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Monday, February 07, 2011

Grosso guaio al Cairo/4 - Obama vira ancora

Mentre al Cairo le prime prove di dialogo sembrano non aver convinto i Fratelli musulmani e la piazza, che continuano a ritenere imprescindibili le dimissioni immediate di Mubarak, pare che altri gruppi di opposizione e soprattutto a Washington siano più cauti. Per ora, infatti, il raìs ha resistito sia alle pressioni della piazza che a quelle americane. Gli egiziani devono affrontare innumerevoli ostacoli nella via verso le elezioni di settembre e un'uscita di scena ora di Mubarak potrebbe complicare piuttosto che aiutare la transizione. E' questo, secondo quanto riporta il WashPo, il ragionamento che Hillary Clinton avrebbe fatto ai giornali sul volo di ritorno dall'Europa. Sembrerebbe l'ennesimo cambio di atteggiamento di chi è costretto ad adeguarsi agli eventi piuttosto che riuscire a influenzarli.

E secondo il quotidiano Usa, per i principali gruppi di opposizione le dimissioni immediate del raìs non sarebbero più la precondizione per avviare il dialogo con il governo, che, dunque, può procedere con Mubarak ancora al potere. Anche per l'amministrazione Obama una «rapida transizione» non implica più che il presidente si faccia subito da parte, anche perché pare che un'uscita di scena ora di Mubarak - Costituzione vigente alla mano - possa portare a elezioni anticipate entro 60 giorni. Troppo pochi due mesi perché possano organizzarsi partiti e gruppi politici diversi dai Fratelli musulmani.

Non è chiaro se con il cambio di linea sulle dimissioni di Mubarak Washington si sia adeguata ad un ammorbidimento di alcuni gruppi di opposizione su questo punto, oppure se l'abbia favorito per tentare di superare quella che andava delineandosi come una pericolosa situazione di stallo: con il governo pronto, almeno a parole, ad avviare la transizione, ma le opposizioni impuntate sulla cacciata del raìs.

Molto critico con Obama, in questa intervista su La Stampa, Norman Podhoretz, secondo cui i suoi errori «rischiano di far perdere all'America non solo l'Egitto ma l'intero Medio Oriente»:
«Il primo è un errore di metodo: il presidente cambia idea in continuazione sulla gestione della crisi egiziana, dimostrando quell'incompetenza che Hillary Clinton gli rimproverava durante la primarie democratiche del 2008. Il secondo è un errore strategico: ritiene che il fondamentalismo islamico sia diviso fra estremisti e moderati e che con questi ultimi sia possibile parlare».
Quella distinzione è solo «una finzione ad uso e consumo dell'opinione pubblica occidentale»:
«I Fratelli musulmani si fingono moderati per guadagnare terreno politico in Egitto. Legittimandoli, Obama pone le premesse che potrebbero consentire loro entro un anno di avere in mano l'Egitto, e dunque il Canale di Suez».
Moderati in pubblico (e in lingua inglese), la loro agenda (in lingua araba) è estremista: via il Trattato di pace con Israele e di fatto Repubblica islamica. Nella tendenza di Obama all'appeasement Podhoretz vede «un'idea negativa dell'America».
«La convinzione che gli Stati Uniti, i precedenti Presidenti, si siano comportanti male, abbiano sbagliato sempre tutto. C'è una sorta di odio di sé, di tutto ciò che l'America ha rappresentato in passato. L'"appeasement" con i nemici, il tentativo di pacificazione, ha queste radici».

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