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Monday, June 06, 2016

Il centrodestra può ripartire solo da Milano, i romani cercano un Marino al cubo

Tutte le forze politiche ricevono da queste elezioni amministrative indicazioni e ammonimenti

CENTRODESTRA - E' piuttosto evidente che il centrodestra torna ad essere competitivo quando 1) è unito, 2) è alternativo a Renzi e alla sinistra, 3) si presenta con il volto di uno come Parisi e non con quello del duo Salvini-Meloni...

L'analisi dell'"esperimento" romano per il centrodestra è piuttosto facile e sta tutta in un tweet di Francesco Storace (che sosteneva Marchini): "Siamo andati così male che almeno non abbiamo sulla coscienza il mancato ballottaggio di Giorgia Meloni".

Già, perché se si tratta della mozione degli affetti e del "celodurismo" di destra, può anche commuovere il 20% della Meloni "da sola", ma la realtà è che la prova di forza per la leadership nel centrodestra è persa malamente. Malamente perché la Meloni arriva terza staccata da Giachetti e senza nemmeno poter recriminare sul boicottaggio da parte di Berlusconi: è troppo distante da Giachetti (4 punti percentuali, 24,8 a 20,7) e troppo pochi (anzi forse nulli) i voti spostati da Berlusconi su Marchini, che ha preso più o meno quanto prese nel 2013 da solo. I suoi voti non sarebbero andati comunque alla Meloni, nemmeno se Berlusconi non lo avesse sostenuto. Diverso il discorso se Marchini avesse preso il 14-16%, o se il distacco della Meloni da Giachetti fosse stato intorno all'1%, allora sì Giorgia avrebbe potuto prendersela con Berlusconi.

La verità è che Salvini e Meloni hanno fatto carte false per giocare su Roma la propria prova di forza, per dimostrare la loro leadership nel centrodestra, e hanno preso la legnata. Questo non vuol dire che Berlusconi e Forza Italia se la passino bene, ma la controprova l'abbiamo a Milano. La lezione per il centrodestra è che con il profilo Salvini-Meloni fai il duro ma arrivi terzo. Per provare a vincere il profilo giusto è quello di Parisi. Il problema per Salvini è che in città che hanno ovviamente problemi anche grandi, come Milano, ma tutto sommato funzionicchiano, funzionano candidati moderati (più dell'80% degli elettori milanesi appoggia le proposte di Sala e Parisi), mentre in città allo sbando, dove c'è il caos, come a Roma, lo spazio della protesta lo occupa agevolmente il M5S. Per riassumerla con un tweet, scegliamo quello di Marco Taradash: "Un centrodestra di governo può rinascere solo dal centro(destra). Da Milano insomma, non da Roma". Uniti, in alternativa a Renzi e alla sinistra, ma con il volto di Parisi, non di Salvini-Meloni.

ROMA E MILANO - Ma la differenza tra Roma e Milano non è solo il profilo dei candidati... E' anche, e soprattutto, drammaticamente il profilo degli elettori... A Roma manca la borghesia, manca un ceto produttivo. La maggior parte delle famiglie dipende da uno stipendio pubblico, che sia statale o comunale, di un'amministrazione o di una partecipata. E anche le imprese, edilizie e non, dipendono dalla spesa pubblica improduttiva, centrale o comunale. Tanto che tutti i candidati hanno coccolato i 60 mila dipendenti tra comunali e municipalizzate (180 mila voti con i rispettivi famigliari?).

Ciò ovviamente non impedisce ai romani di lamentarsi delle cose che non vanno, ma la maggior parte di loro è parte del problema.

E i romani vogliono un Marino al cubo. Le motivazioni per cui elessero Marino nel 2013 sono le stesse per cui oggi votano Virginia Raggi. Attribuiscono al voto per una figura lontana dai partiti tradizionali e autoproclamatasi onesta, incorruttibile (che però non sia un ricco signore borghese e belloccio), un valore palingenetico. Credibilità? Competenze? Curriculum? Proposte? Se ne fregano... Nessuno forse se lo ricorda, ma già votando Marino i romani avevano votato contro l'establishment del Pd. Marino si candidò in polemica con il Pd, promettendo indipendenza dai vertici, ostentando la sua lontananza dal partito e la sua provenienza dalla "società civile", la sua "moralità". L'allora leadership del Pd, bersaniana, aveva appoggiato David Sassoli e i renziani Paolo Gentiloni. Gli elettori di sinistra scelsero Marino alle primarie e i romani lo incoronarono col 60%. Solo dopo pochi mesi questo 60% era scomparso. Non riuscivi più a trovarne uno che avesse votato per Marino... Da questo punto di vista, cioè le motivazioni di voto dei romani, la Raggi è un Marino al cubo e sì, può far peggio dei partiti. Ma statene certi, del 60% con cui verrà eletta sindaco dopo pochi mesi non si troverà nessuno.

IL M5S - Il successo a Roma del M5S è indiscutibile, così come del ballottaggio a Torino. Eppure, anche per il Movimento dal voto arriva alcuni warning. Innanzitutto, continua a non far presa sull'astensionismo. L'astensione in crescita, quasi la metà nelle grandi città, indica che la maggior parte degli elettori schifati dai partiti tradizionali preferisce restare a casa piuttosto che votare M5S. E con bassa affluenza, le percentuali, ovviamente, crescono. Inoltre, il M5S riesce a inserirsi alla grande nel vuoto delle forze politiche tradizionali e nelle situazioni allo sbando come Roma, intercettando il voto di protesta, ma non è ancora in grado di giocarsi la partita in situazioni "normali", tra proposte di governo credibili.

RENZI E IL PD - Non che sia andata bene al Pd renziano, ma le analisi che sentiamo/leggiamo e sentiremo/leggeremo nei prossimi giorni sono esageratamente negative. Il voto delle amministrative è sempre più "local" e sempre meno test nazionale. Dipende sempre più dalle realtà locali e dai candidati sindaci. Ed è giusto che sia così. E non esistono più da un pezzo le roccaforti. Ormai, se hai governato male una città, o semplicemente la gente si è stancata, puoi perdere. Anche a Torino e Bologna. Detto questo, il Pd è in vantaggio a Torino e Bologna, se la gioca a Milano ed incredibilmente è al ballottaggio a Roma dove la situazione era davvero disperata (dove va reso merito a Giachetti). Aspetterei, insomma, prima di parlare di avviso di sfratto a Renzi. Prima, dovranno farsi avanti alternative credibili a livello nazionale: con Salvini da una parte e Di Battista dall'altra può ancora dormire sonni tranquilli. Sui limiti strutturali del Pd, su Renzi deve intervenire, ha detto tutto Mario Sechi: il Pd, anche Giachetti a Roma, si è di nuovo rinchiuso nel suo recinto, rivolgendosi solo all'elettorato di sinistra, "ante-Renzi", e questo gli toglie molte possibilità di espandere i suoi voti ai ballottaggi e, ancor più preoccupante per Renzi, al referendum costituzionale di ottobre.
"Per miopia ideologica, vizio antico, tic antropologico, presunzione di autosufficienza che non c'è. Dov'è il renzismo che apriva le porte a chi voleva fare politica pur venendo da altre storie politiche? ... A chi farà appello il Pd? Come intende espandere il suo bacino elettorale? Adotta la strategia vista nelle elezioni comunali? Parla al suo elettorato ristretto (e mobile) che non è maggioranza nel Paese o pensa finalmente a qualcosa di più grande? Bisogna invece inseguire i voti potenziali di chi è rimasto a casa, di chi non è un militante del Pd ma ha un interesse per il futuro dell'Italia. Il renzismo è a un bivio: o si compie mostrando agli elettori un'offerta politica senza pregiudizi e steccati, oppure deraglia. Servono idee e cambi di passo nel partito, subito"
I "RADICALI" - Sono arrivati 1 a Roma e Milano. Decidano loro se grazie all'effetto morte di Pannella, a cui hanno fatto ampiamente ricorso sia Magi e Bonino a Roma che Cappato a Milano, o nonostante quell'onda emotiva. Se l'effetto Pannella ha contato, a questo si deve il superamento della "soglia psicologica" dell'1%, altrimenti sarebbero rimasti sotto. Se viceversa non ha contato, allora evidentemente gli elettori devono aver "riconosciuto" ben poco di Pannella in quelle liste...

Thursday, May 19, 2016

Una grande, forse irripetibile occasione sciupata

Tante battaglie. Alcune vinte, ma troppo poche. E alcune nemmeno battaglie ma poco più che scorribande. Altre, è stata già una vittoria averle combattute, in questo Paese. Ma la guerra - e ammetterlo, riconoscerlo, non diminuisce la sua grandezza - è persa. Basta guardare all'Italia oggi, a come è ridotto questo Paese, dall'"alto" della sua classe dirigente fino al "basso" della più dimenticata periferia... Un Paese rimbambito, rammollito, assuefatto agli opposti e convergenti statalismi. Statalismi di lotta e di governo. Un Paese che probabilmente è ancora più illiberale oggi di come Pannella l'ha trovato all'inizio della sua storia politica. Un Paese in cui per tentare di far passare qualcosa di liberale bisogna far ricorso all'argomento della mera convenienza pratica, non alla forza, dirompente, dell'idea stessa di libertà, che così poco evidentemente riesce a far presa sugli italiani...

Guai quindi a lasciarsi confondere dalle commemorazioni. Celebrare conquiste e vittorie di Pannella è fuori luogo, significherebbe accontentarsi, scambiare per libertà qualche lumicino flebile e intermittente acceso nelle tenebre... Troppo poco rispetto agli sforzi, enormi, profusi. Pannella è stato sì un gigante. Ma forse più di vita e di libertà, che di politica e liberalismo. Di errori ne ha commessi, ma va detto che le forze avversarie erano soverchianti e quelle alleate non alla sua altezza. Purtroppo, l'amarezza di questo giorno è resa ancora più profonda dal dover constatare, con tutta onestà, che Pannella ci lascia più testimonianza che reale cambiamento in senso liberale. Pannella è quello che ha (quasi sempre) ragione, e con decenni di anticipo, ma non quello che vince. Resta l'amaro in bocca di una grande, forse irripetibile occasione sciupata.

Ma si sa, che la vita è un brivido che vola via
è tutto un equilibrio sopra la follia.
Forse è stato questo il senso del suo vagare, forse era giusto così...
Ed era sbagliato aspettarsi qualcosa di più e qualcosa di diverso.
Ma è stato comunque un bel rumore. Ciao Marco.

Thursday, January 10, 2013

L'era del trasformismo anticipato e fenomenologia della "società civile"

Anche su Notapolitica

Siamo entrati nell'era del trasformismo anticipato. Ai nostri giorni va affermandosi una nuova categoria di politici: coloro che ancor prima di essere candidati a qualcosa hanno già indossato (quasi) tutte le casacche. Ma che non "entrano in politica", non "fanno politica". No, costoro - ci dicono - "vengono dalla società civile". Non bisogna sorprendersi, dunque, se qualche candidatura qui e là sembra davvero stonata in questa o in quella lista. Sono saltati tutti gli schemi, ogni riguardo alla coerenza, spesso anche il senso del ridicolo.

I partiti sono a caccia di esponenti della cosiddetta "società civile" da usare come altrettante foglie di fico sui fronti  in cui ritengono di essere scoperti, come specchietti per le allodole verso questo o quel pezzo di elettorato; d'altra parte, molti di essi sono ben consapevoli di quale sarà il loro ruolo, ma qualsiasi tram è buono pur di entrare in Parlamento. Nessuno si pone limiti. Nessuno che si preoccupi della compatibilità delle proprie idee con la storia, i personaggi e i programmi della lista in cui verrà eletto. Quindi capita di trovare nello stesso partito il più estremista dei sindacalisti e l'ex duro di Confindustria; il cattolico bigotto e lievemente omofobo e l'attivista gay. Nulla può più stupire in un simile caos. Si inizia firmando il manifesto di Giannino e si finisce candidati con il Pd; ci si batte al fianco di Renzi per le unioni gay e si finisce alla corte di Casini e Buttiglione; da capolista per Monti nell'arco di un paio di giorni si diventa capolista Pd; si inizia da intellettuali della Right Nation e si finisce abbracciando il liberal-keynesiano Monti.

Se è vero che in una certa misura lo schema destra/sinistra non è più sufficiente a descrivere e a spiegare la realtà politica, è anche vero che fino ad oggi nessuna iniziativa centrista, nemmeno quella di Monti, è riuscita a introdurre elementi di chiarezza e a definire nuove linee di demarcazione dotate di maggiore senso ideale e politico. Detto in parole semplici: non sono riuscite a separare i riformatori da una parte e i conservatori dall'altra, hanno solo dato vita ad ammucchiate alla ricerca di rendite di posizione.

C'è sempre il trasformismo tradizionale, quello di chi in Parlamento è pronto a spostarsi da un partito all'altro per determinare nuove maggioranze e nuovi equilibri, spesso ricavandone vantaggi personali; ma oggi il trasformismo inizia ancor prima di entrare in Parlamento, anzi come espediente per entrarvi, o comunque come mezzo di auto-promozione: la spasmodica ricerca di uno sponsor politico per fare carriera.

Tutto in nome della rappresentanza di questa benedetta "società civile". Lungi dal sostenere minimamente il professionismo in politica. Ma cos'è, esattamente, questa entità che sembra in grado di trasformare in oro anche la... ehm... di trasformare in oro chiunque e qualunque lista? La società civile siamo tutti noi e i rappresentanti della società civile non sono altro che i politici che eleggiamo come tali: i parlamentari. Essendo però così impopolare, al giorno d'oggi, ammettere di voler fare politica, quelli desiderosi di entrarvi si sono auto-proclamati rappresentanti della società civile avanzando la tesi che per rinnovarsi la politica avrebbe dovuto aprire le porte, appunto, alla società civile. Cioè, a loro.

Questo fenomeno - la corsa a candidare il magistrato, il professore, il giornalista, lo sportivo, il sindacalista, l'industriale (e da parte di queste figure a farsi candidare) - ha raggiunto in questi giorni effetti parossistici. Tutto legittimo, per carità. Quello che si chiede è un minimo di pudore: dite che vi candidate in rappresentanza di voi stessi, al massimo delle corporazioni e delle organizzazioni di cui fate parte, ma non della "società civile". Se non altro, a questo punto, la cosiddetta "società civile" non avrà più alibi, non potrà più prendersela con la politica, essendo diventata essa stessa "la politica".