George W. Bush è da ieri a Tel Aviv per la sua prima visita in Medio Oriente da quando è presidente. Oggi si recherà in Cisgiordania, a Ramallah, per incontrare il presidente palestinese Abu Mazen. All'ordine del giorno il negoziato di pace tra israeliani e palestinesi rilanciato dalla conferenza di Annapolis. Le difficoltà dell'impresa sono emblematicamente rappresentate dai katiusha sparati dal Libano, per la prima volta dopo un anno e mezzo, e dal fitto lancio di razzi Qassam da Gaza che ieri hanno salutato Bush al suo arrivo. Negli ultimi due anni e mezzo, dopo il ritiro dalla Striscia di Gaza, caduta nelle mani di Hamas, si calcola che ben 9280 missili abbiano colpito il territorio israeliano. E' il principale problema di sicurezza per Israele, senza risolvere il quale, osservava ieri il quotidiano israeliano Ha'aretz, è impensabile un ritiro dalla Cisgiordania.
La visita di Bush in effetti si svolge «in un momento nel quale né il vento della sicurezza né quello della politica sembrano soffiare a suo favore. Lo spirito di Annapolis sta evaporando in fretta», conclude Ha'aretz. Tuttavia, l'approccio della presidenza Bush al problema israelo-palestinese è molto diverso da quello delle altre amministrazioni e la conferenza di Annapolis, di conseguenza, va vista sotto una luce diversa rispetto alle molte che l'hanno preceduta.
Il conflitto israelo-palestinese non è più considerato a Washington come la madre di tutti i conflitti in Medio Oriente, risolto il quale ogni cosa andrebbe al suo posto. Viceversa, altre situazioni sono di ostacolo a una pace duratura tra israeliani e palestinesi: su tutte, le ambizioni egemoniche di Iran e Siria e il riconoscimento di Israele da parte degli Stati arabi.
Non bisogna quindi commettere l'errore di giudicare il percorso avviato ad Annapolis secondo i criteri delle altre "road map". Certo, la conferenza in sé è stata poco più di una "photo opportunity", ma mai così politicamente significativa. Tutti i paesi musulmani della regione (escluso l'Iran) a rendere omaggio alla saggia iniziativa di pace di Bush, riconoscendo così la leadership incontrastata degli Usa. Tutti sono dovuti andare ad Annapolis, persino la Siria, per non rimanere isolati come l'Iran.
Per quanto riguarda i negoziati diretti, i principali ostacoli sono sempre costituiti dalla sicurezza di Israele e dalle questioni dello status di Gerusalemme e del rientro dei profughi palestinesi. Attraverso i profughi, Al Fatah si prefigge da sempre di negare di fatto il carattere ebraico di Israele, una sorta di via demografica alla distruzione del nemico.
Ma Bush sa bene che oltre a incoraggiare i negoziati diretti, ci sono altri obiettivi che possono risultare determinanti. Per questo, più che concentrarci sui risultati delle visite del presidente Usa a Tel Aviv e a Ramallah, che avranno più che altro «lo scopo di creare un'atmosfera positiva e dimostrare il coinvolgimento della Casa Bianca», faremmo bene a guardare alle altre tappe della missione, che si concluderà il 16 gennaio dopo aver toccato Kuwait, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita ed Egitto.
L'obiettivo primario è il consolidamento di quell'"alleanza" che Washington sta faticosamente cercando di comporre tra paesi sunniti – dall'Arabia Saudita agli Emirati, dall'Egitto al Pakistan – e Occidente per il contenimento delle ambizioni egemoniche dell'Iran sull'intera regione. Quella "cortina sunnita", che contrastando la minaccia iraniana dovrebbe favorire un accordo tra israeliani e palestinesi, è però ben lungi dall'essere compatta. Eppure, è una carta che non può non essere giocata. Ai palestinesi uno stato in cambio della rinuncia al terrorismo. Ai paesi arabi sunniti Bush offre di aiutarli a difendersi dall'Iran in cambio del riconoscimento di Israele. Il successo o meno della visita di Bush e degli sforzi di questo 2008 dovrà quindi essere misurato non tanto, o solo, sui progressi tra israeliani e palestinesi, ma nel consolidamento e l'efficacia di quell'"alleanza". La fragilità di Abu Mazen in Cisgiordania, l'instabilità libanese e pakistana, l'ambiguità dei paesi arabi più influenti, come Egitto e Arabia Saudita, sono fattori che non aiutano. La stessa provocazione iraniana nello stretto di Hormuz, nei giorni scorsi, ha il sapore di una minaccia agli interlocutori degli Stati Uniti.
Convincere gli stati arabi, Arabia Saudita ed Egitto in testa, a riconoscere – nonostante i sicuri contraccolpi islamisti sul piano interno – il diritto degli ebrei in quanto tali ad avere uno stato in Palestina, sarà impresa durissima. Ma senza questo riconoscimento, per il quale le pressioni dell'Europa potrebbero essere determinanti, l'insuccesso è assicurato. Il carattere irrazionale e fanatico dei regimi arabi ci rende perplessi circa la possibilità che sul nodo centrale del carattere ebraico di Israele facciano prevalere considerazioni di realpolitik, ma le condizioni favorevoli per un tentativo ci sono.
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