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Wednesday, May 19, 2010

Gli arrampicatori di specchi

Chissà che la crisi del debito nell'Eurozona non ci darà finalmente quella spinta per fare quello che da tempo avremmo dovuto fare. D'altronde, è sempre stato così per l'Italia: prendere decisioni politicamente scomode sull'onda di un'emergenza e dietro l'alibi del "ce lo impone l'Europa". Meglio che niente. Soprattutto se il ministro Tremonti darà davvero seguito a frasi come «è ora di ridurre effettivamente il peso della mano pubblica», «una correzione non solo dei conti, ma del sistema», «non aumenteremo le tasse».

Fa piacere poi sentirgli dire qualcosa in cui abbiamo sempre creduto, e cioè che i «margini di taglio della spesa pubblica sono tanto ampi da poter intervenire senza creare effetti distorsivi», e che «l'area della spesa pubblica è talmente ampia che può essere ridotta senza produrre un effetto recessivo». Per la prima volta viene espresso così chiaramente a livelli politicamente così elevati un concetto semplice: così enorme è la spesa pubblica, circa la metà in rapporto al Pil, che è del tutto folle far credere - come è stato fatto credere in passato - che non ci siano margini per tagli incisivi e strutturali pur senza toccare il rassicurante totem del welfare che siamo abituati a conoscere. Aspettiamoci nelle prossime settimane dagli stessi giornali, commentatori e politici, che fanno degli allarmi sui conti pubblici e della denuncia dei privilegi della casta i loro cavalli di battaglia, arrivare le grida di dolore per una supposta "macelleria sociale". Ma tra lo status quo e la cosiddetta "macelleria sociale" - cioè prima di arrivare a ripensare totalmente (come qui si auspica) il ruolo dello Stato nell'erogazione dei servizi pubblici - c'è una vastissima prateria di sprechi e inefficienze su cui intervenire.

Nel frattempo, registriamo che dopo i due editoriali consecutivi di Ostellino e Panebianco, il Corriere della Sera corre ai ripari e aggiusta la rotta, con l'editoriale di oggi affidato a Maurizio Ferrera, da cui sembra di capire che il mercato «che non fa paura» è sostanzialmente un mercato incatenato da un super-Stato europeo. Ma la mente di questa operazione è Mario Monti. Siccome il mercato è «impopolare», è l'argomento al centro del suo rapporto, bisogna «ricostruire il consenso» per «l'Europa del mercato».

Come fare? Con una tale acrobazia logica che sa di imbroglio intellettuale: da una parte si sostiene di voler promuovere più «concorrenza», dall'altra in concreto la si nega laddove fa comodo ed è politicamente scorretta. Una spruzzatina di concorrenza, dunque, con severe norme Antitrust da applicare alle multinazionali (ancora meglio se americane). Mentre sarebbe «sleale» la concorrenza dell'"idraulico polacco" e «sregolata» quella fiscale tra gli Stati. Il disegno che si leva all'orizzonte è piuttosto inquietante: per conquistare il consenso dei cittadini europei all'integrazione Ue, li si dovrebbe allettare conservando, e anzi elevando a livello europeo, le rigidità del mercato del lavoro e dei servizi, e delle relazioni industriali, nei singoli stati nazionali, e addirittura armonizzando i regimi fiscali. Ovviamente omologando verso l'alto i livelli di tassazione, in modo che gli stati che amano imporre tasse alte ai propri cittadini e alle proprie imprese non debbano più preoccuparsi della concorrenza fiscale degli stati che invece con tasse più contenute cercano di attrarre capitali e investimenti, esercitando indirettamente un indispensabile ruolo di freno all'ingordigia fiscale dei primi.

Addirittura Ferrera azzarda di suo un sistema europeo di welfare, citando Lord Beveridge, «l'architetto del welfare state moderno», proprio nel momento in cui quel modello si rivela sempre meno sostenibile, alla base della crisi del debito e della crisi di non-crescita in cui si dibatte l'Europa. Di fronte a un'Europa di questo tipo, sempre più simile ad un Leviatano, diciamo no.

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