In tutto questo non manca, pare, la violenza contro i giornalisti stranieri anche da parte dei manifestanti anti-governativi. Il capolavoro dell'Occidente, infatti, è che Mubarak si sente scaricato e ormai lo accusa di aver fomentato la rivolta; e le opposizioni lo accusano di appoggiare il regime. Probabilmente ha ragione Angelo Panebianco quando scrive, sul Corriere della Sera di ieri, che l'Occidente "si illude di contare" e che in realtà "è davvero poco ciò che l’America, per non parlare dell’Europa, può fare".
"Se si può fare poco per condizionare gli eventi, - aggiunge - che almeno quel poco non consista di plateali errori. Obama ne ha già fatti quando, in polemica con la politica del suo predecessore, ha demoralizzato gli oppositori democratici del regime di Mubarak e di altre dittature mediorientali, togliendo ai gruppi interessati alla democrazia appoggio morale e finanziario".
L'amministrazione Usa vive i dilemmi e sconta gli errori di cui abbiamo già parlato. Obama (con l'Europa disciplinata e spaventata al seguito) insiste nella richiesta di una transizione reale e immediata, sottintendendo che Mubarak lasci subito, ma evitando di pronunciare la fatidica parola "dimissioni". E' sincero il raìs quando dice di non volersi ricandidare e spiega perché dev'essere lui a guidare la transizione? Non si può escludere che a questo punto cerchi un'uscita di scena dignitosa, né ci si può fidare dei Fratelli musulmani. "È già cominciata sui mass media", ci avverte Panebianco, l'"operazione pubblicitaria tesa a 'vendere' i Fratelli musulmani come un interlocutore tutto sommato accettabile per noi". Ma potrebbe anche mirare solo a "passare la nottata", resistere al potere con ogni mezzo (persino il "dialogo" con le opposizioni) nella fase più critica, per poi riprendere il controllo del Paese nei mesi successivi.
Interrogativi che non credo troveranno risposte a breve. D'altra parte, il fronte dell'opposizione già sembra incapace di dare uno sbocco politico alla piazza. Forse converrebbe una tregua di qualche giorno per andare a vedere le carte di Mubarak, accettare il "dialogo" senza pretenderne dimissioni immediate, pretendere una "road map" con delle scadenze precise. Ma le proposte del vicepresidente Suleiman in questo senso sarebbero già state respinte. Forse gli islamisti hanno già estremizzato il fronte degli oppositori. Ma si tratta ancora di speculazioni. Di certo, il nodo principale da sciogliere è quello della legalizzazione dei Fratelli musulmani come partito politico. Finché Mubarak, o qualcuno al suo posto, non fa questo passo (cosa ne pensa Obama?), continueranno ad essere contrari ad ogni dialogo. Ma per il resto dell'opposizione è questione davvero così dirimente? Gli altri partiti e movimenti di opposizione sono abbastanza forti e organizzati per rendere credibile un processo di democratizzazione senza i Fratelli musulmani, ammesso che accettino in linea di principio (che ne pensa ElBaradei?) di mantenerli al bando?
UPDATE:
Se è vero - ripeto: se è vero - che Washington sta lavorando alle dimissioni di Mubarak (e non anche su altri scenari), Berlusconi è il primo e unico leader occidentale che si è espresso esplicitamente per una transizione democratica "senza rotture", guidata da Mubarak, "che tutto l'Occidente, Usa in testa, considerano un uomo saggio". Gli altri più paludati leader non si espongono. Nelle dichiarazioni ufficiali di Mubarak non si parla, tanto meno di "dimissioni".
Così Edward Luttwack sul Wall Street Journal di oggi:
... the U.S. and other well-meaning governments should be more patient. It takes at least eight months to organize a meaningful election. Waiting until September would allow parties other than the Muslim Brotherhood time to organize. If Mr. Mubarak leaves now, the result is likely to be an anarchical or Islamist Egypt, or some of both until another dictatorship emerges. In any event, Egyptian democrats should not be denied eight months to build viable opposition parties before the next election.
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