»
Sbaglia chi si ostina a ritenere che sia possibile sedersi attorno a un tavolo e trovare insieme ad Assad e Ahmadinejad un equilibrio tra potenze in grado di rispecchiare meglio i rapporti di forza nella regione, quindi di soddisfare tutti gli attori e garantire una nuova stabilità. Siria e Iran non cercano, se non come tappa strumentale, il riconoscimento di un loro status di potenze regionali. Non si fermerebbero lì. Il conflitto è ideologico e la posta in gioco - la distruzione di Israele - non negoziabile. Di fronte, una nuova utopia totalitaria, che si fonda su una versione fondamentalista dell'Islam, contraria alla modernità occidentale e cementata dall'antisemitismo.
Inoltre, la visione apocalittica e l'ideologia del martirio - ormai radicata nel mondo islamico anche se non ha paralleli nel suo passato - rende il regime degli ayatollah impermeabile a quella paura di distruzione reciproca che frenò Usa e Urss, India e Pakistan.
E ora, Presidente, che si fa?
«Confido che il riconoscimento, anche da parte delle più alte autorità religiose, della conoscenza scientifica e del progresso tecnologico come "autentici valori della cultura del nostro tempo", consentirà di dare soluzioni ponderate e condivise ai problemi della libertà della ricerca, con il suo codice e con le sue regole, e ai più complessi temi bioetici».
Presidente Giorgio Napolitano (24 novembre)
«Accanto alle vittime dei conflitti armati, del terrorismo e di svariate forme di violenza, ci sono le morti silenziose provocate... dall'aborto, dalla sperimentazione sugli embrioni e dall'eutanasia. Come non vedere in tutto questo un attentato alla pace?»
Papa Benedetto XVI (12 dicembre)
E ora, Presidente, che si fa?
Presidente Giorgio Napolitano (24 novembre)
«Accanto alle vittime dei conflitti armati, del terrorismo e di svariate forme di violenza, ci sono le morti silenziose provocate... dall'aborto, dalla sperimentazione sugli embrioni e dall'eutanasia. Come non vedere in tutto questo un attentato alla pace?»
Papa Benedetto XVI (12 dicembre)
E ora, Presidente, che si fa?
Tuesday, December 12, 2006
Pericolose equiparazioni
L'aborto, la sperimentazione sugli embrioni e l'eutanasia equiparate da Papa Ratzinger al terrorismo e alla guerra. Una posizione in realtà che fu già di Wojtyla negli ultimi anni, quando paragonò l'aborto alla shoah.
La tirata anti-umanista del Papa prosegue, anche sui concetti di vita e diritto: «La vita è un dono di cui il soggetto non ha la completa disponibilità... Il diritto alla vita e alla libera espressione della propria fede in Dio non è in potere dell'uomo». Di chi? Di Dio, ma tramite chi?
Sempre utile ribadire che vignette e battute dalle parti del Vaticano non fanno affatto ridere: solo biasimo per il «sistematico dileggio culturale nei confronti delle credenze religiose».
E già che ci siamo, anche un po' d'ambientalismo anti-capitalista: «Uno sviluppo che si limitasse all'aspetto tecnico-economico, trascurando la dimensione morale religiosa, non sarebbe uno sviluppo umano integrale e finirebbe, in quanto unilaterale, per incentivare le capacitá distruttive dell'uomo».
Infine, un accenno alla pedofilia, alle tante piccole vittime, ma senza - per carità - guardare in casa propria.
La tirata anti-umanista del Papa prosegue, anche sui concetti di vita e diritto: «La vita è un dono di cui il soggetto non ha la completa disponibilità... Il diritto alla vita e alla libera espressione della propria fede in Dio non è in potere dell'uomo». Di chi? Di Dio, ma tramite chi?
Sempre utile ribadire che vignette e battute dalle parti del Vaticano non fanno affatto ridere: solo biasimo per il «sistematico dileggio culturale nei confronti delle credenze religiose».
E già che ci siamo, anche un po' d'ambientalismo anti-capitalista: «Uno sviluppo che si limitasse all'aspetto tecnico-economico, trascurando la dimensione morale religiosa, non sarebbe uno sviluppo umano integrale e finirebbe, in quanto unilaterale, per incentivare le capacitá distruttive dell'uomo».
Infine, un accenno alla pedofilia, alle tante piccole vittime, ma senza - per carità - guardare in casa propria.
Pinochet, tra storia e politica
Pinochet morto e sepolto, dunque. Un dittatore feroce, per molti versi simile allo spagnolo Franco. «Dittatore spietato», titolano opportunamente giornali come la Repubblica, La Stampa, l'Unità. Ci auguriamo che lo stesso tono verrà utilizzato quando sarà il turno di Fidel Castro. Scellerata invece la scelta del quotidiano il Giornale, che associa il termine «liberista» a «sanguinario», contribuendo così a quell'operazione propagandistica delle sinistre che associano il liberismo al fascismo solo perché il Cile di Pinochet adottò una riforma delle pensioni di stampo friedmaniano.
Nel 1975 - come ricorda Carlo Stagnaro dell'IBL - Friedman viene invitato a tenere una serie di conferenze in Cile. La stampa nazionale e straniera dà grande risalto alle sue tesi: il controllo dell'inflazione, un ampio programma di liberalizzazioni e privatizzazioni e la riduzione della spesa pubblica. Alcuni "Chicago boys", tra cui l'architetto della riforma pensionistica José Piñera, faranno parte del Governo cileno. Friedman si difenderà dalle accuse di collaborazionismo col regime con un semplice argomento: «Se questo può aiutare a migliorare la situazione delle libertà economiche in Cile, perché no?». In seguito, accetterà inviti anche da altri paesi, compresa la Cina comunista: «Nessuno me l'ha mai rinfacciato. Come mai?».
Da qui a definire Pinochet un "liberista" ce ne vuole, ma è indubbio che grazie a una certa politica economica, ai "Chicago boys" più che a Pinochet, il Cile ha conservato un tessuto civile dinamico e aperto che gli consente oggi di essere tra i paesi economicamente più solidi dell'America Latina e tra i pochi del continente con una sinistra democratica, guidata dall'attuale presidente Michelle Bachelet.
Il giudizio politico e umano sulla dittatura di Pinochet rimane: criminale, come tutte le dittature.
Dal punto di vista storico e politicologico, il regime di Pinochet si inserisce tra gli autoritarismi. Essi si differenziano dai totalitarismi, e di solito hanno effetti meno disastrosi sulle società su cui esercitano il proprio potere, perché mancano di una ideologia finalizzata alla creazione di una "società nuova", di un "uomo nuovo".
Pinochet approfitta della debolezza politica di Allende, trovatosi presto contro gran parte dei ceti sociali e delle categorie professionali a causa di una politica economica disastrosa. Stimabile socialdemocratico, probabilmente animato dalle migliori intenzioni, tuttavia stava per fare la fine di ogni riformista che si trovi al governo con una estrema sinistra fortemente ideologizzata in senso marxista e filo-sovietico: una corsa inarrestabile verso il socialismo reale.
Il contesto della Guerra Fredda, con il forte attivismo di Mosca in America Latina, già alleata alla Cuba castrista, indusse l'amministrazione Usa, allora guidata dal segretario di Stato Kissinger, a favorire la presa del potere del "figlio di puttana" disponibile al momento. Nel 1981 Pinochet fece approvare una Costituzione in cui veniva confermato per sette anni al potere, ma che sottoponeva un ulteriore mandato a un referendum popolare, che poi perse, con il 56% di no.
L'avanzata sovietica in America Latina poteva essere contenuta in altro modo, risparmiando ai cileni un'atroce dittatura? Probabilmente sì, ma la storia non si fa con i ma e con i se. Ed è noto che qui non si apprezza particolarmente il "realismo" kissingeriano.
Uno degli errori che rischiano di commettere a destra è riservare alla figura di Pinochet, pur condannandola dal punto di vista politico e umano, un posto nel proprio "campo" e nella propria memoria storica, come la sinistra con Castro, senza invece sottolineare il carattere alternativo di una destra democratica.
Nel 1975 - come ricorda Carlo Stagnaro dell'IBL - Friedman viene invitato a tenere una serie di conferenze in Cile. La stampa nazionale e straniera dà grande risalto alle sue tesi: il controllo dell'inflazione, un ampio programma di liberalizzazioni e privatizzazioni e la riduzione della spesa pubblica. Alcuni "Chicago boys", tra cui l'architetto della riforma pensionistica José Piñera, faranno parte del Governo cileno. Friedman si difenderà dalle accuse di collaborazionismo col regime con un semplice argomento: «Se questo può aiutare a migliorare la situazione delle libertà economiche in Cile, perché no?». In seguito, accetterà inviti anche da altri paesi, compresa la Cina comunista: «Nessuno me l'ha mai rinfacciato. Come mai?».
Da qui a definire Pinochet un "liberista" ce ne vuole, ma è indubbio che grazie a una certa politica economica, ai "Chicago boys" più che a Pinochet, il Cile ha conservato un tessuto civile dinamico e aperto che gli consente oggi di essere tra i paesi economicamente più solidi dell'America Latina e tra i pochi del continente con una sinistra democratica, guidata dall'attuale presidente Michelle Bachelet.
Il giudizio politico e umano sulla dittatura di Pinochet rimane: criminale, come tutte le dittature.
Dal punto di vista storico e politicologico, il regime di Pinochet si inserisce tra gli autoritarismi. Essi si differenziano dai totalitarismi, e di solito hanno effetti meno disastrosi sulle società su cui esercitano il proprio potere, perché mancano di una ideologia finalizzata alla creazione di una "società nuova", di un "uomo nuovo".
Pinochet approfitta della debolezza politica di Allende, trovatosi presto contro gran parte dei ceti sociali e delle categorie professionali a causa di una politica economica disastrosa. Stimabile socialdemocratico, probabilmente animato dalle migliori intenzioni, tuttavia stava per fare la fine di ogni riformista che si trovi al governo con una estrema sinistra fortemente ideologizzata in senso marxista e filo-sovietico: una corsa inarrestabile verso il socialismo reale.
Il contesto della Guerra Fredda, con il forte attivismo di Mosca in America Latina, già alleata alla Cuba castrista, indusse l'amministrazione Usa, allora guidata dal segretario di Stato Kissinger, a favorire la presa del potere del "figlio di puttana" disponibile al momento. Nel 1981 Pinochet fece approvare una Costituzione in cui veniva confermato per sette anni al potere, ma che sottoponeva un ulteriore mandato a un referendum popolare, che poi perse, con il 56% di no.
L'avanzata sovietica in America Latina poteva essere contenuta in altro modo, risparmiando ai cileni un'atroce dittatura? Probabilmente sì, ma la storia non si fa con i ma e con i se. Ed è noto che qui non si apprezza particolarmente il "realismo" kissingeriano.
Uno degli errori che rischiano di commettere a destra è riservare alla figura di Pinochet, pur condannandola dal punto di vista politico e umano, un posto nel proprio "campo" e nella propria memoria storica, come la sinistra con Castro, senza invece sottolineare il carattere alternativo di una destra democratica.
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