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Monday, July 11, 2005

Global War on Terrorism/2 L'Iraq è il fronte principale

«Abbiamo più microspie, più videocamere, più satelliti, più tecnologia, più consenso di loro. Usiamoli, senza confondere la difesa delle nostre libertà con la difesa della nostra vita, che tra le libertà è la numero uno. A quelli che chiedono meno bombe intelligenti e più intelligence, meno soldati e più 007, una sola raccomandazione: poi non vi lamentate se espelliamo senza processo, se intercettiamo senza autorizzazione, se interroghiamo senza complimenti. O la guerra si fa in casa loro, o si fa in casa nostra. L'unica cosa che non si può fare è non farla».

In controtendenza ma condivisibile l'editoriale di Antonio Polito oggi su il Riformista, per il quale il terrorismo avrebbe «perso la sfida di Londra, che se l'è scrollato di dosso con un'alzata di spalle, della serie: "so what?"». Quale contrasto! con l'editoriale di Giuliano Ferrara su Il Foglio, «uno che la sua battaglia contro il terrorismo l'ha già persa: se dovesse sopravvivere, sarà al prezzo d'essere diventato un po' somigliante ai terroristi, e forse un pochino peggio» (Malvino). Polito definisce una stupidaggine ciò che Massimo D'Alema ha detto la sera stessa degli attentati alla Festa dell'Unità di Roma: che la guerra in Iraq ha «rafforzato» il terrorismo.
«La guerra in Iraq, in tutta evidenza, non ha risolto il problema del terrorismo islamista. Però la cosa più stupida che si sente dire, ora che è passato per King's Cross, è che quel terrorismo è stato rafforzato dalla guerra in Iraq. Rafforzato? Il terrorismo aveva dato una dimostrazione di forza finora ineguagliata e forse ineguagliabile l'11 settembre a New York, come si può dire che si è rafforzato? L'attacco a Londra è un pallido ricordo di quella geometrica potenza e perfino di altre più casarecce geometrie... Questo è ciò che possono permettersi oggi: dalle migliaia di morti delle Twin Towers, alle centinaia di Madrid, alle decine di Londra, la parabola terrorista, in termini di sofisticazione, pianificazione, spettacolarità, efficacia, è in precipitosa discesa. Sarà anche il frutto della bonifica dell'Afghanistan? Sarà anche il frutto del containment di Baghdad? Chissà».
Nonostante in molti si rifiutino di vedere la realtà, l'espressione «guerra globale al terrorismo» è la più esatta a indicare lo scontro in cui ci troviamo. Essa include le guerre in Afghanistan e Iraq, le operazioni coperte, la raccolta di dati da parte dell'intelligence, gli sforzi politici e diplomatici in tutto il mondo. Molti però continuano a guardare ai vari eventi come se non facessero tutti parte di un unico evento-guerra. Seguendo tali premesse è facile cadere negli errori logici A) di ritenere la minaccia terroristica una minaccia locale che ogni Stato può e deve affrontare con proprie politiche (anche non rinunciando alle ambizioni di costituire un contropotere degli Stati Uniti), B) di considerare la guerra in Iraq un evento che ha «rafforzato» il terrorismo, C) di ritenere che le reti terroristiche non abbiano nulla a che fare con gli Stati che le proteggono e le sostengono, i quali dunque andrebbero lasciati in pace invece di provocare dei regime change destabilizzando i contesti regionali.

Per esempio, giovedì scorso gli attacchi di Londra non sono stati gli unici eventi della guerra globale al terrorismo quel giorno. Un altro gruppo, quello di Al Zarqawi, uccideva l'ambasciatore egiziano in Iraq rapito solo due giorni prima. La lontananza da Londra fa sì che siano eventi scollegati fra loro? Le diverse denominazioni dei gruppi li rende appartenenti a eserciti diversi?

Negli ultimi 12 anni attentanti di vastissime proporzioni hanno colpito regioni del mondo molto distanti fra loro: da Nairobi a New York, da Bali a Madrid, da Casablanca a Londra. La guerra è globale. La potenza di fuoco e la strategia che è dietro e che lega fra loro gli attacchi in un unico progetto di distruzione del nemico e di affermazione del potere politico del radicalismo islamico suggeriscono che si tratta di una guerra.

E' possibile, realistico, combattere il terrorismo lasciando al potere i regimi che lo proteggono e lo sostengono? No, per due ragioni. Una è evidente: perché se per molti versi il terrorismo è un nemico invisibile e impalpabile, esso per rafforzarsi e proteggersi sfrutta le strutture organizzative ed economiche degli Stati che per loro interesse o affinità ideologica decidono di sostenerlo. Dunque, la natura a-statale del terrorismo non significa che esso non intrattenga legami con alcuni Stati e che quindi essi non debbano essere colpiti. L'Iraq di Saddam rappresenta un esempio emblematico. Dopo due anni dalla caduta del regime non sappiamo molto dei legami tra l'Iraq e Al Qaeda. Sappiamo, tuttavia, che c'erano. A dircelo non è l'amministrazione Bush, ma i servizi di intelligence iracheni, nei documenti scoperti dopo la guerra e ritenuti credibili dalla stessa comunità di intelligence americana a lungo ostile all'idea che tali legami esistessero. Se qualcuno si aspetta di trovare patti sottoscritti dal notaio, ovvio, rimarrà deluso.

Dal 1992 il regime iracheno ha guardato a Bin Laden come a una risorsa dell'intelligence. Sappiamo attraverso documenti del servizio segreto iracheno che il regime offriva rifugio e sostegno finanziario a un iracheno ammesso a mischiare i composti chimici per l'attacco, il primo, quello del 1993, al World Trade Center. Sappiamo dalle stesse fonti che Saddam Hussein acconsentì alla richiesta di Bin Laden di trasmettere propaganada anti-saudita sulle televisioni di Stato irachene. Un uomo di fiducia di Bin Laden è stato per più di due settimane in un hotel di lusso di Baghad ospite dell'intelligence irachena. Questo e altro sui rapporti tra Saddam e Al Qaeda in questa dettagliata analisi di Stephen F. Hayes e Thomas Joscelyn sul Weekly Standard. Molti aspetti non sono chiari e convincenti oltre ogni ragionevole dubbio, ma che ci fosse una relazione fra il governo e gli agenti di Saddam e le operazioni di Bin Laden mi sembra indiscutibile. E le nuove prove che emergono fanno apparire quella connessione sempre più forte, e non più debole.

Seconda ragione. La risposta politica di lungo periodo che Washington ha elaborato per sconfiggere il terrorismo è la democratizzazione del Medio Oriente, quell'esportazione della democrazia teorizzata dai neocon. L'assenza di libertà economiche e di democrazia, quindi l'oppressione e la corruzione, sono ormai riconosciute (Arab Development Programme dell'Onu) come le cause del sottosviluppo e della povertà in Medio Oriente. Il disagio socio-economico e il risentimento, coniugati alla reazione in difesa dei valori tradizionali islamici propagata dal fondamentalismo sciita e wahhabita contro il rischio di una omologazione occidentale costituisce la miscela esplosiva che per tutti gli anni '90 ha alimentato le ondate del terrorismo islamico che si sono infrante su di noi a partire dall'11 settembre. Gli Stati Uniti, che per 60 hanno mirato alla stabilità in Medio Oriente e altrove, stringendo rapporti con ogni regime dispotico, laico o teocratico, purché amico e utile in funzione anti-sovietica, dopo l'11 settembre si sono accorti, e i neoconservatori erano anni che lo andavano predicando, che quella politica non ha fatto altro che peggiorare le cose.

La guerra in Iraq si fonda su entrambe queste ragioni. E' una parte della guerra globale al terrorismo, forse a oggi il fronte principale, non solo perché molti terroristi, guidati da Al Zarqawi, operano in Iraq, ma anche perché il loro obiettivo strategico conclamato è quello di far fallire il processo democratico in Iraq, il cui esempio potrebbe spingere (come dimostrano i primi inequivocabili segni in Libano, in Egitto e altrove) l'intero Medio Oriente sulla via della democrazia. Dati i legami tra Al Qaeda e Saddam, considerato ciò che avrebbe potuto significare un Saddam libero da sanzioni e ispettori, non era proprio immaginabile mettere in moto l'auspicato effetto domino democratico con Saddam al potere. La sfida è ancora aperta alla vittoria o alla sconfitta, nulla è ancora vinto, ma neanche perduto. Ciò dovrebbe richiamare alle proprie responsabilità i paesi europei, anziché allontanarli.

Tuttavia, non è necessario ricorrere al momento bellico per realizzare i regime change necessari alla guerra globale al terrorismo. Soft power, armi di attrazione di massa, bombe dell'informazione, sostegno dei movimenti democratici arabi, nuove istituzioni internazionali come l'Alleanza delle Democrazie. Occorre implementare tutte queste politiche, necessarie, benché a volte non sufficienti, per il successo finale.

Ma era possibile far cadere Saddam senza il momento bellico, o ottenerne l'esilio? Sì, se la comunità internazionale, e in particolare Francia, Germania e Russia, avessero usato nei confronti dell'Iraq una fermezza pari a quella americana e britannica. Bush e Blair ci hanno provato per 9 mesi, ripagati da una vera e propria "intelligenza" con Saddam, un vero e proprio doppio gioco condotto da francesi e russi. In sostanza occorre vedere che Francia, Germania e Russia si sono opposte all'intervento angloamericano in Iraq non perché lo ritenessero inoppurtuno o illegittimo, ma perché il loro interesse strategico (e legittimo) era esattamente opposto a quello angloamericano: era che Saddam restasse al suo posto. Altro che guerra illegale. Saddam, come dimostrano le numerose risoluzioni dell'Onu sulla questione, era comunque da anni, armi o non armi, in violazione delle clausole poste dall'Onu a condizione per l'armistizio del '91 con cui si concluse la Guerra del Golfo per liberare il Kuwait.

Dobbiamo d'altra parte essere onesti con noi stessi riconoscendo che seppure Saddam avesse per qualsiasi motivo lasciato il potere, Al Qaeda non avrebbe lasciato gli iracheni liberi di proseguire verso la democrazia.

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