Pubblicato su formiche
Trump capovolge la
politica e la retorica di Obama. Lo scambio: ritorno ai tradizionali
alleati per contenere e isolare l'Iran, ma niente scuse o alibi, i
paesi musulmani devono sradicare l'estremismo islamico. Nessun
leader occidentale aveva parlato così chiaramente ai leader arabi:
"Drive Them Out" ("Cacciateli via da questa
terra")
Mentre i media mainstream
sono ancora in preda all'isteria anti-Trump e "sragionano"
di impeachment e dintorni, la notizia che arriva da Riad (e da
Gerusalemme) è che alla Casa Bianca c'è finalmente un presidente,
non una sedia vuota, e persino una politica per il Medio Oriente. Se
non una "dottrina", dal discorso del presidente Trump
davanti ai leader dei Paesi arabi e islamici sunniti riuniti a Riad
emerge almeno una visione di lungo termine.
Un
discorso rispettoso ma non ossequioso, di apertura e amicizia ma
senza comode omissioni né alibi. Trump non ha menzionato la politica
o "l'arroganza" americana come causa dell'odio jihadista,
né ha fatto ricorso alla solita retorica dell'islam "religione
di pace e amore". Ma ha lanciato un messaggio chiaro e severo su
come si aspetta che agiscano i leader arabi nei confronti di
estremisti e terroristi islamici: Drive. Them. Out. "Cacciateli
via da questa terra". Trump ha chiamato le cose con il loro
nome, ha parlato di "estremismo islamico" e di "terrorismo
islamico". Nessun presidente degli Stati Uniti, nessun leader
occidentale, aveva parlato così francamente ai leader arabi: "Non
siamo venuti qui a dare lezioni a nessuno" e "non è uno
scontro di civiltà", bensì "tra Bene e Male", ma la
responsabilità di sradicare il terrorismo "islamista"
spetta in prima istanza ai paesi a "maggioranza musulmana".
Trump non è andato in Arabia Saudita a spiegare cosa c'è di
sbagliato in America o in Occidente, ma cosa non va in Medio Oriente,
che si trova oggi impelagato in una "crisi di estremismo",
ideologica nella sua natura, che innanzitutto i musulmani sono
chiamati a risolvere.
Una premessa. La lotta in
corso a Washington tra l'outsider che a sorpresa scippa alla sinistra
una vittoria che sentiva di avere in tasca e il vecchio establishment
è qualcosa che in Italia abbiamo già vissuto. I tentativi di
"spallata" a Silvio Berlusconi da parte della sinistra
politica, mediatica e giudiziaria sono durati vent'anni. Alla fine la
porta è venuta giù, ma al prezzo di danni sistemici enormi per il
paese (in termini di solidità economico-finanziaria, posizione in
Europa e crisi istituzionale nei rapporti tra politica e giustizia).
E non è che la sinistra italiana goda ora di ottima salute. Se fosse
in grado di imparare dai suoi errori, potrebbe dare qualche consiglio
ai Democratici americani e ai media militanti d'oltreoceano. Anche
negli ultimissimi articoli che riportano leaks sull'indagine
Russia-gate sono costretti a concludere che "non c'è al momento
alcuna prova di illeciti o collusione tra la campagna Trump e i
russi". Il memo dell'ex direttore dell'FBI Comey citato dal New
York Times (che sabato ha ammesso: "non siamo ancora in zona
impeachment"), che proverebbe l'ostruzione alla giustizia da
parte di Trump, non si sa neppure se esiste ed è comunque smentito
da audizioni sotto giuramento dello stesso Comey. Ma i media italiani
riprendono acriticamente, e tristemente, come certezze, su cui poi
pretendono di fondare analisi e scenari, quelle che sono, nella
migliore delle ipotesi, ricostruzioni giornalistiche ancora tutte da
verificare. Sembra quasi che riversare su Trump fiumi di inchiostro
al veleno possa cancellare il fatto che un anno fa il giornalista e
il commentatore "collettivo" hanno mancato del tutto la
comprensione del fenomeno.
L'unica certezza di tutto
questo polverone è che i continui leaks che alimentano la campagna
politica e giornalistica contro l'amministrazione Trump sono illegali
e minacciano la sicurezza nazionale Usa, ma su questi reati
gravissimi commessi da ex e attuali funzionari l'FBI di Comey si
rifiutava di indagare. Probabilmente perché molti dei leaks
provengono dagli stessi vertici dell'agenzia. È grazie a questa
campagna di delegittimazione a forza di leaks, alimentata dal
sottogoverno, dalla burocrazia (il "deep state" lo chiamano
negli Stati Uniti), fatto di funzionari rimasti fedeli a Obama ancora
in carica per l'impreparazione di Trump, che i Democratici sperano di
vincere le elezioni di medio termine del 2018 e avere i numeri
necessari a imbastire una procedura di impeachment. Ma sia che la
spallata riesca, sia che i Democratici ne escano con le ossa rotte,
il prezzo, come il caso italiano sta a dimostrare, potrebbe essere
alto per la credibilità dell'intero sistema, politico e mediatico.
Nel frattempo, accadono cose
rilevantissime. L'amministrazione Trump conferma, come avevamo
segnalato in precedenti articoli su Formiche, di voler capovolgere la
fallimentare politica mediorientale di Barack Obama. L'ascesa
dell'Iran infatti ha messo in scacco la politica estera dei
predecessori di Trump. Già il presidente Bush nel suo piano di
esportazione della democrazia in Iraq aveva sottovalutato l'influenza
iraniana. L'appeasement dell'amministrazione Obama con l'Iran,
suggellato dall'accordo sul nucleare, ha incoraggiato Teheran a
perseguire i suoi disegni egemonici destabilizzando il Medio Oriente,
dalla Siria allo Yemen. Sforzi non contrastati per non pregiudicare
quell'intesa, illudendosi che riconoscendo il suo status di potenza
regionale il regime degli ayatollah potesse trasformarsi da fattore
di instabilità a partner per la stabilità regionale. Il risultato è
un incendio ancora più esteso: l'asse russo-iraniano, che
l'amministrazione Trump sta cercando ora di rompere, ha preso il
sopravvento in Siria e i tradizionali alleati arabi sunniti,
abbandonati da Obama, si sono sentiti liberi di reagire anche
flirtando, come in Siria, con i gruppi terroristici in funzione
anti-iraniana. Una tentazione in cui è caduta persino la Turchia di
Erdogan, un paese Nato.
Secondo Michael Doran,
dell'Hudson Institute, l'amministrazione Trump ha il merito di aver
riconosciuto questi errori, e di mettere in discussione una serie di
dogmi di politica estera che si sono rivelati falsi: che il "soft
power" americano sia la chiave per stabilizzare il Medio
Oriente, mentre la determinazione al ricorso dell'"hard power"
è la precondizione per ristabilire l'ordine. Falso che il sostegno
agli alleati storici sia causa di instabilità, come ha pensato Obama
allontanandosi da Tel Aviv e Riad per tendere la mano al "nemico"
a Teheran. E infine, falso che il conflitto tra palestinesi e
israeliani sia la madre di tutte le crisi in Medio Oriente e quindi
la chiave per risolverle.
Nucleare o no, l'Iran è il
principale stato sponsor del terrorismo al mondo, la principale
minaccia alla stabilità in Medio Oriente, e gli ultimi otto anni ne
sono la dimostrazione. La svolta strategica dell'amministrazione
Trump consiste quindi nel ritorno ai tradizionali alleati: promette
di schierare tutto il peso politico e militare americano per
contenere e isolare l'Iran, in cambio dell'impegno dei Paesi arabi e
islamici sunniti a combattere sul serio, concretamente, l'estremismo
e il terrorismo islamico, a sradicarli dalle loro terre, dalle loro
comunità e dai loro luoghi di preghiera. Ma distruggere l'Isis –
obiettivo facile da spiegare agli elettori su cui Trump ha puntato
tutto in campagna elettorale – non basta. Serve una coalizione di
paesi interessati alla stabilizzazione della regione. Egitto,
Giordania, Emirati, ma soprattutto tre alleati storici degli Stati
Uniti che possano esercitare la propria influenza al di fuori dei
loro confini: Arabia Saudita, Israele e Turchia. Il fatto che proprio
Riad e Gerusalemme siano state le prime tappe del tour di Trump
subito dopo l'incontro con il presidente turco Erdogan a Washington,
lascia intendere che l'amministrazione ne sia consapevole.
Questi alleati non sono
sempre affidabili e presentabili (come non lo erano certo gli
ayatollah per Obama)? Vero, ma emarginarli, come ha fatto Obama, li
ha resi ancora più "problematici". Ma l'aspetto decisivo è
che al contrario dei russi e degli iraniani, fino ad oggi hanno
dimostrato di accettare di muoversi all'interno di un ordine dominato
dalla leadership americana, mentre Teheran e Mosca intendono sfidarla
e sostituirsi ad essa. Sostenere i tradizionali alleati nella regione
per contenere e isolare l'Iran è quindi la politica
dell'amministrazione Trump in Medio Oriente. A Washington non si
fanno troppe illusioni, ma c'è almeno una possibilità che vedendosi
isolati a loro volta, i russi decidano infine di sganciarsi da
Teheran. Non è un piano, né una coalizione "glamour", ma
la disastrosa situazione ereditata in Medio Oriente non offre molte
altre scelte, e spesso si tratta di scegliere tra il male e il
peggio. La vedremo alla prova dei fatti.
Al centro del discorso di
Trump al summit proprio la proposta di questo "scambio". Il
presidente americano ha evocato una coalizione di paesi per
combattere il terrorismo islamico, chiarendo però che "i paesi
a maggioranza musulmana devono assumere la guida nella lotta alla
radicalizzazione". Ha parlato della necessità di "sconfiggere
il terrorismo ma anche l'ideologia che lo guida". Per questo ha
parlato anche di "islamismo", facendo riferimento esplicito
a quella visione politica totalitaria dell'islam di cui la maggior
parte dei leader occidentali negano persino l'esistenza. E senza
concedere alibi ai suoi interlocutori: "Non può esserci
coesistenza con questa violenza. Non può esserci alcuna tolleranza,
alcuna accettazione, alcuna giustificazione né indifferenza".
Se "non è una
battaglia tra diverse fedi, diverse sette o diverse civiltà, ma tra
criminali barbari che cercano di annientare la vita umana e persone
perbene di tutte le religioni che vogliono proteggerla", insomma
"una battaglia tra Bene e Male", tuttavia il presidente non
ha taciuto le radici di questo male, sottolineando le precise
responsabilità, i doveri dei leader dei Paesi arabi e dei leader
religiosi islamici nel combatterlo. "Possiamo vincere questo
male solo se le forze del bene sono forti e unite – e se tutti si assumono la loro giusta quota e svolgono la loro parte di oneri".
Se il terrorismo si è
diffuso in tutto il mondo, è "da qui", da questa "antica
e sacra terra" che "inizia il cammino verso la pace".
Gli Stati Uniti sono "pronti a schierarsi con voi – nel
perseguire interessi condivisi e sicurezza comune". Ma, ha anche
avvertito Trump, "le nazioni del Medio Oriente non possono
aspettare che la potenza americana distrugga questo nemico per loro.
Devono decidere che tipo di futuro vogliono per se stessi, per i loro
paesi e per i loro figli. Una scelta tra due tipi di futuro ed è una
scelta – ha scandito – che l'America non può fare per voi".
Quindi il cuore del messaggio ai leader arabi: "Cacciate
terroristi ed estremisti. Spazzateli via. Cacciateli dai vostri
luoghi di preghiera. Cacciateli dalle vostre comunità. Cacciateli
dalla vostra sacra terra. Spazzateli via da questa terra!".
Gli Stati Uniti, ha
assicurato Trump, adotteranno un approccio pragmatico, un "realismo
di sani principi", prenderanno decisioni basate sull'esperienza
del mondo reale e non sull'ideologia. Ma "le nazioni musulmane –
ha ribadito – dovranno assumersi l'onere". Non un impegno
vago, il presidente americano ne ha delineati quattro molto concreti.
Primo, "ogni paese della regione ha un dovere assoluto di
assicurare che i terroristi non trovino alcun rifugio nel suo
territorio". Secondo, "tagliare tutti i canali di
finanziamento" che permettono all'Isis di vendere petrolio e
pagare combattenti e rinforzi. Terzo, "affrontare sul serio la
crisi di estremismo islamico e il terrorismo islamico di ogni genere.
Il che vuol dire – ha esplicitato Trump ai suoi interlocutori arabi
– schierarsi insieme contro l'assassinio di musulmani innocenti,
contro l'oppressione delle donne, la persecuzione degli ebrei e il
massacro di cristiani". E' stato chiaro anche nel richiamare
alle loro responsabilità i leader religiosi islamici, che devono
dire in modo assolutamente chiaro ai fedeli: "Se scegliete il
terrorismo, la vostra vita sarà vuota, sarà breve, ma soprattutto
la vostra anima sarà condannata". Quarto, "promuovere le
aspirazioni e i sogni di tutti i cittadini che vogliono una vita
migliore, incluse le donne, i ragazzi e i seguaci di tutte le fedi".
Trump ha quindi esortato i leader arabi a "fare della loro
regione un luogo in cui ogni uomo e donna, a prescindere dalla fede o
dall'etnia, possa vivere con dignità e speranza".
E Trump ha infine aperto il
capitolo sul regime iraniano, che "offre ai terroristi rifugi
sicuri, sostegno finanziario e status sociale", ed è
"responsabile di così tanta instabilità nella regione. Dal
Libano all'Iraq allo Yemen, Teheran finanzia, arma, addestra
terroristi, milizie e altri gruppi estremisti... Per decenni, ha
alimentato conflitti settari e terrorismo… Parla apertamente di
sterminio, distruzione di Israele, morte all'America e rovina per
molti dei leader e delle nazioni arabe". Ha quindi citato il
caos in Siria, il sostegno ad Assad, l'uso di armi chimiche e la
risposta americana. Senza dimenticare che il popolo iraniano è la
prima vittima dei suoi leader e della loro "sconsiderata ricerca
di conflitto e terrore". "Le nazioni responsabili – ha
concluso Trump – devono lavorare insieme per porre fine alla crisi
umanitaria in Siria, sradicare l'Isis e restaurare la stabilità
nella regione" e "finché il regime iraniano non vorrà
essere un partner per la pace, devono lavorare insieme per isolare
l'Iran, impedirgli di finanziare il terrorismo e pregare perché il
popolo iraniano abbia il giusto e legittimo governo che merita".
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