E' stata la rassegnazione più che l'indignazione la reazione della grande stampa – anche dei giornalisti da anni impegnati nella battaglia contro la "casta", intesa come ceto politico – alla sentenza con cui i giudici della Corte costituzionale hanno "salvato" gli stipendi d'oro dei magistrati, loro colleghi, e degli alti burocrati dello stato dal "contributo di solidarietà" introdotto nel 2010 dal governo Berlusconi (il 5% per la parte di stipendio compresa fra 90 e 150mila euro, e il 10% oltre i 150 mila euro), mentre anche il tetto fissato da Monti agli stipendi degli alti dirigenti pubblici (294 mila euro, non proprio bruscolini) sta incontrando resistenze formidabili, tanto che dopo oltre 6 mesi dalla sua introduzione formale, nel marzo scorso, è ancora ampiamente disapplicato.
Pur con tutte le resistenze e gli imperdonabili ritardi, la casta politica sta pagando per i propri abusi, legali o meno, di denaro pubblico: con inchieste, scandali, gogne mediatiche e, infine, taglio dei costi. Ma a quanto pare in Italia si trova sempre qualcuno più intoccabile degli intoccabili: i magistrati e gli alti burocrati, i cui stipendi sono incomparabilmente più alti di quelli dei loro colleghi di altri Paesi industrializzati, le pensioni idem, e le cui carriere procedono verso l'alto per automatismi piuttosto che per merito. Se il presidente della Corte Suprema americana guadagna 223 mila dollari (171 mila euro), e il direttore dell'FBI 141 mila dollari (110.000 mila euro), da noi il capo della Polizia Antonio Manganelli si porta via 621 mila euro e il primo presidente di Cassazione 294 mila, per fare solo alcuni esempi.
Configurandosi come tributo, osservano i giudici della Consulta, il cosiddetto "contributo di solidarietà" vìola l'articolo 3 della Costituzione, perché produce un «irragionevole effetto discriminatorio» sia rispetto agli altri dipendenti che guadagnano meno della soglia prevista, sia rispetto ai dipendenti privati, ai quali non si applica. Limitarlo ai dipendenti pubblici vìola il principio della parità di prelievo a parità di capacità contributiva. Per quanto riguarda i magistrati, inoltre, è incostituzionale anche solo il blocco degli incrementi automatici triennali dello stipendio, in quanto secondo la Corte lede la loro autonomia e indipendenza.
Per quanto la sentenza possa apparire ineccepibile tecnicamente, dal punto di vista giuridico, più che in punta di diritto verrebbe da dire in punta di cavillo, la Consulta offre il fianco all'accusa di difesa "corporativa". Impossibile non notare infatti come i giudici, dichiarando incostituzionale il tributo, abbiano difeso anche la propria busta paga. Avranno giudicato in scienza e coscienza, ma il conflitto di interessi è lampante. Più di qualche sospetto grava anche sui veri "tecnici", coloro che negli uffici di Palazzo Chigi e nei gabinetti dei ministeri aiutano a scrivere in concreto i provvedimenti, o li scrivono direttamente, e che li accompagnano lungo l'iter parlamentare. Sono gli stessi i cui stipendi sarebbero stati decurtati dal "contributo di solidarietà" (il capo di gabinetto del Ministero dell'economia prende 536 mila euro) e sorge il dubbio che non si siano impegnati più di tanto a rendere la legge inattaccabile da eventuali ricorsi e profili di incostituzionalità.
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