Anche su Notapolitica
Non servono politiche "eque", ma politiche che funzionino
Se ci è arrivato anche il "politicamente corretto" Corriere della Sera si vede che non siamo gli unici ad avvertire il pericolo. «Meglio decidere che concertare», è il titolo dell'editoriale di ieri a firma Dario Di Vico. Lo ripetiamo da giorni, da quando abbiamo ascoltato Mario Monti neo premier esibire al Senato un compiaciuto gusto per la concertazione. Che sia con i partiti o con le forze sociali, concertare in Italia significa non decidere un bel niente. E anche Di Vico è consapevole che il governo «ha un solo colpo in canna»: anche se può arrivare al 2013 ha in realtà poco tempo, due/tre mesi, per spingere sulle riforme strutturali necessarie a far ripartire l'economia italiana. Trascorso questo periodo, rischia di restare impantanato da veti e contro-veti.
Dunque, il primo errore in cui Monti non può assolutamente permettersi di incappare è lo stesso in cui hanno invece perseverato Tremonti e i suoi predecessori, ossia dividere in due fasi temporalmente distinte rigore e crescita. Con la scusa che per scrivere le riforme ci vuole tempo (mentre tassare è come prelevare da un bancomat), e di voler cercare «il consenso delle parti sociali», si conviene come prima cosa di aggiustare i conti pubblici a colpi di strette fiscali, rimandando il momento delle riforme alle settimane e ai mesi successivi, quindi di fatto indefinitivamente.
Secondo errore che Monti deve evitare in tutti i modi di commettere: reiterare le solite manovre basate per i 2/3 o i 3/4 su nuove entrate, cioè nuove tasse. E' esattamente ciò che tutti gli osservatori, innanzitutto i mercati ma anche quelli istituzionali come la Banca d'Italia e la Corte dei Conti, hanno rimproverato alle due manovre estive sfornate dal precedente governo con farina del sacco Tremonti, cioè di essere sbilanciate sul versante delle entrate rispetto a quello dei tagli alla spesa. Sarebbe davvero il colmo, e probabilmente un colpo letale per la nostra economia, se il governo d'emergenza chiamato a correggere i vizi del passato li riproponesse tali e quali.
Tutti si riempiono la bocca con la parola «crescita», ma al dunque, a leggere i giornali e ascoltando anche i più insospettabili programmi televisivi e radiofonici, sembra che non ci rimanga altro che scegliere a quale tassa impiccarci: patrimoniale o Ici? Iva o Imu? Oppure, ancora meglio, di tutte un po'? Con l'ipotesi ormai certa di una contrazione del Pil dello 0,5% nel 2012, si calcola che servono circa 15-20 miliardi di euro per centrare il pareggio di bilancio nel 2013. Senza tenere conto però che ulteriori strette fiscali in questo momento avrebbero l'effetto di deprimere ancora di più l'economia, e proprio incidendo negativamente sul denominatore del rapporto deficit/Pil allontanerebbero anziché avvicinare l'obiettivo del pareggio di bilancio, rendendo inevitabili altre manovre, con il rischio di un avvitamento simile a quello che sta soffrendo la Grecia: deficit, che richiede una stretta fiscale, che aggrava la recessione, che apre nuovi buchi di bilancio, i quali richiedono nuove strette fiscali e così via.
Impostare il problema in termini di "sacrifici", di "lacrime e sangue", non è solo fuorviante, è pericoloso. Il sacrificio utile è lavorare di più e meglio; pagare più tasse sarebbe un sacrificio dannoso oltre che inutile. Ai mercati in questa fase non interessa se a causa della recessione ormai certa nel prossimo anno non centreremo il pareggio di bilancio ma ci avvicineremo soltanto alla meta. Vogliono vedere prima di qualsiasi altra cosa se siamo in grado di realizzare riforme strutturali impopolari che in prospettiva ci facciano tornare a crescere a ritmi almeno del 2%; gradirebbero un abbattimento dello stock del debito, possibile con dismissioni di patrimonio pubblico non di 1 un punto di Pil in tre anni ma di 5 punti l'anno. Non servono quindi politiche di «equità», se per «equità» si intendono misure demagogiche per far vedere che "anche i ricchi piangono". Servono politiche che funzionino.
Purtroppo un governo non di tecnici, ma per lo più di burocrati da anni ai vertici della malagestione della cosa pubblica, sembra sprovvisto di ciò che serve sopra ogni cosa: una mentalità sburocratizzante. Bisogna "destatalizzare" il Paese e inventare nuove tasse significa fare esattamente il contrario: statalizzare quote ulteriori di ricchezza. Diverso sarebbe spostare il carico fiscale, aumentarlo sui patrimoni (Ici) e sui consumi (Iva), per ridurre contestualmente e significativamente il peso delle imposte sul lavoro e sull'impresa, cioè sulle attività produttive, a patto quindi che il saldo per lo Stato in termini di pressione fiscale complessiva risulti negativo.
1 comment:
Concordo e vorrei aggiungere: meno stato significa meno incentivi. L'impresa, quella sana, ha sempre investito, assunto, è sempre cresciuta sanza bisogno di incentivi. L'incentivo falsa il mercato, limita la concorrenza ed è fonte di rapporti poco trasparenti tra imprenditori e politici e sono fonte di reddito per un esercito di persone che non produce nulla. Spostiamo anche i fondi per gli incentivi verso la riduzione delle tasse.
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