Quello che ho tentato di dire nei giorni scorsi lo scrive oggi magistralmente Carlo Stagnaro su Il Foglio: la crisi «è il modo con cui il mercato corregge i suoi stessi errori»: «Gli stessi che oggi brindano alla morte della finanza globalizzata, ieri si lamentavano del sovraconsumo e sovraindebitamento causati dal credito facile. Ecco, il mercato sta appunto mettendo una pezza a quegli eccessi. Attraverso le crisi, il mercato sposta risorse dalle mani relativamente meno produttive verso utilizzi più proficui. Dà il benservito ai manager incapaci, distrugge le imprese inefficienti, contribuisce alla ricerca di un nuovo equilibrio. Così come sa premiare straordinariamente bene le intuizioni più geniali, il sistema capitalista è anche implacabile nel sanzionare gli errori».
Come si spiega, però, l'intervento pubblico anche nella patria del libero mercato, negli Stati Uniti? «È chiaro che a volte i costi di aggiustamento possano essere politicamente inaccettabili... Ciò lascia un margine di discrezionalità alla politica nel decidere se e come attutire le cadute. I vari salvataggi che si sono succeduti nel corso dell'estate — da Northern Rock a Bear Sterns, da Fannie e Freddie a Aig — rispondono a questa logica. Ma non rappresentano una sconfitta del mercato in quanto tale — al massimo dimostrano che talvolta il pragmatismo di governo fa premio sulla purezza delle idee».
E' «la fine di un mondo», come sostiene Tremonti? E' la fine della cicala-finanza contrapposta alla formica-industria? Semplicemente, «alcuni strumenti finanziari si sono rivelati patacche: il mercato ha dato il suo responso, come lo dà quando un produttore commercializza una merce scadente. Estremizzando, non c'è differenza sostanziale tra industria e finanza... Entrambe devono stare alle medesime leggi, eterne e immutabili, della domanda e dell'offerta...», spiega Stagnaro.
Ecco risolto l'equivoco, quindi. Se con espressioni tipo «la fine di un mondo», di «un sistema», s'intende dire che «alcuni strumenti finanziari si sono rivelati patacche», ciò è certamente vero. Come è vero che «il compito dello Stato sia fornire delle regole che consentano di operare in un clima di ragionevole certezza e di smorzare i cambiamenti troppo bruschi». Anche le regole, «come i processi produttivi, devono cambiare per essere efficaci». Tuttavia, conclude Stagnaro, «questo non significa né che debbano moltiplicarsi, né che sia utile mutarle troppo spesso».
Quando Tremonti parla dell'«assenza di regole», della «dissociazione tra finanza e regole», del «fallimento dei meccanismi di sorveglianza e di vigilanza» come «radici del male», e della «costruzione di regole» da parte della politica come «cura», non ha tutti i torti. Ma poi si lascia annebbiare dall'ideologia che si è fabbricato, strumentalizza la crisi manifestando quella «voglia di tornare all'arbitrio pubblico» e di «rispolverare la liceità dell'intervento pubblico nei settori "strategici"» di cui ha parlato ieri Innocenzo Cipolletta.
Nuove regole non devono essere accompagnate da «politiche keynesiane». Il «ritorno del pubblico» dev'essere il ritorno di un regolatore, non di un dominus. E' sbagliato, e diffonde un'interpretazione falsa della realtà, contrapporre la concreta «manifattura» all'impalpabile finanza, perché entrambi questi mondi sono complementari e governati dalla legge della domanda e dell'offerta. E' inquietante sentir parlare di «dominio della morale», di «Dio, patria e famiglia»; sa di neo-marxismo, ed è allo stesso tempo reazionaria, l'idea che ci sia «più morale del lavoro in un prodotto industriale che in un prodotto finanziario», che «la ricchezza non si produce a mezzo debito», ma solo «a mezzo lavoro». Che Alan Greenspan sia dopo Bin Laden «l'uomo che ha fatto più male all'America» è un giudizio da esaltati.
Una previsione Tremonti la azzarda, al termine della sua intervista al Corriere della Sera, e a quella a nostro avviso dovremmo inchiodarlo: «La crisi finirà, e l'Italia ne uscirà più forte di prima e più forte di altri Paesi che si dicevano in pista per sorpassarci». L'Italia emergerà «più forte» della Spagna, persino dell'America, perché «le pensioni italiane sono pubbliche» e le banche «non grattacieli presi in affitto». Mi permetto di dubitarne, perché credo che la recessione italiana abbia più a che fare con fattori endogeni che con la crisi finanziaria Usa, come crede Tremonti. Quando la crisi sarà alle spalle e gli altri ricominceranno a correre, l'Italia resterà comunque al palo se non risolverà i suoi problemi.
4 comments:
Sono anche d'accordo, solo che
"E' inquietante sentir parlare di «dominio della morale», di «Dio, patria e famiglia»; sa di neo-marxismo"
mi sa più di neo-fascismo, nella sua declinazione sociale, che di marxismo. Infatti ol Dio del marxismo era l'ateismo, mentre "Dio, Patria e Famiglia" sa più di clerico-fascisti, non trovi?
ciao
Quella è la parte reazionaria; quella sul lavoro misura di tutto è la parte neo-marxista.
C'è da dire che la linea di Tremonti ha una funzione unificante sulle tre componenti della destra italiana, il problema è dall'altra parte dove sono ancora in alto mare.
prima o poi vi sveglierete.
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