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Tuesday, September 15, 2009

Ci penserà Israele

Come molti hanno in questi mesi pronosticato, alla fine a togliere le castagne dal fuoco del nucleare iraniano potrebbe essere Israele. Così la pensa anche Bret Stephens, il cui editoriale di oggi sul Wall Street Journal s'intitola: «Obama sta spingendo Israele verso la guerra».

La strategia iraniana riguardo la risposta da dare all'offerta di dialogo rinnovata dal presidente Obama e dal gruppo 5+1 sul programma nucleare si sta delineando: deciso no in pubblico, dalle più alte cariche; ni più sottovoce, presentando funzionari di medio livello a qualche incontro, elargendo qualche concessione all'Aiea. Quanto basta per illudere l'Occidente ancora per qualche mese che una porta possa aprirsi. Un andazzo che sembra avvalorare l'ipotesi di Amir Taheri, secondo cui Teheran sa che tutto sommato le conviene una qualche forma di dialogo, sia pure strumentale, solo per prendere ulteriore tempo. Un anno o due di negoziati con Obama - è il ragionamento di Taheri - sarebbero utili all'Iran per acquisire tutti i mezzi tecnologici e industriali per dotarsi di un arsenale nucleare e per migliorare - con l'aiuto di Cina, India, Russia, Austria e Brasile - la sua industria di raffinazione, in modo da poter sopportare un eventuale embargo.

E infatti, a fronte di dichiarazioni pubbliche di estrema chiusura sul nucleare da parte dei leader supremi della Repubblica islamica - il presidente Ahmadinejad e l'ayatollah Khamenei - ad un livello più basso qualcosa si sta muovendo. Il capo negoziatore Jalili ha accettato di incontrare il primo ottobre prossimo i rappresentanti del gruppo 5+1, i quali per preparare l'incontro si riuniranno a New York in occasione dell'apertura dell'Assemblea generale dell'Onu, quando tra l'altro è atteso l'intervento di Ahmadinejad. Tra squilli di tromba i mainstream media già annunciano l'inizio dei negoziati, ma le cose stanno molto diversamente e anche l'amministrazione Obama sembra cauta. L'Alto rappresentante dell'Ue per la politica estera e di sicurezza, Javier Solana, aveva chiesto a Jalili un incontro probabilmente per comprendere meglio il significato del «deludente» pacchetto di proposte inviato da Teheran, in cui non si menziona il programma nucleare. Per capire, insomma, se va intepretato come un "no".

L'incontro del primo ottobre, probabilmente in Turchia, non rappresenta quindi un inizio formale dei negoziati sul dossier nucleare iraniano. «Pensiamo di affrontare di petto la questione del mancato rispetto dei loro obblighi», ha spiegato il portavoce del Dipartimento di Stato Ian Kelly. Ma «non abbiamo intenzione di iniziare un intero nuovo processo; andremo a sederci e avremo l'occasione di spiegare loro direttamente qual è loro scelta». Per gli Stati Uniti a capo della delegazione ci sarà il sottosegretario agli Esteri William Burns.

Ma già si intravede il copione dei prossimi mesi: dopo qualche settimana di annusamenti per capire se davvero Teheran ha scelto il dialogo, con l'Occidente abilmente impantanato nel sondare ogni minimo spiraglio, Usa e Ue adotteranno nuove sanzioni (forse, ma è improbabile, anche sui prodotti petroliferi raffinati, come benzina e gasolio, di cui Teheran è bisognosa). Russia e Cina si opporranno e quindi l'Iran potrà tranquillamente aggirarle. Intanto, il tempo trascorrerà velocemente e arriverà il momento in cui Israele non potrà più permettersi di aspettare e attaccherà gli impianti nucleari iraniani. Forse la prossima primavera. D'altronde, il segretario alla Difesa Usa, Robert Gates, aveva chiesto al premier Netanyahu di aspettare l'esito della "mano tesa" di Obama e di far condurre i giochi agli Usa senza intromettersi, ma non ha negato in linea di principio il diritto di Israele a difendersi preventivamente, né il via libera dell'America.

«Più gli Usa ritarderanno ad agire duramente nei confronti di Teheran, più è probabile che Israele attacchi quanto prima», osserva Stephens. Forse Obama pensa di lasciare che sia Israele a risolvere il problema, per poi unirsi al coro di condanne internazionali per non dare l'impressione di aver avallato l'attacco? Probabile, ma secondo Stephens non è nell'interesse degli Stati Uniti che Israele sia «lo strumento del disarmo dell'Iran». Il fatto è che presumibilmente un attacco di Israele potrà solo ritardare il nucleare iraniano, non azzerarlo come forse può riuscire a fare la potenza di fuoco americana. E gli effetti sul prezzo del petrolio sarebbero imprevedibili, così come la rappresaglia iraniana, che potrebbe coinvolgere obiettivi americani, o interessi strategici americani in Iraq e nel Golfo persico. Ma soprattutto, conclude Stephens, «sarebbe come abdicare alle responsabilità di superpotenza appaltare a un altro stato, anche se stretto alleato, le questioni di guerra e di pace».

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