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Thursday, July 14, 2005

Multiculturalismo. Così non va

Il multiculturalismo e la tolleranza non si discutono. Sono caratteri irrinunciabili della democrazia. Forse ci serve semplicemente un nuovo modello di applicazione. Esiste una distanza, come ha ben spiegato Azioneparallela, della democrazia dal confine oltre il quale essa non è più tale. Quella distanza è la democrazia stessa. Più quella distanza si riduce, più la democrazia viene snaturata. E' compito della politica, nel conciliare esigenze della sicurezza e libertà fondamentali di trovare il giusto equilibrio che possa mantenerci a distanza di sicurezza da quel confine.

Gli attentati che stiamo subendo non hanno lo scopo diretto (ma quello indiretto sì) di assoggettare o distruggere l'occidente. Non per ora almeno. Hanno l'obiettivo di indebolire la nostra determinazione, la nostra volontà, il nostro impegno a democratizzare in Medio Oriente, di farci rinunciare a proiettare i nostri prodotti economici e culturali nel mondo globale, in modo che il radicalismo islamico possa avere mano libera per impossessarsi del potere e delle risorse del mondo arabo, ri-costituire un califfato che riunisca la umma musulmana e scagliarsi contro gli infedeli.

Claudia Mancina scrive oggi su il Rifomista parole condivisibili:
«Le società democratiche devono difendersi, in tutti i modi compatibili con la loro essenza democratica, anche adottando strumenti eccezionali».
Per gli inglesi è "eccezionale" l'introduzione della carta d'identità, ma per noi no.

Non mi sembra invece «compatibile» con la democrazia, nel senso che finirebbe con lo snaturarla, e dunque con l'ottenere l'esito che vuole scongiurare, la sua richiesta di cominciare a considerare reato anche «la diffusione di idee fondamentaliste». A parte il fatto che già esiste nel nostro ordinamento il reato di istigazione a delinquere, limitazioni delle libertà fondamentali, come quella di espressione, sono completamente inefficaci. Nelle nostre società aperte e moderne controllare la diffusione delle idee è impossibile se non con uno stato poliziesco. Sospendere o limitare tale libertà è una misura sproporzionata e in più poco efficace. L'indottrinamento può avvenire, e spesso è così, anche face-to-face e non avremmo comunque strumenti per prevenirlo.

«Non tollerare più che nelle moschee e nei centri islamici si sostengano tesi simpatetiche nei confronti del terrorismo».
Gli imam integralisti inoltre costituiscono una risorsa investigativa per le nostre intelligence nella misura in cui attorno a loro si crea un ambiente non clandestino, quindi infiltrabile e controllabile. E' chiaro che al primo passaporto falso che l'imam regala lo si espelle. Per indizi più gravi, lo si cattura. Non per quello che dice, ma per quello che fa. E se lo si controlla per bene, prima o poi qualcosa per buttarlo dentro la fa.

Addirittura chiede di «non permettere più le assemblee con rappresentanti della "resistenza irachena" che ancora si svolgono nelle università italiane». Anche qui, a parte che i rettori delle università potrebbero anche vietarle quelle sciagurate assemblee, e non violerebbero diritto alcuno, e a parte che il Ministero potrebbe pensare a direttive in questo senso, non si tratta di non permetterle, quanto piuttosto di braccare gli ospiti e se sono noti alla nostra intelligence come combattenti in Iraq catturarli.

Sempre su il Riformista, il direttore Antonio Polito non si spinge fino alle richieste della Mancina, ma senza cadere in ambiguità.
«Il terrorista è già in partenza uno sconfitto. Uno sconfitto a casa sua. Ricorre al terrore chi ha perso la battaglia culturale e politica per il possesso - ideologico o religioso o etnico - di quella che ritiene essere la sua terra... Quando attacca le città o gli aerei o i bus o le metropolitane del nemico, perde una seconda volta se non riesce a ottenere l'effetto desiderato, e cioè convincere le sue vittime che prima o poi dovranno cedere».
Ciò non significa starsene con le mani in mano finché non si stufano.
«Siccome questa ideologia islamista è illuminata da un centro internazionale che opera in alcuni paesi arabi... ed è tenuta in vita dai successi militari e politici che ottiene in questi paesi, è necessario condurre la guerra - anche preventiva, quando è giusta, necessaria e vincente - nei luoghi dove quel centro internazionale opera. Bush può aver sbagliato indirizzo, con la guerra e soprattutto con il dopoguerra in Iraq, ma non ha sbagliato l'analisi».
Quale dev'essere il nostro obiettivo?
«Vincere la battaglia per l'egemonia culturale, dimostrando agli islamici che "accettare l'egemonia culturale dell'Occidente non significa apostasia". Cioè separare la loro professione di fede dalla presunta necessità storica del califfato, rendere possibile per l'Islam di vivere nella modernità, e in società che - bene o male - separano lo Stato dalla Chiesa e la fede dalla politica... Se questo è l'obiettivo, allora, è perfettamente giusto criticare le politiche del multiculturalismo inteso come relativismo: ogni comunità etnica nel suo quartiere, libera di fare quello che crede. Non ha però senso prendersela con il multiculturalismo inteso come disponibilità al dialogo e come appello all'Islam moderato a isolare i radicali. Perché è questo l'unico modo di dimostrare agli islamici che "accettare l'egemonia culturale dell'Occidente non significa apostasia».
Cosa significa vincere è quello che si chiede anche David Ignatius, per il quale, come per Fareed Zakaria, gli attacchi potranno tendere a zero, ma mai essere completamente debellati. Ci auguriamo che non sia un modo per far rientrare dalla finestra teorie della "coesistenza". E' importante però indicare all'opinione pubblica quali dovranno essere le condizioni per poter dire di aver vinto.
«Se la popolazione ritiene che la missione avrà successo, allora sarà disposta a sostenerla, anche se il suo costo aumenta. Se, viceversa, l'opinione pubblica si convince che la vittoria sia improbabile, allora anche dei costi umani ridotti avranno un effetto considerevole».
«Il multiculturalismo è nel nostro destino, il cretinismo multiculturale no», scrive anche Giuliano Ferrara, che va vicino alla tesi di Polito.
«Registrare il fatto della guerra islamista contro l'occidente, e nominarlo, è il primo passo per scoprire quel che sappiamo oscuramente e abbiamo paura di dirci. Che islam vuol dire sottomissione a un unico Dio il quale fissa la sua legge dai diretti effetti civili una volta per tutte, vieta ogni interpretazione e tradizione plurale, non conosce libertà della coscienza e libero arbitrio, tratta i non islamici come sottouomini ai quali è richiesta la conversione forzata, e che questa è la base teologica vissuta di una grande religione storica il cui linguaggio fondamentale è l'espansione dei suoi costumi e del suo credo mediante l'uso della forza. Un altro islam forse è possibile, ma bisogna creare le condizioni per la Riforma di una religione e di una cultura, integrare e omologare con la forza economica, morale, politica, militare e culturale che abbiamo, se ce l'abbiamo».

1 comment:

Anonymous said...

Ferrara ha ragione. Bel post. GM