Mubarak sembra aver vinto il braccio di ferro di questa notte. L'esercito (di cui fanno parte, è bene non trascurarlo, anche il vicepresidente e tutti i membri più importanti del governo) rinuncia (per ora) ad andare fino in fondo con il colpo di Stato tentato ieri e si mostra garante delle richieste della piazza. I poteri presidenziali sono di fatto nelle mani di Suleiman, mentre i militari si ergono a garanti delle «riforme legislative e costituzionali» promesse dal presidente, assicurando la revoca dello stato d'emergenza ed «elezioni libere».
Washington non nasconde la propria irritazione per quel passo indietro a lungo richiesto che non c'è stato. Servizi segreti in panne, un vero e proprio schiaffo per gli Usa, che sembrano non riuscire a toccar palla nella crisi egiziana. Mai Obama aveva parlato in modo così chiaro e vigoroso, ma potrebbe essere tardi. «Siamo con il popolo», ha scandito. E ha chiesto al governo egiziano di procedere «immediatamente», in modo «credibile, concreto e inequivocabile verso una autentica democrazia», rammaricandosi perché «non ha ancora colto questa opportunità». Un simile sostegno non l'hanno avuto gli iraniani che si sono ribellati ad Ahmadinejad.
L'errore che in molti stanno compiendo (dalla Casa Bianca ai media) è concentrarsi troppo sul destino di Mubarak, mentre il ruolo dell'esercito rimane molto ambiguo. Poiché elezioni subito sono improponibili, il punto è assicurare - chiunque sia al potere - una transizione vera, riforme vere, ed elezioni vere a settembre. Il che non è scontato, sia con che senza Mubarak.
Nella sua prima vera crisi, quella che ti piomba addosso inattesa, il presidente ha mostrato tutta la sua incompetenza. La gestione in sé è stata disastrosa. Inizialmente, nonostante l'ancora fresco precedente tunisino, l'amministrazione Usa ha sottovalutato le proteste, con Hillary Clinton che definiva «solido» il potere di Mubarak; poi, vedendo la situazione precipitare, sono passati dalla parte della piazza e hanno provato a convincere Mubarak ad andarsene, lasciando a Suleiman guidare la transizione; vedendo però che il raìs era in grado di resistere, e accorgendosi che un vuoto di potere avrebbe potuto portare ad elezioni troppo anticipate, hanno assunto un atteggiamento più cauto, meno rigido sulle dimissioni, e aspettato di vedere se Suleiman fosse stato in grado di avviare un dialogo con le opposizioni. Fallito il dialogo, hanno creduto che l'esercito avesse scaricato Mubarak e l'hanno scaricato a loro volta. Tranne accorgersi oggi che è ancora lì. I passi falsi, e il gran caos che regna a Washington, sono ben ricapitolati in questo articolo di Molinari su La Stampa.
Ma queste piroette, questi tentennamenti, non vanno attribuiti ad un'incapacità di gestione delle crisi. Ce la si potrà anche prendere con il solito fallimento dell'intelligence (anche se i rapporti di allerta sulla crescente instabilità in Egitto e in altri Paesi della regione sono innumerevoli), ma l'errore di fondo è politico, strategico. Obama si è fatto trovare impreparato perché in questi anni si è occupato d'altro. Ha ripudiato la Freedom Agenda e qualsiasi "ingerenza" democratica, concentrandosi sulla politica della "mano tesa": negoziati con gli iraniani, e tra israeliani e palestinesi. Ne abbiamo già scritto. E l'aggravante è che un primo avvertimento su quanto fosse sbagliata, semplicemente contraria alla corrente della storia, quella sua politica, Obama l'aveva ricevuto già un anno e mezzo fa, dalle rivolte di Teheran contro la rielezione di Ahamdinejad.
Il guaio è che gli Stati Uniti sono arrivati tardi a sostenere «il popolo» egiziano, hanno snobbato per anni le opposizioni, e ora da quelle parti non hanno interlocutori. Per quante belle parole possa pronunciare ora Obama, l'eventuale rivoluzione democratica non avrà mai il sigillo politico e morale dell'America agli occhi del nuovo Egitto e del mondo arabo; hanno platealmente e frettolosamente scaricato il loro principale alleato in Medio Oriente nel momento di suo maggior bisogno, perdendo in quel medesimo istante ogni possibilità di farsi ascoltare dal raìs. Visto che si era voluta percorrere la strada "realista", tanto valeva, forse, giocare la carta Mubarak fino in fondo. Comunque vada, i rapporti col Cairo e con le altre capitali arabe "amiche" non saranno mai più gli stessi. Rimanevano i militari, che prendono oltre un miliardo di dollari l'anno dagli Usa, ma negli ultimi giorni hanno visto precipitare il loro ascendente anche su di essi, dopo che la goffa minaccia di chiudere il rubinetto degli aiuti è stata rintuzzata con abile tempismo dai sauditi, che si sono subito detti pronti ad aprire il loro di rubinetto. E gli ayatollah iraniani che festeggiano l'alba di un Medio Oriente «senza il regime sionista e senza gli Usa» sono la misura esatta della perdita di influenza americana sulla regione.
In realtà, la crisi del regime avrebbe potuto essere prevista e, quindi, in qualche modo "guidata". Il processo di riforme interne - e non il negoziato israelo-palestinese - andava messo al centro dei rapporti con Mubarak, anche a costo di incrinarli; andavano sostenute politicamente e finanziariamente le opposizioni democratiche e liberali, i loro leader aiutati ad emergere. In poche parole, abbracciata la "Freedom Agenda", e perseguita con maggiore determinazione di quanto avesse fatto Bush nei suoi ultimi tre anni. L'abbandono di Mubarak al suo destino non sarebbe apparso così repentino e strumentale; e il nuovo Egitto avrebbe visto nell'America non l'ultimo amico del vecchio dittatore.
1 comment:
Chi si nasconde dietro la Rivoluzione Egiziana?
http://coriintempesta.altervista.org/blog/chi-si-nasconde-dietro-la-rivoluzione-egiziana/
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