Alla fine Monti per la riforma del lavoro ha scelto di affidarsi allo strumento del disegno di legge piuttosto che al decreto, come aveva fatto fino ad oggi per tutte le sue riforme. «Una linea di ascolto» nei confronti del Parlamento, l'ha definita il presidente del Senato Schifani. Che però rischia di suonare come un liberi tutti. In pratica il premier offre la riforma del lavoro - una delle due riforme, dopo quella delle pensioni, più attese dai mercati - in pasto ai partiti, nelle cui mani così facendo ripone anche la sua stessa credibilità. E rinuncia anche a presentarsi con qualcosa di concreto in mano nel suo «roadshow» asiatico per convincere gli investitori della ritrovata competitività italiana. Un segnale poco rassicurante: forse Monti sta perdendo la sua presa sui partiti. E se per la prima volta ha temuto che la maggioranza potesse non reggere l'urto di un decreto, significa che l'ha già persa. Un'altra conferma, come già avevamo sottolineato dopo il dl liberalizzazioni, che via via l'azione di governo sta perdendo incisività e rapidità.
Ciao riforma del lavoro, dunque, arrivederci a fine luglio. E' allora che la vedremo riemergere dalle sabbie mobili parlamentari, chissà come sfigurata. Un grosso rischio, quello che si è preso il premier, sia perché i mercati, in attesa di riforme per la crescita, stanno manifestando segni di insofferenza, sia perché è imprevedibile in quale senso il risultato delle prossime elezioni amministrative possa influenzare l'atteggiamento dei partiti che sostengono il governo.
Di due realtà bisogna inoltre prendere atto. La decretazione d'urgenza diventa un problema solo quando infastidisce il Pd: fino ad oggi il governo non ha esitato ad usare i decreti, e sui decreti a porre la fiducia, per approvare le sue riforme, comprese quelle più scomode elettoralmente per il Pdl; quando è arrivato il momento del Pd ingoiare il rospo, ecco che si è arreso al ddl. E' sempre più evidente, inoltre, che la decretazione d'urgenza non è più nella piena discrezionalità del governo. E' il capo dello Stato, che anziché limitarsi a firmare o meno l'atto, determina con la sua influenza la scelta dello strumento legislativo e, quindi, l'indirizzo politico del governo. Una prassi palesemente e gravemente incostituzionale. Così Napolitano al culmine della crisi ha impedito a Berlusconi di varare un decreto che avrebbe soddisfatto molte delle richieste europee in anticipo di mesi, e per il quale sussistevano tutti i parametri di necessità e urgenza; mentre ha permesso a Monti di governare esclusivamente per decreto, salvo poi interrompere questa prassi quando non ha più fatto comodo al Pd, e pur non essendo venuti meno i motivi di necessità e urgenza.
1 comment:
Napolitano applica la legge ai nemici e la interpreta con gli amici,la sua imparzialità mi ricorda quella di Byron Moreno.
Toni
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