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Thursday, April 09, 2009

L'antipatico Lieberman e le sue scomode verità

Sarà in Italia a maggio, invitato da Frattini, il controverso nuovo ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman. Il premier israeliano Netanyahu lo ha voluto nel suo governo per suggellare l'allleanza con il partito nazionalista Israel Beitenu. Immigrato dalla ex Unione sovietica, con le sue opinioni politicamente scorrette sugli arabi e la sua posizione iconoclasta nei confronti dei tabù del processo di pace ha già suscitato la riprovazione delle cancellerie europee e dei mainstream media occidentali e arabi, che lo hanno definito di «estrema destra», «guerrafondaio», «razzista», «pericoloso» per Israele stesso.

Eppure, non gli si può dar torto quando dice che il processo di pace tra israeliani e palestinesi è «a un vicolo cieco» e che servono «nuove idee». Non sia mai! Lesa maestà! Le sue parole sono state interpretate come un attacco diretto alla soluzione "due popoli, due stati", sponsorizzata dalla comunità internazionale. Una formula che però con il tempo rischia di diventare vuota retorica, un tabù a cui nell'impasse diplomatico si aggrappano i membri del Quartetto (Usa, Ue, Russia, Onu) per far credere all'opinione pubblica che sono tutti impegnati per la pace.

«Il governo di Israele non ha mai ratificato Annapolis, né lo ha fatto la Knesset». La colpa di Lieberman è di affermare, ben poco diplomaticamente, verità note a tutti, ma anche scomode per tutti. Servirebbe, invece, un "reality check". Annapolis è morta quando l'anno scorso Mahmoud Abbas e Ahmed Qurei hanno rifiutato l'offerta di Olmert e della Livni: praticamente tutta la Cisgiordania. A seguito delle polemiche suscitate, Lieberman ha poi precisato che Israele si ritiene comunque tenuto a onorare l'itinerario di pace tracciato dal Quartetto. Infatti, nonostante tutto, il governo Netanyahu-Lieberman-Barak è impegnato per la creazione di uno Stato palestinese attraverso la "road map". Un risultato che però – pochi lo rammentano – la stessa "road map" condiziona alla fine della violenza e del terrorismo da parte palestinese. L'idea dei "due stati" va congelata fino a quel momento.

E' innegabile infatti che il principio "terra in cambio di pace", su cui si è fin qui basata la soluzione "due popoli, due stati", è stato screditato dai lanci di razzi di Hamas e dalla guerra con Hezbollah nel 2006. Visti con gli occhi degli israeliani, i ritiri unilaterali dal Sud del Libano e dalla Striscia di Gaza hanno prodotto più vulnerabilità incece di pace. Secondo Michael Oren, del Washington Institute for Near East Policy, «l'opinione pubblica israeliana è disillusa sul processo di pace, e sta realizzando che il conflitto non riguarda più il 1967, ma il 1948. In altre parole, non è più per le terre, ma per l'esistenza stessa di Israele». Le terre da cui gli israeliani si ritirano non vengono viste da organizzazioni come Hamas come presupposti per la costituzione del futuro stato palestinese, ma come avamposti più avanzati da cui far partire i razzi e le offensive contro Israele.

Secondo il Jerusalem Post, quindi, il nuovo esecutivo sarebbe alla ricerca di nuove strade: non più concessioni e ritiri, ma una controparte finalmente pronta ad abbandonare il terrorismo. Per questo Netanyahu sta pensando ad una "pace economica" e a come sviluppare istituzioni palestinesi in grado di contrastare efficacemente le organizzazioni terroristiche. Demarcare il confine tra Israele e la Cisgiordania, anche se per ora l'esercito israeliano dovrà rimanervi, potrebbe essere nel frattempo un'idea per porre fine all'ambiguità sugli insediamenti, definendo de facto quali territori faranno parte di Israele e quali di un futuro Stato palestinese. «Invece che preoccuparci di Lieberman – osserva Emanuele Ottolenghi – in Europa faremmo bene a chiederci su chi possiamo sperare a Ramallah e a Gaza».

Ad ostacolare il processo di pace c'è sempre il retropensiero, l'illusione coltivata dai palestinesi che un giorno la Siria, o più probabilmente l'Iran, possano cancellare in un sol colpo Israele dalla faccia della terra, risolvendo tutti i loro problemi. Ecco perché la minaccia atomica iraniana domina l'orizzonte politico israeliano. E' una delle poche cose su cui concordano tutti i principali attori politici israeliani, tanto che Netanyahu ha voluto il leader laburista Barak nel suo governo, proprio per avere un sostegno politico sufficientemente ampio, e per condividere la responsabilità di decisioni delicatissime, dai possibili esiti drammatici anche in caso di successo, in quella che si profila essere la più difficile sfida alla sopravvivenza di Israele almeno dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967, se non dall'indipendenza del '48. America ed Europa non si facciano illusioni: Netanyahu e Barak condividono la stessa visione sull'Iran, la Siria e le istituzioni palestinesi.

Thursday, January 10, 2008

Non è il solito processo di pace

George W. Bush è da ieri a Tel Aviv per la sua prima visita in Medio Oriente da quando è presidente. Oggi si recherà in Cisgiordania, a Ramallah, per incontrare il presidente palestinese Abu Mazen. All'ordine del giorno il negoziato di pace tra israeliani e palestinesi rilanciato dalla conferenza di Annapolis. Le difficoltà dell'impresa sono emblematicamente rappresentate dai katiusha sparati dal Libano, per la prima volta dopo un anno e mezzo, e dal fitto lancio di razzi Qassam da Gaza che ieri hanno salutato Bush al suo arrivo. Negli ultimi due anni e mezzo, dopo il ritiro dalla Striscia di Gaza, caduta nelle mani di Hamas, si calcola che ben 9280 missili abbiano colpito il territorio israeliano. E' il principale problema di sicurezza per Israele, senza risolvere il quale, osservava ieri il quotidiano israeliano Ha'aretz, è impensabile un ritiro dalla Cisgiordania.

La visita di Bush in effetti si svolge «in un momento nel quale né il vento della sicurezza né quello della politica sembrano soffiare a suo favore. Lo spirito di Annapolis sta evaporando in fretta», conclude Ha'aretz. Tuttavia, l'approccio della presidenza Bush al problema israelo-palestinese è molto diverso da quello delle altre amministrazioni e la conferenza di Annapolis, di conseguenza, va vista sotto una luce diversa rispetto alle molte che l'hanno preceduta.

Il conflitto israelo-palestinese non è più considerato a Washington come la madre di tutti i conflitti in Medio Oriente, risolto il quale ogni cosa andrebbe al suo posto. Viceversa, altre situazioni sono di ostacolo a una pace duratura tra israeliani e palestinesi: su tutte, le ambizioni egemoniche di Iran e Siria e il riconoscimento di Israele da parte degli Stati arabi.

Non bisogna quindi commettere l'errore di giudicare il percorso avviato ad Annapolis secondo i criteri delle altre "road map". Certo, la conferenza in sé è stata poco più di una "photo opportunity", ma mai così politicamente significativa. Tutti i paesi musulmani della regione (escluso l'Iran) a rendere omaggio alla saggia iniziativa di pace di Bush, riconoscendo così la leadership incontrastata degli Usa. Tutti sono dovuti andare ad Annapolis, persino la Siria, per non rimanere isolati come l'Iran.

Per quanto riguarda i negoziati diretti, i principali ostacoli sono sempre costituiti dalla sicurezza di Israele e dalle questioni dello status di Gerusalemme e del rientro dei profughi palestinesi. Attraverso i profughi, Al Fatah si prefigge da sempre di negare di fatto il carattere ebraico di Israele, una sorta di via demografica alla distruzione del nemico.

Ma Bush sa bene che oltre a incoraggiare i negoziati diretti, ci sono altri obiettivi che possono risultare determinanti. Per questo, più che concentrarci sui risultati delle visite del presidente Usa a Tel Aviv e a Ramallah, che avranno più che altro «lo scopo di creare un'atmosfera positiva e dimostrare il coinvolgimento della Casa Bianca», faremmo bene a guardare alle altre tappe della missione, che si concluderà il 16 gennaio dopo aver toccato Kuwait, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita ed Egitto.

L'obiettivo primario è il consolidamento di quell'"alleanza" che Washington sta faticosamente cercando di comporre tra paesi sunniti – dall'Arabia Saudita agli Emirati, dall'Egitto al Pakistan – e Occidente per il contenimento delle ambizioni egemoniche dell'Iran sull'intera regione. Quella "cortina sunnita", che contrastando la minaccia iraniana dovrebbe favorire un accordo tra israeliani e palestinesi, è però ben lungi dall'essere compatta. Eppure, è una carta che non può non essere giocata. Ai palestinesi uno stato in cambio della rinuncia al terrorismo. Ai paesi arabi sunniti Bush offre di aiutarli a difendersi dall'Iran in cambio del riconoscimento di Israele. Il successo o meno della visita di Bush e degli sforzi di questo 2008 dovrà quindi essere misurato non tanto, o solo, sui progressi tra israeliani e palestinesi, ma nel consolidamento e l'efficacia di quell'"alleanza". La fragilità di Abu Mazen in Cisgiordania, l'instabilità libanese e pakistana, l'ambiguità dei paesi arabi più influenti, come Egitto e Arabia Saudita, sono fattori che non aiutano. La stessa provocazione iraniana nello stretto di Hormuz, nei giorni scorsi, ha il sapore di una minaccia agli interlocutori degli Stati Uniti.

Convincere gli stati arabi, Arabia Saudita ed Egitto in testa, a riconoscere – nonostante i sicuri contraccolpi islamisti sul piano interno – il diritto degli ebrei in quanto tali ad avere uno stato in Palestina, sarà impresa durissima. Ma senza questo riconoscimento, per il quale le pressioni dell'Europa potrebbero essere determinanti, l'insuccesso è assicurato. Il carattere irrazionale e fanatico dei regimi arabi ci rende perplessi circa la possibilità che sul nodo centrale del carattere ebraico di Israele facciano prevalere considerazioni di realpolitik, ma le condizioni favorevoli per un tentativo ci sono.

Thursday, November 29, 2007

Il futuro del Medio Oriente passa per Washington. Nonostante la guerra irachena

... o anche grazie a quella guerra, che per molti avrebbe dovuto provocare l'isolamento degli Usa da parte delle piazze e delle capitali arabe?

La situazione si va lentamente normalizzando in Pakistan, dopo che il 3 novembre scorso Musharraf aveva proclamato lo stato d'emergenza e dato il via a una serie di arresti. Il generale/presidente sta rientrando nel solco tracciato d'intesa con gli Usa per la democratizzazione del paese. Musharraf non è più a capo dell'esercito: ha finalmente rinunciato al suo potere militare e ha giurato da presidente, in abiti civili. Le elezioni si terranno come previsto entro il 15 gennaio. Gli oppositori arrestati sono stati liberati. Sharif e Benazir Bhutto potranno candidarsi alle elezioni, anche se comprensibilmente gridano ad "elezioni farsa" per il permanere delle leggi d'emergenza. Pare che tutto o quasi, comunque l'essenziale, stia andando come chiedavano gli oppositori e come suggerivano gli americani.

Nel frattempo, la conferenza di Annapolis ha lanciato una nuova stagione di negoziati tra israeliani e palestinesi. Il coinvolgimento nel summit di importanti paesi arabi a livello dei ministri degli Esteri e la presenza, la collaborazione europea, sono già dei risultati politici: un segnale promettente verso il consolidamento di quell'"alleanza" che Washington sta faticosamente cercando di comporre tra paesi sunniti e Occidente per il contenimento della minaccia egemonica dell'Iran sull'intera regione.

Solo di una «photo opportunity» si è trattato, ha osservato Carlo Panella su Il Foglio. Ma difficilmente una «photo opportunity» è stata così politicamente significativa. Un'immagine addirittura «clamorosa» ne è scaturita, perché «ha visto tutti i paesi islamici e arabi del mondo (escluso l'Iran) rendere omaggio alla saggia iniziativa di George W. Bush. Per la prima volta nella storia anche questo, soltanto questo, una foto, ha assunto un suo significato profondissimo... Il vero, straordinario risultato che George W. Bush e Condoleezza Rice sono riusciti a conseguire – a quattro anni dalla guerra a Saddam – è di avere costretto tutto il mondo musulmano e arabo a riconoscere la propria leadership incontrastata. Tutti sono dovuti andare ad Annapolis» per non rimanere isolati come l'Iran; anche la Siria.

Certo, ancora nulla di concreto è emerso riguardo le possibili soluzioni ai problemi che dividono israeliani e palestinesi. Li aspettano mesi di durissimo lavoro. Soprattutto sul nodo centrale dei profughi e del carattere ebraico dello Stato di Israele, una questione prima di tutto di volontà politica. Su questo, osserva Panella, «dovrà esercitarsi al massimo la pressione internazionale, per convincere gli stati arabi, Arabia Saudita ed Egitto in primis, a riconoscere – nonostante i sicuri e gravissimi contraccolpi islamisti sul piano interno – il riconoscimento del diritto degli ebrei in quanto tali ad avere uno stato in Palestina». Senza questa pressione, con il contributo dell'Europa che può essere determinante, l'insuccesso è assicurato.

Da notare, segnalata da Maurizio Molinari, la grande sintonia tra il segretario di Stato Usa, Condoleezza Rice, e il ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner, per una pace in Medio Oriente basata sui processi democratici, la lotta al terrorismo e l'isolamento di un Iran smanioso di procurarsi la bomba atomica. E a dimostrazione della ritrovata intesa tra Parigi e Washinton, il primo seguito formale di Annapolis è previsto proprio nella capitale francese.

Wednesday, November 28, 2007

Annapolis. Scetticismo e un paio di condizioni favorevoli

La conferenza di Annapolis è un'iniziativa destinata a fallire?
Innanzitutto, nessuna firma storica, ma «l'inizio di un percorso» che dovrebbe durare per tutto il 2008 tra Israele e Autorità Palestinese. C'è l'intesa per partire (avviare «immediatamente» i negoziati per arrivare a un accordo di pace «entro il 2008») e, guardandoci indietro, agli ultimi anni, non è poco. «Due Stati sovrani che vivono in pace l'uno accanto all'altro» è l'obiettivo. Ma Bush nel suo discorso è tornato a precisare: uno stato palestinese «indipendente e democratico».

Determinante, come nei tentativi passati, sarà il ruolo dei paesi arabi, invitati ad Annapolis. Di loro non c'è da fidarsi, ma quale migliore occasione di questa per strappargli il riconoscimento di Israele, in un momento storico in cui come mai prima è così concreto il pericolo di un Iran egemone e dotato di bomba atomica?

Un'altra condizione favorevole ci induce per lo meno a sperare. Forse per la prima volta il fronte palestinese è diviso tra terroristi fanatici e terroristi pragmatici. E se è vero che Al Fatah non è composta da gentiluomini, tuttavia Abu Mazen non è Arafat. Negli ultimi mesi Hamas ha monopolizzato la violenza terroristica, l'ha usata anche ai danni dell'Anp, e l'unica ragion d'essere di Al Fatah oggi appare molto più quella di ottenere finalmente lo Stato palestinese, ed esserne artefici, che non la distruzione di Israele.

La divisione in due stati nazionali - uno israeliano l'altro palestinese - appare certamente una formula anti-storica, nel momento in cui, tranne che nell'arretrato mondo arabo, un po' dappertutto negli altri continenti le nazioni ambiscono a trovare formule di integrazione sul modello europeo. Tuttavia, la formula dei "due Stati" al momento porterebbe a una chiarificazione delle responsabilità. Non sarebbe in nessun modo tollerato che uno Stato palestinese aggredisca il suo vicino israeliano. Nessun complesso di colpa per le precedenti occupazioni potrebbe essere alimentato per frenare la mano di Israele.

Non c'è dubbio che in Medio Oriente non ci sarà pace finché saranno al potere dittature spietate e stragiste in Siria e Iran, e ambigue e wahabite come in Arabia Saudita. Eppure, la nascita di uno stato palestinese potrebbe togliere un bel mucchio di alibi e permettere/costringere gli stati arabi a riconoscere Israele.

Insomma, paradossalmente è proprio la minaccia di espansione della rivoluzione islamica iraniana, e dei suoi alleati, a costituire una straordinaria forma di pressione sui regimi sunniti.

Quella "cortina sunnita", che per contrastare le ambizioni iraniane dovrebbe favorire un accordo tra israeliani e palestnesi, è ben lungi dall'essere compatta, come ha osservato Carlo Panella citando gli esempi di Gaza, del Pakistan e del Libano, dove proprio in questi giorni la Siria potrebbe riconquistare le posizioni perdute dopo l'omicidio di Hariri. Eppure, è una carta che non può non essere giocata.

La questione centrale è il ritorno di milioni di profughi palestinesi in Israele, attraverso il quale Al Fatah si prefigge di negare di fatto il carattere ebraico di Israele. Sul resto le due parti sembrano pronte a sacrifici e a compromessi «dolorosi». Per quanto possa sembrare anti-storico a noi europei, proprio l'appartenenza etnica venne individuata dall'Onu, con la risoluzione 181 del 1948, come criterio di quella divisione che apparve l'unica soluzione del conflitto tra ebrei e arabi in Palestina. Il carattere etnico, sia di Israele che di uno Stato palestinese, trova quindi piena legittimità e da esso non si può prescindere.

Il carattere irrazionale e fanatico dei regimi arabi ci rende perplessi circa la possibilità che sul nodo centrale del carattere ebraico di Israele facciano prevalere considerazioni di realpolitik, ma le condizioni favorevoli per un tentativo ci sono.