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Friday, September 19, 2008

Il libero mercato non è il problema, ma la soluzione

Il rischio del fallimento è essenziale per l'efficienza del sistema economico e non può essere azzerato da troppi salvataggi statali. L'ho scritto l'altro ieri. Seppure i salvataggi della Fed sono frutto di pragmatismo e non certo del cedimento all'ideologia statalista, non è chiaro se la discrezionalità esercitata dall'autorità pubblica sia nel lungo termine un bene o un male. Le banche centrali non devono pretendere di garantire la stabilità finanziaria. Il loro compito è la stabilità dei prezzi e, al massimo, cercare di impedire che l'instabilità finanziaria colpisca duramente l'economia reale. «Attribuire alla politica monetaria obiettivi aggiuntivi, come una responsabilità diretta per la stabilità finanziaria, rischierebbe di confondere le responsabilità, aumentare il moral hazard e creare un trade off laddove non esiste», ha spiegato il governatore Draghi.

Perché, come ha ricordato ieri Alberto Mingardi, su il Riformista, «la mole di informazioni da gestire per monitorare con pretese di efficacia l'andamento dei mercati è sterminata - e i mercati esistono precisamente per consentire l'uso più efficiente possibile di informazioni che sono disperse e localizzate». Per i fautori dell'interventismo, invece, «l'entrata in scena del regolatore ha sempre un profilo salvifico, il regolatore sa più e meglio, porta ordine nel caos del mercato».

I salvataggi hanno quindi l'effetto di «favorire indirettamente una condotta troppo rischiosa, evitando che i cocci si disperdano», e di «stimolare comportamenti opportunistici». L'intervento della Fed per Aig è una toppa che rischia di aprire «nuove voragini di dubbi sul reale stato del sistema», di «produrre disfunzioni di lungo periodo per garantire consenso immediato a una classe dirigente. Se il cancro che vediamo oggi è figlio delle metastasi di ieri, speriamo di non stare scambiando per una cura il germe della prossima, terribile malattia».

Innocenzo Cipolletta, su Il Sole24 Ore, non si rassegna al fatto che le colpe della crisi vengano addossate al libero mercato: «L'attuale crisi della finanza internazionale... non è il prodotto della tanto dannata globalizzazione, né di uno "sfrenato" libero mercato, ma deriva essenzialmente da azioni discrezionali delle autorità pubbliche».
«Sono state le autorità americane che, dopo l'11 settembre 2001, per ragioni politiche di tenuta nazionale, hanno avviato un'eccessiva espansione monetaria e fiscale, volta a fermare ad ogni costo la recessione che era già iniziata prima dell'attentato. Questa politica, seguita anche negli anni successivi, nonché la carenza di controlli che sono necessari proprio per far funzionare veramente il libero mercato, come ormai ammesso da tutti, hanno contribuito in larga misura a generare le bolle speculative all'origine delle crisi finanziarie attuali».
E qui arriva la strumentalizzazione politica della crisi da parte degli statalisti:
«Oggi, paradossalmente si giunge a ritenere normale e corretto l'arbitrio pubblico in economia per risolvere casi di crisi che, a loro volta, sono stati provocati proprio da azioni discrezionali dello Stato! In realtà c'è, specie in Italia, una tale voglia di tornare all'arbitrio pubblico e all'assistenza dello Stato che sono state salutate con sollievo ed entusiasmo le nazionalizzazioni americane e inglesi di alcuni istituti finanziari, fatte in circostanze ben diverse da quelle che si evocano nel nostro Paese per giustificare altri interventi. Si è inneggiato, questa volta sì con toni fondamentalisti, alla fine del libero mercato, perché si ha fretta di gettare alle ortiche le regole della concorrenza e quelle degli aiuti pubblici, al fine di rispolverare la liceità dell'intervento pubblico nei settori "strategici"».
All'origine della crisi ci sono politiche pubbliche sbagliate anche per Piero Ostellino:
«La crisi del 1929 e quella attuale si assomigliano almeno in una cosa: che a produrre entrambe è stata la Federal Reserve, cioè la massima autorità finanziaria pubblica. Nel '29, con una politica monetaria troppo restrittiva; oggi, con una politica monetaria opposta, troppo espansiva. In entrambi i casi, in base a un pregiudizio culturale e a un interesse politico. Il pregiudizio: che la politica monetaria sia una variabile politica, mentre a determinare il tasso di interesse (il costo del denaro) non dovrebbe essere, a proprio piacimento, un'autorità pubblica "esterna" (la Federal Reserve), ma dovrebbero essere le preferenze "interne" dei cittadini, che è, poi, la spontanea dinamica della domanda e dell'offerta di denaro (il mercato). L'interesse: tassi di interesse troppo alti o troppo bassi, e tenuti tali troppo a lungo, sono rispettivamente lo strumento attraverso il quale una moneta nazionale (il dollaro ieri) cerca di imporre la propria forza nel mondo e uno Stato indebitato (gli Usa oggi) riduce il servizio del debito. Che, infine, un eccesso di liquidità abbia finito (anche) col dare alla testa agli speculatori è un altro fatto incontrovertibile, come lo sarebbe rinchiudere in una cantina ben fornita di vino un bevitore di professione».

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