E' continuata anche oggi l'improvvisa presa di coscienza dei "finiani": si sono accorti del «plurimputato Berlusconi» e del suo conflitto di interessi. Le intenzioni, le tentazioni, o meglio le illusioni dei "finiani" emergono dalla rabbiosa reazione di Bocchino alle richieste di dimissioni di Fini che giungono dal Pdl (più per l'incompatibilità del ruolo di "capofazione" con la carica di presidente della Camera che per la casa a Montecarlo). Se da una parte provoca (Berlusconi con tutti i suoi ministri inquisiti, e non Fini, si dovrebbe dimettere), dall'altra Bocchino pretende una verifica di metà legislatura, un vertice di maggioranza dei tre gruppi, mostrando come il vero intento dei "finiani" non è certo correre dagli elettori a far benedire la loro operazione, ma ricostituire quella rendita di posizione e quella forza di interdizione da "Prima Repubblica" di cui hanno goduto An e Udc nel centrodestra e che sono venute meno con il partito unico.
Ma i più esasperati tra i "finiani" fanno anche capire che non disdegnerebbero il "ribaltone": non è detto che il voto sia lo sbocco di una eventuale crisi di governo, avverte Bocchino, può darsi anche che l'istinto di autoconservazione porti le forze di minoranza a trovare l'accordo per un governo tecnico o di transizione. Briguglio al Tg3 denuncia il «golpe istituzionale» di Berlusconi contro Fini, un'emergenza tale da spingerlo a ipotizzare un «governo di garanzia» per il quale propone anche un premier (il presidente dell'Antimafia Beppe Pisanu). Ma i "finiani" non sono poi così compatti. Accanto agli scalmanati, infatti, ci sono i più dialoganti Moffa e Conte alla Camera, i membri del governo Ronchi, Viespoli e Menia, e i dieci senatori, che oggi con una nota si sono palesemente distinti dai comportamenti degli estremisti, tentando di riportare il confronto su un piano più politico.
Difficilissima, quasi proibitiva, la strada verso un governo diverso da quello Berlusconi in questa legislatura, e oggi Bossi è tornato a escludere in modo sprezzante tali ipotesi. Ma conviene un po' a tutte le forze di opposizione dare a Berlusconi l'impressione che la volontà ci sarebbe. Temendo le urne, sperano infatti che temendo manovre strane il premier non provochi la crisi e si faccia logorare dai "finiani". Anche Di Pietro, l'unico dell'opposizione a chiedere il voto prima possibile, adesso si dice disponibile a un governo tecnico, a termine, per riformare la legge elettorale e garantire il pluralismo dell'informazione. Bersani avverte che in caso di crisi «la parola passerebbe al capo dello Stato e al Parlamento» e «il 'golpista' è chi nega questo e non chi lo afferma».
Ma se le elezioni fossero inevitabili, il Pd non si farebbe cogliere impreparato, cerca di far credere il segretario: chiamerebbe tutte «le forze del centrosinistra e dell'opposizione per una strategia comune di cui siamo già pronti a proporre e a discutere le basi politiche e programmatiche». Insomma, il Pd di Bersani pensa a un variopinto cartello elettorale, il più ampio possibile, il fronte comune in nome dell'antiberlusconismo («liberiamoci di Berlusconi», è la sua la parola d'ordine). D'altronde, è l'unico modo per il Pd di conservare una certa centralità tra le opposizioni, perché se esclude il centro o la sinistra dai suoi orizzonti rischia di trovarsi schiacciato o troppo a sinistra o troppo al centro. Auguri.
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