Pagine

Monday, January 31, 2011

Grosso guaio al Cairo/2 - Chi aveva ragione e chi ha avuto torto

«La crisi dell'Egitto è, per i politologi, l'equivalente di ciò che il crollo di Lehman Brothers è stato per gli economisti». Lo scrive oggi Marta Dassù, su La Stampa, e ci pare una giusta riflessione. Ma non è la prima volta. Come all'epoca dell'Urss, in pochissimi sul finire degli anni '70 e all'inizio degli '80 ne prevedevano il crollo imminente. Anzi, la maggior parte degli analisti e dei commentatori erano persuasi che Mosca stesse prevalendo nella sfida con gli Usa o comunque che occorresse rassegnarsi a convivere con un potente blocco sovietico. Non mancava, però, chi - inascoltato - continuava a vederne la fragilità, e ad essere convinto che sarebbe bastata una spallata dall'esterno, o una scintilla dall'interno, a far crollare tutto. Ed è così che andò. Penso ai tanto vituperati neocon e a dissidenti come Sharansky, e a Reagan, che ha saputo fare tesoro delle idee e delle analisi giuste, sia pure minoritarie.

Così in questi anni c'è chi andava ripetendo che le dittature "laiche" del mondo arabo bisognava sostenerle in funzione anti-islamica, e che persino con gli ayatollah era il caso di mettersi d'accordo perché non avrebbero mai perso il potere in Iran. Ebbene, la realtà sembra invece dare ragione a quanti sostenevano che il cambiamento era alle porte, che quei regimi avevano le ore contate perché le società mediorientali, pur tra mille contraddizioni, non ne potevano più, e che l'Occidente avrebbe dovuto farsi carico di indirizzare, influenzare per il meglio questo processo anziché ritardarlo rischiando di esserne travolto. «Questa scarsa capacità di prevedere ha molto a che fare - scrive Dassù - con la nostra abitudine a studiare i regimi, più che i Paesi. Se decidessimo che anche i Paesi contano - la gente, non solo i potenti - le nostre analisi sarebbero migliori, probabilmente. E con loro, anche scelte di politica estera per troppi anni rivolte a sostenere regimi amici, ma nemici della loro gente».

In realtà, da una parte, mentre si perde tempo con la politica della «mano tesa», il potere degli ayatollah in Iran non è affatto così saldo e la società iraniana è tra le più pronte a sostituire la dittatura con qualcosa di simile alla democrazia; dall'altra, i «regimi amici» come quello di Mubarak si dimostravano sì preziosi alleati dell'Occidente, per esempio nelle crisi arabo-israeliane, ma lungi dal rappresentare un vero argine, con la loro oppressione e il loro malgoverno hanno gonfiato le file dell'estremismo islamico. Per l'Occidente, e l'America soprattutto, mostrarsi «amici» di costoro ha significato perdere la battaglia per le menti e i cuori della gente. E ad approfittarne sono stati proprio gli islamisti, che invece hanno saputo cavalcare il malcontento. Non solo sui ceti più popolari, ma anche sulla cosiddetta "borghesia", sugli imprenditori e i professionisti, come medici, avvocati, ingegneri, hanno più presa le organizzazioni integraliste islamiche come i Fratelli musulmani.

A questo punto, la via per Obama è obbligata - scaricare Mubarak - ma non facile, anche perché i preziosissimi alleati nella regione (come i sauditi) sono alla finestra per valutare il trattamento che l'America riserva ai suoi «amici». Purtroppo, però, l'accelerazione verso una transizione piena di opportunità, ma anche di incognite, rischia di essere un evento subìto dagli Usa piuttosto che favorito e, se non guidato, almeno in qualche modo bene indirizzato. Scarsa lungimiranza ed errori di prospettiva, come è già accaduto, lasciano Washington in balìa degli eventi (e dei suoi nemici). Parlare solo adesso di «transizione ordinata», «democrazia reale» e di «libere elezioni» suona come una toppa tardiva più che una strategia per la regione. L'errore di tutte le sinistre, a cui non fa eccezione quella americana, è credere che il conflitto israelo-palestinese sia la causa prima di tutti i mali del Medio Oriente, e quindi la sua soluzione la chiave di tutto. Al contrario, il problema vero sono i governi della regione: o spietate dittature islamiche e terroriste, o regimi autoritari la cui impopolarità favorisce l'estremismo islamico.

Anziché sostenere questi regimi, concentrarsi sul processo di "pace" tra israeliani e palestinesi - inevitabilmente in stallo da anni - occorreva preparare la trasformazione politica del Medio Oriente, favorire la crescita di nuove classi dirigenti, stringere legami con esse. Il risultato di questo errore di "visione" è che le classi sociali più preziose, quelle che dovrebbero essere il motore di un cambiamento in senso liberale e democratico, sono oggi lontane dall'Occidente, e la domanda di libertà, di modernità, pur maggioritaria, rischia di restare senza una guida, accende la protesta per esasperazione, ma senza avere un progetto di società, che invece gli islamisti hanno.

E' vero che il movimento che sta detronizzando Mubarak è per la stragrande maggioranza democratico, esprime un desiderio di libertà e buon governo, ma come quasi sempre accade ne fanno parte gruppi organizzati e fortemente ideologizzati che chiedono libertà oggi per negarla domani, se o piuttosto quando saliranno al potere. E questo rischio, cui scampammo in Italia nel dopoguerra grazie alla Guerra Fredda, oggi in Egitto è alto e a causa della miopia dell'Occidente non ci sono argini, se non gli egiziani stessi. Che vogliono modernità, social network, non uno Stato islamico. Eppure è proprio uno Stato islamico ciò che rischiano di ottenere. Oltre che un'associazione religiosa, i Fratelli musulmani sono l'unico partito politico di massa egiziano, l'unica forza organizzata e ramificata territorialmente, con una dirigenza indottrinata e combattiva, con forti legami all'estero.

Guai a fidarsi di quel ElBaradei troppo morbido con gli iraniani da direttore dell'Aiea, cui ora i Fratelli musulmani offrono il loro appoggio come «guida nel cammino verso il cambiamento». «Comprendiamo la sensibilità, specialmente in Occidente, nei confronti degli islamisti, e al momento non vogliamo essere in prima linea», dichiara uno dei leader egiziani del movimento. Sanno che un loro ruolo di primo piano in questo momento aiuterebbe Mubarak, ma sono pronti a prendere il potere e Teheran vede avvicinarsi un'insperata vittoria che potrebbe spalancargli la via verso l'egemonia incontrastata nella regione.

7 comments:

Bella Vedova said...

per intanto Israele,che penso abbia il polso della situazione e ben chiari i possibili e incontrollabili sbocchi della rivolta egiziana molto più della scolastica e sapientona Bonino, dice a Obama di tenere in piedi il "puzzone" Mubarak.

http://www.haaretz.com/print-edition/news/israel-urges-world-to-curb-criticism-of-egypt-s-mubarak-1.340238

Anonymous said...

OKKIO ....L'IRAN insegna .

Cachorro Quente said...

"Ebbene, la realtà sembra invece dare ragione a quanti sostenevano che il cambiamento era alle porte, che quei regimi avevano le ore contate perché le società mediorientali, pur tra mille contraddizioni, non ne potevano più"

E chi sarebbero questi? I neo-con? Forse dicevano queste cose nei loro salotti a Washington, non penso che si siano adoperati politicamente per mettere in difficoltà regimi amici come quello di Mubarak o di Alì.

"l'Occidente avrebbe dovuto farsi carico di indirizzare, influenzare per il meglio questo processo anziché ritardarlo rischiando di esserne travolto"

E non sarà invece forse emblematico il fatto che le proteste in Tunisia e in Egitto hanno avuto successo proprio perchè su di loro non pesava nessun sospetto di ingerenza occidentale? Perchè sono movimenti spontanei, non le creature di qualche think tank, guidate magari da un nord-africano che vive a Boston dagli anni '70 e ha un PhD ad Harvard?

Per piacere.

E by the way, è un caso che, durante gli 8 anni (otto) di presidenza Bush non si è visto niente del genere? Intendiamoci: potrebe essere benissimo un caso, ma non vedo come tu possa, rimanendo serio, utilizzare gli attuali avvenimenti per dire che "avevano ragione" quelli i cui argomenti semmai sono contrastati dalla realtà dei fatti. La politica aggressiva di Bush ha rafforzato i regimi autocratici, sia quelli filo-occidentali e quelli anti-americani.

Cachorro Quente

Cachorro Quente said...

P.S. se qualcuno ha dimostrato di aver ragione, comunque, modestamente è il sottoscritto. Sono anni che dico, senza saper nè leggere nè scrivere, che il fondamentalismo islamico è un epifenomeno preoccupante, ma non maggioritario, della frustrazione delle borghesie nel mondo arabo. E queste cose le ho ripetute mille volte a quelli che sostengono che "non esistono i musulmani moderati" o che se un arabo non è iscritto ad Al Qaeda è solo perchè gli è scaduta la tessera e non ha ancora avuto tempo per rinnovarla.

Anonymous said...

LE STESSE IDENTICHE VACCATE che rovescia Cachorro Quente le abbiamo già sentite ampiamente dagli intellettualoidi de sinistra al tempo della rivoluzione islamica iraniana.
.
come ho già detto , i sinistri non imparano mai .

Bella Vedova said...

scusa Chacorro, ma hai forse la certezza che, siccome i Fratelli Musulmani sono una minoranza, un pericolo di iranizzazione dell'Egitto è scongiurato ? Perchè scrivi che la rivoluzione d'Egitto ha avuto successo? Solo perchè Mubarak fa le valigie? I timori di Israele sono ingiustificati ed esternati " pro domo sua " ?
Obama,al di là delle solite chiacchiere fatte all'Università del Cairo, ha pure lui rafforzato Mubarak rimodernandogli le forze armate, motivo in più per cercare di non avere nel Maghreb una repubblica islamica armata di tutto punto.

Cachorro Quente said...

Io non sto dicendo nulla del genere. Non so quanto si radicalizzerà la protesta in Egitto e nel Nord Africa. Sto commentando il non sequitur dei post di JimMomo che associa il crollo (apparente) di Mubarak alla Freedom Agenda di Bush, due anni dopo il cambio ai vertici americani.
Non me ne frega niente di difendere Obama, ma in che modo quello che sta succedendo ora dà ragione ai Neo-Con (non parlo delle chiacchere dei salotti, parlo dell'effettiva politica estera di George W. e compagnia cantante)?