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Thursday, November 28, 2013

Imu, il pasticciaccio sulla seconda rata

Anche su Notapolitica e L'Opinione

E' davvero difficile mettere la faccia su un provvedimento come quello che per quest'anno ha cancellato la seconda rata dell'Imu sulla prima casa. Insomma, per lo meno non è da tutti: ci vuole un certo tipo di faccia. Innanzitutto, è stata abolita solo per il 2013 e non anche per il futuro, come si sforzano di far credere alcuni esponenti di governo, dal momento che dal 2014 sulle prime abitazioni si pagherà la Tasi: sulla stessa base imponibile dell'Imu, ad aliquote simili (vicine al 2,5 per mille rispetto alla media del 4,4 della vecchia Imu) e con molte meno detrazioni. E non è la tesi propagandistica di qualche pericoloso estremista pregiudizialmente contrario al governo Letta-Alfano. A confermarlo, mercoledì in conferenza stampa, è stato lo stesso ministro dell'economia Saccomanni, quando in un lampo di verità ha spiegato che gli aumenti fiscali deliberati a carico del sistema bancario sono «una tantum» perché «del resto è una tantum anche l'abolizione della seconda rata dell'Imu sulla prima casa». Né può essere accusato di ostilità nei confronti del governo e di vicinanza a Berlusconi il Sole 24 Ore, dalle cui tabelle si evince come potrebbero non essere poche le famiglie che nel 2014 si troveranno a pagare sulla prima abitazione più tasse che ai tempi della vecchia Imu.

Ma nemmeno relativamente al solo 2013 il governo è riuscito a rispettare l'impegno sull'Imu. Non sono esentati tutti i terreni agricoli né tutte le prime case. I continui rinvii del governo sull'Imu, infatti, hanno alimentato un'incertezza nella quale si sono inseriti furbescamente i Comuni, i quali hanno alzato le aliquote sulla prima casa scommettendo sul fatto che alla fine sarebbero arrivate le compensazioni statali e non avrebbero pagato i loro cittadini. Il risultato è che il costo dell'intera operazione è salito di ben 500 milioni, che il governo non è riuscito a coprire, e dunque molti cittadini dovranno metterci la differenza perché i Comuni hanno ormai messo a bilancio quelle somme. Secondo le stime della Uil, questo pastrocchio a gennaio provocherà una mini-stangata su 3,4 milioni di abitazioni principali: in media 42 euro (73 a Milano).

Con sprezzo del pudore, inoltre, si sostiene che l'Imu sia stata abolita senza aumentare la pressione fiscale. Le coperture trovate, però, sia pure "una tantum", dicono il contrario. Non sono altro che aumenti fiscali: 650 milioni dall'anticipo, da parte degli intermediari finanziari, delle ritenute relative al risparmio amministrato (le tasse sugli interessi dei conti deposito, per esempio); 1,5 miliardi dall'aumento al 130% dell'acconto Ires e Irap dovuto per il 2013 da banche e assicurazioni; per questi stessi soggetti, inoltre, l'aliquota Ires viene elevata per il solo 2013 (quindi retroattivamente) dal 27,5% al 36%. E su chi pensate che verranno scaricati questi ulteriori costi? Il presidente dell'Abi Patuelli ha già messo le mani avanti: «Ogni appesantimento della pressione fiscale sul comparto bancario pesa non solo sulle banche ma sul complesso dell'economia produttiva». Tradotto, vuol dire minori impieghi e prestiti a favore di imprese e famiglie, e maggiori costi per i clienti.

Thursday, October 17, 2013

Manovra di galleggiamento

Anche su Notapolitica e L'Opinione

Non è certo la "svolta" che molti si aspettavano, tanto meno quello "shock fiscale" che molti invocano pur senza grandi speranze. E' una manovra di galleggiamento (del governo, soprattutto), dove la stabilità rischia di confondersi con l'immobilismo. La resistenza, purtroppo bipartisan, a procedere con decisione sul fronte dei tagli alla spesa pubblica ha impedito al governo di essere più coraggioso nella riduzione del carico fiscale su famiglie e imprese. Riduzione che di fatto, come vedremo numeri alla mano, è nella migliore delle ipotesi inconsistente, se non inesistente. Un calo della pressione fiscale di un punto percentuale nell'arco di tre anni, dal 44,2 al 43,3%, e una diminuzione davvero misera del cuneo fiscale (2,5 miliardi) sono davvero troppo poco per pensare di invertire il ciclo economico.

Da notare il doppio tentativo del governo di influenzare lo "spin" sulla manovra. Non si può escludere infatti che aver fatto filtrare le ipotesi dei tagli alla sanità e dell'aumento dell'aliquota sulle "rendite" finanziarie, per poi evitarli all'ultimo momento, avesse la funzione di far tirare un sospiro di sollievo sia a sinistra che a destra, predisponendo gli osservatori ad un accoglimento meno severo della legge di stabilità. Poi, l'accorgimento di presentare su base triennale l'ammontare dell'intervento sul cuneo fiscale, così da gonfiarne le cifre. Ma proviamo a triplicare anche altre grandezze di finanza pubblica: i 5 miliardi in tre anni di sgravi a favore dei lavoratori sono l'1% del gettito Irpef triennale (quasi 500 miliardi) e i 5,6 miliardi di sgravi alle imprese corrispondono ad 1/20 di quanto versano di sola Irap in tre anni. Nel 2014, in realtà, l'intervento sul cuneo fiscale vale appena 2,5 miliardi su una manovra di 11,5: il resto è per lo più una pioggia di nuove spese, come sempre.

Certo, politicamente il governo Letta sembra non aver offerto ai suoi nemici, a destra come a sinistra, il pretesto, la "pistola fumante", per cui farlo cadere. Ma nonostante questi tentativi di influenzare la copertura mediatica della manovra, la delusione è palpabile un po' in tutti gli attori politici e sociali, così come negli editoriali dei principali giornali, e vissuta con un certo imbarazzo persino tra gli "sponsor" del governo Letta e dai cantori della cosiddetta "stabilità". Davvero difficile per chiunque non riconoscere la pochezza e lo scarso coraggio di questa legge di stabilità.

Ma vediamo gli altri numeri. Il valore complessivo della manovra è di 11,6 miliardi nel 2014 (e 7,5 sia nel 2015 che nel 2016). Rispetto alla manovra del governo Monti c'è un leggero riequilibrio nelle coperture. Le maggiori entrate fiscali pesano sempre in modo eccessivo, ma in misura minore che in passato: 1,9 miliardi, anche se altri 300 milioni arrivano dalla rivalutazione delle attività delle imprese e 2,2 miliardi dalla revisione della tassazione delle svalutazioni e delle perdite su crediti degli intermediari finanziari. Dai tagli alla spesa corrente arrivano 3,5 miliardi (2,5 dal bilancio dello Stato e un miliardo dalle spese di funzionamento delle Regioni): si tratta comunque di meno dello 0,5% del totale della spesa pubblica e nel trienno solo del 2% in meno (16 miliardi). Da dismissioni e rivalutazioni di cespiti e partecipazioni arriveranno 500 milioni l'anno. I 3 miliardi restanti vengono definiti da Letta un «premio» per la chiusura della procedura di deficit eccessivo. Ci giochiamo, insomma, un minimo di flessibilità in più che ci viene concessa dall'Europa.

Ma le due manovre sono difficilmente comparabili: quella di Monti servì a correggere i conti pubblici, quella del governo Letta-Alfano serve a finanziare per 2/3 nuova spesa pubblica e solo per 1/3 riduzioni di imposte. Sono una miriade le voci finanziate: le missioni all'estero, il 5 per mille, la cassa integrazione in deroga, gli investimenti degli enti territoriali, la manutenzione straordinaria della rete autostradale, l'Anas e le Ferrovie, il Mose, il fondo per le politiche sociali, il fondo per lo sviluppo e la coesione, il fondo per le università, i fondi per le non autosufficienze, per i lavoratori socialmente utili e per la Social Card. E ancora aiuti all'editoria, agli autotrasportatori e agli agricoltori. Tra i tagli alla spesa solo limature, nessun intervento strutturale. Il nuovo "contributo di solidarietà" dalle pensioni d'oro dovrebbe valere una sessantina di milioni su un costo totale della platea individuata che si aggira sui 3,5 miliardi. La sola parte eccedente i 100 mila euro di questi redditi da pensione ci costa circa 857 milioni, quindi il contributo medio sarebbe del 7% della parte eccedente i 100 mila euro (gli 857 milioni) e nemmeno del 2% rispetto al costo complessivo degli assegni (i 3,5 miliardi).

Ma cerchiamo di capire quale sarà nel 2014 il saldo reale per i cittadini, in termini di tasse, rispetto all'annus horribilis che sta per finire, il 2013. L'aumento della detrazione Irpef sul lavoro dipendente vale 1,5 miliardi, una decina di euro in più al mese in busta paga per i redditi medio-bassi (picco di 172 euro l'anno per chi dichiara 15 mila euro). A cui però vanno subito sottratti 500 milioni di minori agevolazioni fiscali (detrazioni per spese sanitarie e istruzione di cui usufruiscono quasi tutte le famiglie), ben 900 milioni per l'incremento dell'imposta di bollo sulle attività finanziarie (la nuova "stangatina" sul risparmio), nonché il ritorno dell'Irpef sulle seconde case sfitte (questi ultimi due aumenti colpiscono una platea più ristretta di contribuenti ma sottraggono comunque potere d'acquisto).

Poi ci sono due certezze e due incognite. Prima certezza: resta l'aumento dell'Iva dal 21 al 22%, che per il governo sembra ormai un capitolo chiuso (4 miliardi l'anno, 3 in più rispetto al 2013). Seconda certezza: l'aumento delle accise su carburanti (75 milioni), alcolici (130 milioni), sigarette elettroniche (117 milioni), lubrificanti e tabacchi (50 milioni). E veniamo alle incognite. Quale sarà il gettito della nuova Tasi, l'imposta che dovrebbe sostituire l'Imu sulla prima casa? Per ora sappiamo che l'aliquota base prevista è dell'1 per mille, ma non è chiaro se, e fino a quanto, ai Comuni sarà permesso di aumentarla (il tetto massimo dovrebbe coincidere con quello della vecchia Imu). Nella legge di stabilità il governo ha trasferito ai Comuni un solo miliardo (invece di due, come ipotizzato) per coprire esenzioni e detrazioni volte ad alleggerire il peso della nuova imposta, ma se le aliquote finali della componente Tasi (tra quella base e i rialzi dei Comuni) si avvicinassero a quelle dell'Imu, ecco che potrebbero restare 2/3 miliardi in più da pagare rispetto al 2013 (Confcommercio stima 2,4 miliardi di euro in più dalla "Trise"). Un vero e proprio gioco delle tre carte. Si pagherà meno (forse) del 2012, quando era in vigore l'Imu sulla prima casa, ma certamente più di quest'anno in cui l'Imu è stata cancellata.

Seconda incognita: l'Iva. Resta infatti la minaccia di un ulteriore peggioramento di alcune aliquote come risultato della rimodulazione a cui sta lavorando il governo. Per non parlare della cancellazione della seconda rata dell'Imu per quest'anno, per cui ancora non sono note le coperture. Dunque, tutto sommato e tutto sottratto, si può affermare senza timore di smentite che nel 2014 pagheremo più tasse che nel 2013 e, forse, persino più che nel 2012 (lo scopriremo solo pagando la "Trise"). Non va molto meglio alle imprese, che si vedono concedere una riduzione di 40 milioni della componente Irap relativa al costo del lavoro e un taglio dei contributi sociali di un miliardo circa.

A questo punto vi starete chiedendo come si spiega il calo della pressione fiscale di un punto percentuale in tre anni sbandierato dal governo ieri sera, se le tasse dal 2014 potrebbero addirittura aumentare. Non va dimenticato che si tratta di una grandezza percentuale in rapporto al Pil e il punto in meno è una conseguenza delle previsioni di crescita (ottimistiche) inserite nel Def, e non di chissà quali tagli di tasse.

L'impianto di questa legge di stabilità risponde ad una logica di redistribuzione del reddito (di un reddito che non c'è), piuttosto che di riduzione del peso dello Stato, e quindi delle tasse. Una logica tipica dei governi di centrosinistra per come li abbiamo conosciuti sia nella Prima che nella Seconda Repubblica.

Friday, January 25, 2013

La lezione politica del caso Mps

Decidetevi: "Il Pd fa il Pd e la Banca fa la Banca", come dice Bersani; oppure "noi abbiamo sostituito Mussari", come dice D'Alema? Il Pd non può negare di avere il controllo del Monte Paschi di Siena e allo stesso tempo intestarsi il merito di aver sostituito Mussari, sulle cui dismissioni tra l'altro sembra aver pesato molto di più il pressing della Banca d'Italia che non un improvviso ravvedimento del Pd senese. In realtà, tutti sanno che i vertici di Mps sono nominati dalla Fondazione Mps, i cui membri sono quasi tutti scelti dagli enti locali - Comune e Provincia di Siena, Regione Toscana - da decenni amministrati dal Pd e dai suoi diretti antenati Ds e Pci.

Qualche domanda su chi possa aver lanciato il siluro Mps contro il Pd, attraverso la soffiata al Fatto quotidiano, io però me la porrei (cui prodest?). E' venuto fuori, per esempio, che tra i candidati (in buona posizione) nella Lista Monti alla Camera c'è un tale Alfredo Monaci, membro del Cda di Mps dal 2009 al 2012 (gestione Mussari) e tuttora presidente di Mps immobiliare. Con il fratello Alberto, anche lui Pd (ex Dc ed ex Margherita) e presidente del Consiglio regionale toscano, al centro di una "faida" interna al partito che lo vede contrapposto - tanto da far saltare la giunta del Comune di Siena - alla linea di discontinuità in Mps del sindaco «bersanian-dalemiano» Ceccuzzi.

Ma al di là della polemica sulle responsabilità politiche del Pd, quale lezione trarre dal caso Mps? Certamente riapre la questione delle fondazioni bancarie, attraverso le quali i partiti continuano ad esercitare la loro influenza, a volte un controllo totale (come nel caso di Mps), sulle banche italiane. Il che non pone solo un problema di governance delle banche e, al limite, di malcostume, che riguarda gli organi di vigilanza o la magistratura, quindi ristretto al mondo bancario e finanziario, e che non dovrebbe diventare un caso anche politico ed elettorale. E', anzi, un tema squisitamente politico, dal momento che questo assetto proprietario delle banche italiane ha effetti profondamente negativi sull'intera economia del paese, soprattutto in questo periodo di crisi economica e finanziaria, e solo per questo dovrebbe essere al centro della campagna elettorale.

Le fondazioni servono ai partiti per continuare a mantenere il controllo sulle banche, o comunque a influenzarne la gestione. Da qui la resistenza delle fondazioni a diluire le loro quote, con la compiacenza dei decisori politici, dei regolatori e delle autorità di vigilanza. Peccato che ciò renda il sistema bancario sottocapitalizzato e, quindi, incapace di sostenere l'economia e le famiglie, soprattutto in momenti di crisi. I termini della questione li ha esposti perfettamente Oscar Giannino, commentando proprio il caso Mps.
«In questi anni i regolatori e la politica hanno preferito banche meno capitalizzate, cioè con meno risorse per prestiti a imprese e famiglie, per non far diluire il controllo delle fondazioni. E' un tema politico eccome, per effetto di questa scelta l'economia italiana è ancor più asfittica. Le fondazioni devono cedere il controllo attraverso meccanismi di mercato, a maggior ragione per i denari che ci hanno perso e che le impossibilita alla loro vera funzione, il sostegno sociale e culturale ai territori».
Una domanda quindi andrebbe posta ai candidati-premier, a parte Giannino che nel suo programma elettorale ha già dato risposta affermativa: "Vi impegnate a separare una volta per tutte le banche dalla politica superando il sistema delle fondazioni, per aprire il sistema bancario alla concorrenza?"

Riguardo il prestito da 3,9 miliardi che lo Stato ha concesso a Mps, ad un tasso comunque parecchio oneroso, è solo un caso che coincida con il gettito dell'Imu sulla prima casa. Non abbiamo pagato l'Imu per salvare la banca del Pd, insomma, questa è propaganda. Non c'è alternativa al prestito, purtroppo, né all'eventuale salvataggio, perché a farne le spese sarebbero i risparmiatori e l'intero sistema finanziario italiano. Però il tema politico dell'uso del denaro dei contribuenti c'è tutto: lo si usi pure, purché chi ha sbagliato paghi e d'ora in poi ci si impegni seriamente a cambiare questo sistema.

Il guaio è che il prestito verrà erogato ma il cancro che ha portato alla crisi di Mps non verrà estirpato, tutto continuerà come prima. Così diventa insopportabile la disparità di trattamento: lo Stato presta i soldi a Mps, va bene, ma i cittadini e le imprese non possono nemmeno vedere compensati i loro debiti con il fisco con i crediti che vantano con la pubblica amministrazione? Come contribuenti siamo vessati, vigilatissimi, tutte le nostre spese vengono tracciate, analizzate, addirittura d'ora in poi presunte induttivamente, mentre la terza banca del paese la fa sotto il naso a tutti gli organi di controllo e vigilanza, tra cui la Banca d'Italia? Come meravigliarsi che il cittadino, nel suo piccolo, s'incazzi?

Thursday, November 22, 2012

La guerra di Befera sempre più psicologica e ideologica

Anche su L'Opinione

Nella migliore delle ipotesi il "redditest" è inutile, quindi uno spreco di soldi pubblici. «Non cerchiamo la piccola evasione o l'errore materiale», rassicura il direttore dell'Agenzia delle Entrate, Attilio Befera. Dunque, il software non è rivolto ai contribuenti onesti, i quali possono incappare al massimo in qualche errore di dichiarazione. «Non deve terrorizzare chi già paga le tasse – spiega – ma dovrebbe essere usato da chi evade». Ma cosa se ne fa chi evade consapevolmente e sistematicamente, e quindi sa già che le sue spese non sono in linea con il reddito dichiarato? Al massimo lo utilizzerà per carpire criteri e misure usati dal fisco per circoscrivere l'area della sospetta evasione, al fine di affinare le proprie tecniche evasive, o anche solo verificare fino a che soglia può spendere il reddito evaso senza correre il rischio di insospettire troppo. Insomma, un software che paradossalmente rischia di aiutare l'evasore, piuttosto che indurlo all'adempimento spontaneo.

Il contribuente onesto, invece, che riscontrasse una "non coerenza" tra le proprie spese e il reddito dichiarato ne ricaverebbe solo ansia e allarme. Non sarebbe portato a dichiarare reddito che non ha percepito, ma potrebbe essere indotto a moderare in ogni caso le sue spese per non rischiare di finire tra i "sospetti".

Ma il redditest è solo l'antipasto del redditometro, al via dal gennaio prossimo. L'Agenzia delle Entrate potrà calcolare il reddito che le famiglie dovrebbero dichiarare alla luce delle spese sostenute, invertendo sul contribuente l'onere di provare che la spesa eccedente non è il frutto di reddito non dichiarato. L'accertamento scatta quando lo scostamento supera la soglia di tolleranza del 20%, anche se «nella prima fase saremo molto cauti», assicura Befera.

Intendiamoci: giusto concentrarsi non solo là dove il reddito viene prodotto, ma anche sulle spese incoerenti con il reddito dichiarato, per verificare che non siano frutto di evasione. Ma "assolutizzare" su una platea di 25 milioni di famiglie il concetto che le spese debbano corrispondere al reddito dichiarato per non destare sospetti è puro delirio di onnipotenza statalista.

Soprattutto in tempi di crisi, infatti, le famiglie possono sostenere i loro consumi quotidiani o spese eccezionali ricorrendo al risparmio, al credito o all'aiuto dei parenti. I mezzi più che leciti attraverso i quali con un reddito medio ci si può permettere un auto da 30 mila euro, una vacanza da sogno, una ristrutturazione di casa o l'acquisto di una seconda casa, possono essere i più disparati: risparmi accumulati in una vita, il tfr, redditi esenti, un aiuto dei genitori ai figli o viceversa, vincite ed eredità. E siccome prima di avviare l'accertamento l'agenzia è comunque obbligata ad un contraddittorio preliminare, il rischio è che milioni di contribuenti siano chiamati a spiegare casi banalissimi, con una enorme perdita di tempo e di denaro da parte di tutti, fisco in primis. Inoltre, se dal possesso e dalle spese di gestione, anche presunte, di certi beni mobili e immobili si può dedurre un certo reddito, presumendo anche i consumi quotidiani, per esempio utenze e generi alimentari, sulla base di medie Istat, senza riscontri oggettivi, si rischia di incorrere in errori clamorosi, perché tra famiglie del tutto simili e in uno stesso territorio le abitudini possono differire enormemente, determinando livelli di spesa molto diversi da quelli presunti dal fisco.

La stima secondo cui una famiglia su cinque, secondo i criteri utilizzati dal redditest, sosterrebbe spese «non coerenti» con i redditi dichiarati dai propri componenti, dimostra la fallacia del sistema e l'allarme sociale che può provocare: che farà Befera, chiamerà in contraddittorio 5 milioni di famiglie? Il direttore si raccomanda di non attribuire a questi strumenti un effetto depressivo sui consumi, ma è la logica a suggerirlo. Se passa il concetto che sostenendo spese superiori al proprio reddito si rientra automaticamente in un'area di sospetta evasione, e si può incorrere quindi nelle verifiche del caso – che possono sì avere esito negativo ma sono comunque motivo di angoscia – rischiamo che all'occultamento del reddito si aggiungano diminuzione, occultamento o delocalizzazione dei consumi.

In questo periodo di crisi e di scarsa fiducia le fasce di popolazione più benestanti possono permettersi di continuare a sostenere i consumi, la produzione e quindi l'economia. Ma se queste famiglie, la maggior parte delle quali dobbiamo presumere oneste, si convincono che spendere può procurargli fastidiose noie o un marchio d'infamia, saranno indotte o a spendere meno o, chi può permetterselo, a "delocalizzare" i propri consumi e il godimento dei propri beni. Se per recuperare una manciata di miliardi, perché tanto finora ha prodotto l'inasprimento della lotta all'evasione, perdiamo altrettanto gettito e distruggiamo posti di lavoro e interi comparti, come quello del lusso, possiamo avere la coscienza a posto ma stiamo impoverendo il paese, non gli evasori.