Si sveglia il Wall Street Journal
La profonda crisi del sistema finanziario americano sta scuotendo i fondamentali dell'economia Usa e mettendo a dura prova la fiducia nel libero mercato. I numerosi salvataggi di istituti finanziari in bancarotta hanno sollevato qui in Italia un acceso dibattito culturale, dando adito a qualche azzardata ipotesi di una presunta fine del capitalismo, alla quale ha ben risposto Antonio Martino la scorsa settimana. Negli Stati Uniti il dibattito è molto meno ideologico. Nessuno si mostra compiaciuto degli interventi governativi. Problematici, certo, ma «inevitabili».
E venerdì scorso in un clima bipartisan è stato annunciato un piano che gode dell'appoggio unanime del Tesoro (quindi dell'amministrazione Bush), della Fed, della Sec (l'autorità di controllo delle società per azioni) e del Congresso a maggioranza democratico. Il piano autorizza il governo ad acquistare dalle banche i mutui inesigibili che hanno innescato la crisi e gli asset che a breve non possono fornire liquidità se non a fronte di pesanti perdite.
Non è un approccio privo di problemi, osserva Douglas Elmendorf, della clintoniana Brookings Institution. Primo, si tratta di strumenti di debito molto eterogenei e sarà molto difficile per il governo stabilire a quali prezzi, quali quantità e da quali banche acquistare. Secondo, la maggior parte dell'aiuto governativo andrebbe a quegli istituti finanziari che hanno fatto gli investimenti peggiori. Le banche che si sono tenute alla larga da questi debiti, o che li hanno venduti per tempo a prezzi scontati, non riceverebbero alcun aiuto, mentre le banche maggiormente compromesse con mutui di bassa qualità e che hanno tardato nell'affrontare i loro problemi di bilancio sarebbero i maggiori beneficiari. Terzo, questo approccio accolla ai contribuenti costi significativi e immediati, a fronte di potenziali guadagni futuri piuttosto limitati.
Sono in pochi a contestare esplicitamente le decisioni della Fed e del Tesoro. I think tank liberisti come Heritage Foundation e Cato Institute sembrano ammutoliti. A questo punto gli interventi governativi appaiono necessari e vengono accettati con pragmatismo. Ma è sulle cause della crisi che si riaccende il dibattito culturale. Non tra liberisti e statalisti, perché negli Usa nessuno crede che lo Stato debba essere proprietario di imprese, ma tra chi chiede più regole e chi invece ne vorrebbe ancora meno.
Il Wall Street Journal, severo custode del free-market, da giorni molto cauto nei suoi giudizi, evidentemente non ce l'ha fatta più a tacere. E oggi, pur senza chiamare in causa il piano dei politici e delle autorità federali, denuncia la «favola» che attribuisce tutte le colpe della crisi alla deregulation reaganiana e alla mancanza di regole nei mercati finanziari. Sostiene, invece, che la gravità della crisi - se non la crisi stessa - dipende da sbagliate politiche pubbliche e dagli errori dei regolatori.
Il «peccato originale» di questa crisi è nei «soldi facili». «Troppo a lungo nell'ultimo decennio, dal 2003 al 2005, la Fed ha mantenuto i tassi di interesse al di sotto del livello dell'inflazione prevista», sussidiando così l'indebitamento, che sia le famiglie che gli istituti finanziari hanno ampiamente praticato.
A mettere il turbo al «credito facile» sono state Fannie Mae e Freddie Mac. Le due giganti para-statali, istituite dal Congresso e favorite da uno speciale regime di esenzioni, sono state capaci di concedere mutui a tassi più bassi di qualsiasi società privata. Gli intrecci tra le due compagnie e i loro sponsor politici a Capitol Hill, e il fatto che le imprese para-statali sono sempre state salvate, hanno indotto i mercati a credere che il governo non avrebbe mai permesso che Fannie e Freddie fallissero. Così è stato. Ma negli anni, potendo contare su questa implicita garanzia del governo, Fannie e Freddie si sono ingrandite caricandosi sulle spalle oltre la metà dei mutui americani e indebitandosi enormemente.
Inoltre, sottolinea il WSJ, bisogna ringraziare la regulation federale e statale se «poche agenzie di rating valutano il rischio di tutti i titoli di debito nei nostri mercati». Peccato che molte di queste valutazioni si siano rivelate sbagliate, contribuendo alla crisi di fiducia. Ma la «grande ironia» è che le banche che hanno fatto i peggiori investimenti sui mutui sono proprio le più controllate, mentre quelle meno controllate – di hedge funds e private-equity – hanno avuto i problemi minori o corretto in tempo i loro errori. «Tutto ciò conferma la verità storica che i controllori scoprono gli eccessi finanziari sempre dopo che si sono verificati».
«Il punto – conclude il WSJ – non è assolvere Wall Street o pretendere che non ci siano stati eccessi da parte di privati». Ma far capire che gli investimenti sbagliati avrebbero certamente avuto effetti meno disastrosi, se non fosse stato per le politiche pubbliche a sostegno del credito facile. Quindi, «attenzione ai politici che vendono favole in cui loro stessi fanno la parte degli eroi».
Tra i think tank l'unico che si è segnalato finora per analisi e commenti particolarmente critici in merito ai salvataggi di Bear Stearns, Fannie e Freddie, e Aig, decisi da Fed e Tesoro, è l'American Enterprise Institute. I salvataggi, concordano gli analisti dell'istituto neoconservatore, incoraggiano nel sistema ciò che gli economisti chiamano «azzardo morale». Gli investitori tendono ad assumere comportamenti eccessivamente rischiosi e irresponsabili quando avvertono che i costi associati ad un eventuale esito negativo sarebbero sostenuti dalla collettività. Dunque, una politica di intervento statale per salvare imprese a rischio di fallimento potrebbe indurre gli operatori a finanziare progetti ancora più rischiosi, trattenendo per sé i benefici in caso di successo, o confidando come ultima spiaggia nell'intervento statale in caso di insuccesso.
Gli errori, secondo Vincent R. Reinhart, sono cominciati con la decisione, nel marzo scorso, di aiutare Bear Stearns. Con una decisione «senza precedenti» la Fed ha di fatto esteso la sua rete di sicurezza alle banche d'investimento. Il salvataggio di Bear Stearns «ha macchiato la reputazione della Fed», accresciuto le aspettative di nuovi interventi da parte del governo e le probabilità che tali salvataggi si sarebbero resi necessari in futuro.
«Tenete la Fed lontana dalle banche di investimento», è il monito di Allan Meltzer: «Solo nel bizzarro mondo di Washington gli errori vengono ricompensati con nuove e maggiori responsabilità». Dopo gli errori con la bolla internet e i mutui sub-prime, la Fed non dovrebbe assumersi la responsabilità di controllare anche le banche d'investimento. Dietro l'alibi del controllo pubblico, sarebbero indotte ad assumersi rischi ancora maggiori, potendo poi nascondere i loro errori dietro i prestiti della Fed. Sarebbe un modo per incoraggiare, anziché scoraggiare, l'«azzardo morale».
L'assenza di una politica univoca della Fed sui fallimenti aumenta l'incertezza e incoraggia le banche a chiedere prestiti. E i contribuenti ci rimettono. «Cosa possono attendersi ora dall'aumento della discrezionalità della Fed sulle banche d'investimento?» Negligenza nei controlli e salvataggi finanziati dal denaro pubblico. «Nel dopoguerra la Fed ha curato gli interessi delle grandi banche e del Congresso, non dei cittadini», conclude Meltzer.
Anche secondo Peter J. Wallison il coinvolgimento della Fed come regolatore delle banche d'investimento aumenterà l'«azzardo morale» nel mercato finanziario. Gli investitori crederanno che la Fed è disponibile ad aiutare gli istituti in crisi. In altre parole, conclude Wallison, stiamo legittimando l'«azzardo morale» nel sistema finanziario.
La stessa storia di Fannie e Freddie è un esempio di «azzardo morale» creato dal sostegno governativo. L'implicita garanzia pubblica ha reso gli Stati Uniti «ostaggio della salute di due compagnie fuori controllo». «La cosa più sbalorditiva» del piano di Paulson per Fannie e Freddie, spiega Wallison, è che «dopo 20 anni in cui hanno utilizzato il sostegno del governo per arricchire i loro azionisti, i manager, i lobbisti e i funzionari governativi; dopo che hanno manipolato il processo politico con contributi elettorali; e dopo che i loro sponsor al Congresso hanno vanificato ogni sforzo di riforma», ora il segretario al Tesoro di un'amministrazione repubblicana vuole riportarle agli affari di sempre, e con il denaro dei contribuenti. Sarà il Congresso a decidere il loro futuro. Ma è «incredibilmente ingenuo». Fannie e Freddie «nella loro forma attuale sono proprio ciò che il Congresso vuole: una inesauribile fonte di finanziamenti elettorali». Il piano Paulson spreca «un'occasione storica» per eliminare Fannie e Freddie come imprese para-statali.
Del salvataggio del gigante assicurativo AIG si occupa infine Alan Reynolds, del libertario Cato Institute. «L'ultimo di una serie di interventi decisi sull'onda del panico che aggiungono ulteriore incertezza politica sui mercati finanziari». La più grande compagnia di assicurazioni è stata di fatto nazionalizzata, una «soluzione draconiana». Queste decisioni vengono sempre giustificate in quanto strumenti per «stabilizzare i mercati», o «riportare fiducia». Eppure, quello di AIG «non è il primo salvataggio a incutere più terrore che calma».
3 comments:
SOno contento che il Wall Street Journal si sia "svegliato": si trastta di cose dette e ridette, sia in inglese che in italiano. Purtroppo, non sono ripetute abbastanza né troppo in alto, solo da alcuni giornali - negli USA - e da qualche blogger in Europa.
Che ci vuoi fare... ci tocca portare la croce ;-)
ciao
La solita zolfa socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti. Quando si tratta di investire i soldi dei contribuenti per sanita' pubblica, scuola pubblica, sussidi sociali ed altro si sollevano grida di dolore da parte dei maggiordomi dei ricchi seduti nelle varie redazione dei vari wall street journal e think tank ( fabbricatori di menzogne).
Quando come ora i soldi dei contribuenti sono spesi per salvare dalla bancarotta i miliardari si parla di misure necessarie a garantire la stabilita' del sistema.
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