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Monday, October 22, 2012

No alla scuola come assumificio né per fare cassa

Da una parte il governo, che inserendo nella legge di stabilità l'aumento delle ore di lezione per docente a stipendio invariato dimostra di essere interessato unicamente a fare cassa; dall'altra la difesa corporativa degli insegnanti e la levata di scudi, «a tutela dei docenti», della solita sinistra politica e sindacale, che perseverano nella loro concezione della scuola pubblica come "assumificio", principale causa del disastro educativo italiano. Nessuno sembra attribuire la giusta centralità all'interesse degli studenti, né porsi il problema della qualità del servizio e dell'efficienza del sistema. E intanto infuria il dibattito: tra chi difende gli insegnanti, ricordando la centralità del loro ruolo educativo e quanto siano sottopagati, e sottolineando l'ingiustizia di dover lavorare sei ore in più a settimana a paga invariata; e chi li attacca, considerandoli alla stregua di "fannulloni", dal momento che nessuna categoria può nemmeno sognarsi un orario di 18 o 24 ore settimanali e, anzi, molti lavoratori di fatto sono più vicini alle 50 che alle 40 ore.

Hanno ragione e torto entrambi gli schieramenti. Il problema è che per come è strutturato oggi il nostro sistema scolastico ci sono insegnanti - pochi, si ha l’impressione - che per la gloria, per senso del dovere o per passione lavorano molto più di 18 ore, offrendo un servizio di qualità. Sono costoro che mandano avanti la "baracca", tra mille difficoltà e mal pagati. Dovrebbe però essere interesse proprio di questi insegnanti che venga smantellato un sistema che permette a troppi loro colleghi di "imboscarsi", di fare il minimo sindacale e, quindi, di abbassare il livello qualitativo della nostra istruzione, pur percependo esattamente lo stesso stipendio. Dall'esperienza delle famiglie e dalle testimonianze degli insegnanti, che parlano di classi ormai di 30 alunni, emerge un quadro smentito dalle statistiche ufficiali (Ocse su dati del 2010, gli ultimi disponibili). In Italia...
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Thursday, September 23, 2010

Le impronte non sono della politica

Se diffidate - comprensibilmente, non essendo certo disinteressate - delle parole di Geronzi (a la Repubblica) e Rampl (nella sua lettera ai dipendenti), dopo Giannino anche un osservatore intellettualmente onesto e indipendente come Franco Debenedetti, sul Sole24Ore, sostiene che con l'estrmossionie di Profumo dalla guida di Unicredit la politica non c'entra nulla.
«La colpa di Alessandro Profumo sarebbe quella di essersi voluto scegliere il padrone, usando i soldi dei libici per ridurre il potere delle fondazioni, e poi trovare nel mercato il sostegno della propria leadership. Molte banche blasonate, si sono rivolte ai fondi sovrani. Ma il parallelo finisce lì: perché le altre grandi banche poi hanno fatto aumenti di capitale sul mercato a condizioni penalizzanti per gli azionisti, che quindi hanno cacciato i ceo, mentre Profumo i soldi li aveva chiesti non al mercato, ma alle Fondazioni e a condizioni non proprio di favore. Queste non avevano avuto timore di diluirsi per sostenere Profumo nella politica di acquisizioni, l'hanno alla fine seguito anche su una organizzazione che pure riduce il loro il potere locale. Perché adesso hanno cambiato orientamento: solo perché Profumo non ha saputo (o voluto? o potuto?) spiegare il senso dell'operazione? Non regge la spiegazione come colpo di coda del capitalismo di relazione, ancor meno quella del complotto politico. A lasciare "le impronte digitali" sono stati i consiglieri, quelli delle fondazioni e quelli tedeschi: tutti allineati nel fare un favore alla Lega (ancor prima che nominasse i consiglieri di competenza) o a Berlusconi? Con Ligresti che vota a favore di Profumo come copertura? Anche nei riguardi della politica del governo, Profumo si è costruito un'immagine di indipendenza: si è tirato fuori dal "salotto" di Via Solferino, e si è rifiutato di entrare nelle sistemazioni di Telecom e di Alitalia. Ma su cose di sostanza come la defenestrazione di Maranghi, o l'acquisto di Capitalia ha prestato alla politica tutta l'attenzione del caso... Né risultano sue opposizioni alla vendita di Mediocredito Centrale al Tesoro...

Prima di cercare le cause nelle nostre anomalie, quella della politica o quella del nostro sistema di governance capitalistica, incominciamo a cercarlo nella normalità: gli azionisti cambiano il management quando non sono contenti di quello che ha fatto e non sono convinti di quello che intende fare. Anche a chi guarda le cose dall'esterno, sembra che abbiano motivi per non essere contenti. Unicredito in quanto a sedi e sportelli è l'unica nostra banca europea, ma non è europea la sua struttura di management: in questa emergenza le deleghe operative sono paradossalmente nelle mani di coloro che reggevano la banca tedesca, sostanzialmente fallita quando Profumo la comperò. E il cambio di governance pare venga affrontato senza avere nessuna idea sulle tante opzioni strategiche che si possono immaginare per riportare la banca ai risultati economici che è lecito attendersi. Leggere l'avvicendamento di un Ceo come la metafora bancaria del cambiamento di governance del Paese che è nell'aria, spiega poco e confonde molto. Vedere invece nel modo con cui viene interpretato da chi sta fuori e affrontato da chi sta dentro un'altra manifestazione dell'incertezza del Paese verso il suo futuro economico e sociale, è purtroppo più che giustificato».

Wednesday, September 22, 2010

La cacciata di Profumo. Quanto c'entra la politica?

Per la Repubblica, manco a dirlo, è tutto un complotto Berlusconi-Geronzi. Il primo otterrebbe una «vittoria politica» in vista delle elezioni che avrebbe programmato per il marzo 2011; il secondo una «vittoria finanziaria» in vista della «mossa che, nella sua testa, chiuderà il 'Risiko' dei Poteri Forti: la fusione Generali-Mediobanca», scrive Massimo Giannini. Giavazzi, sul Corriere, ma è in buona compagnia, se la prende invece con la Lega, per aver seguito la strada dei «vecchi democristiani», che «controllavano il territorio (e i voti) attraverso le Casse di risparmio e le municipalizzate» (perché, dove crede che siano quei «vecchi democristiani» ora?). Vero è, purtroppo, che i leghisti fanno di tutto per entrare nel sistema anziché scardinarlo, ma improvvisamente sembra che siano loro gli inventori delle fondazioni e i veri affossatori di Profumo in difesa degli interessi dei loro «feudi locali», mentre sono semmai nient'altro che gli ultimi arrivati al tavolo (e gli ultimi a spingere l'ad). Ma su chi si è seduto prima di loro, e per maggior tempo, a quel tavolo, silenzio. E mi riferisco alle fondazioni guidate da ex democristiani ed ex comunisti che la fanno da padrone in molte regioni italiane. Ovviamente questo sistema andrebbe smantellato, ma è comprensibile che, se quel tavolo resta, una forza politica altamente rappresentativa al nord voglia sedersi e contare anch'essa. Né deve sorprendere che le strategie di una grande banca internazionale interessino eccome la politica.

Può piacere o meno, ma i presunti interessi dei clienti, ammesso che si possano generalizzare e rappresentare, sono diversi da quelli degli azionisti, e a questi ultimi i top manager devono rendere conto. L'aumento della quota libica in Unicredit è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Prim'ancora di addentrarsi in una disputa sui massimi sistemi, anche perché non è detto che il progetto di una grande banca multinazionale e "global" debba inevitabilmente passare sul cadavere di azionisti "local", fondamentalmente fondazioni e azionisti tedeschi l'hanno scaricato per gli scarsi utili e dividendi, per le ricapitalizzazioni e per una condotta autocratica. Non avendo sufficienti capitali per finanziare continuamente il tumultuoso sviluppo che era nei grandiosi disegni di Profumo, comprensibilmente gli azionisti temono di perdere quote di potere per effetto sia dell'ingresso, o dell'aumento di quote, di nuovi soci (vedi libici) sia di successive ricapitalizzazioni.

L'abbandono dell'internazionalizzazione e la chiusura in se stessa di Unicredit sarebbe un grave errore, ma non è detto che il progetto di "Banca Unica" debba passare per forza per un unico ad. Ed è un rischio sempre presente quello dei condizionamenti politici nella gestione. Ma in definitiva l'analisi più lucida ed equilibrata (direi indipendente) sull'intera vicenda mi sembra quella di Oscar Giannino, su Chicago-blog. Per Giannino la politica c'entra poco o niente con l'estromissione di Profumo:
«Quando i dividendi agli azionisti scendono a meno della metà rispetto al difficile anno precedente e poi a un quarto o a un quinto degli anni precrisi come nella semestrale 2010 Unicredit, e si è dovuto pure mettere mano al portafoglio per miliardi in aumenti di capitale, lo spazio dei manager si restringe... La piena delega a Profumo si è rotta piano piano, nel corso degli ultimi due anni. E non solo per minori utili e dividendi, accantonamenti e rettifiche per miliardi ulteriori dopo aver rafforzato il capitale per oltre 6 miliardi. Le fondazioni non l'hanno mai voluto, un modello operativo accentrato sul capoazienda, con tre vice e sette proconsoli, come doveva essere l'Unicredit concepita da Profumo».
Non la politica, dunque, che secondo Giannino «ha assistito da Roma preoccupata con Tremonti delle conseguenze sistemiche di una dipartirta senza successori pronti». «La pretesa influenza impropria della politica - scrive Giannino su Panorama Economy - è un'ombra cinese agitata con molta malizia e studiata abilità. In realtà, non è stata affatto la politica a mettere zampa nella caduta di Profumo». «Il teatrino politico italiano dirà che è stata la Lega ad entrare a gamba tesa» e, certo, ci sono le dichiarazioni di guerra del sindaco leghista di Verona, Flavio Tosi, ma «in realtà - fa notare Giannino - i leghisti dentro la Fondazione CariVerona ancora non sono formalmente neppure entrati, e Tosi è stato semplicemente astuto sui media a invocare più di tutti il ritorno in banca del potere ai territori». «Se non fosse così e fossimo stati in presenza (come sostiene la Repubblica) di uno spietato attacco per allineare la seconda banca italiana al naturalmente famigerato governo Berlusconi, non si capirebbe perché al contrario il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, abbia giocato fino all'ultimo nella vicenda assai più il ruolo del pompiere che quello del piromane».

«La sostanza - conclude Giannino - è che la caduta di Profumo con la politica non c'entra niente». Profumo paga una conduzione troppo «autoreferenziale», reo di «ignorare» gli azionisti, con «ricapitalizzazioni e tagli a utili e dividendi più dolorosi ai suoi azionisti che a quelli di altre banche italiane».

Saturday, April 07, 2007

Telecom. L'ingerenza putiniana del Governo

Romano Prodi con Vladimir PutinLa lezione di Profumo: il mercato l'unica «morale» dell'economia. E «accettare il mercato significa riconoscere esplicitamente il valore positivo del profitto»

Tornano all'attacco, non demordono. Telecom è un boccone troppo appetitoso e fino all'ultimo cercheranno di approfittare delle loro posizioni di potere. Prodi al Sole 24 Ore assicura che il governo «non è né assente né reticente». Anzi, magari potesse fare di più (in Russia sì che si può, Putin ha pieni poteri e Tronchetti lo spedirebbe in Siberia).

Se davvero Prodi volesse garantire una rete accessibile a tutti gli operatori, non di proprietà o di controllo statale, secondo il modello inglese "Open Reach", di British Telecom, potrebbe comunque farlo senza intromettersi nelle questioni proprietarie.

Senza ritegno, con tutta l'arroganza e la spudoratezza possibili, il ministro Bersani ha preso direttamente in mano la regia per formare una cordata italiana, o almeno italo-europea, che contrasti gli americani di At&t, e minaccia: «La partita non è ancora finita». E Bersani passa per il ministro più liberal in economia nel centrosinistra... mentre Fassino, sempre più patetico, disseppellisce addirittura il "piano Rovati".

Piuttosto, facciamo notare che da un paio di settimane sono state dissepolte alcune telefonate. Quelle che i Pm di Milano hanno portate al Gip, chiedendo che fossero trascritte e utilizzate nei processi. E' stata disposta la trascrizione di ben 45 telefonate. Ce ne sarebbero di Fassino, di D'Alema, di Consorte con Latorre, insomma, di tutti "quelli che volevano una banca" e che dicevano di non avere conflitti di interessi, puntando l'indice su quelli degli avversari politici. E guarda caso spunta una legge del ministro della Giustizia Mastella che prevede anni di galera per i giornalisti che pubblichino intercettazioni.

I nostri politici dovrebbero leggersi la prefazione di Alessandro Profumo, a.d. di Unicredit, al libro "Spiriti animali", pubblicata oggi dal Corriere, in cui si chiarisce che «la vera morale per l'economia sta solo nel mercato». Evitare «ogni accostamento tra etica ed economia». La validità di un'attività imprenditoriale va legata «alla correttezza e alla trasparenza della quotidiana operatività, nonché all'assunzione delle responsabilità delle proprie scelte, necessariamente indirizzate al perseguimento del profitto in modo sostenibile nel lungo periodo».

Dunque, «accettare il mercato significa riconoscere esplicitamente il valore positivo del profitto in quanto imprescindibile garanzia di continuità per l'attività d'impresa. Una efficiente economia di mercato, fondata su una concorrenza libera e leale, diviene essa stessa la migliore politica industriale in quanto stimola l'efficienza nella produzione, l'innovazione e il corretto utilizzo delle risorse. La concorrenza, inoltre, è vitale per assicurare una crescita economica sostenibile, occupazione e benessere economico diffuso».

Il libero mercato fa funzionare le economie proprio perché costringe i vari attori a «migliorarsi tramite un continuo confronto con le eccellenze presenti» e chi invece è leader nel proprio settore di business a cercare continuamente di rimanere sulla «frontiera dell'innovazione». Un «processo di selezione di casi di successo», e di scarto di quelli di fallimento, che favorisce l'evoluzione del sistema economico.