Anche lei, come Venturini sul Corriere, commette l'errore logico di interpretare l'esito del voto iraniano come un fallimento della strategia americana e uno stop del processo di democratizzazione del Medio Oriente: «... l'effetto domino della democrazia esportata in Iraq, la cosiddetta primavera mediorientale, si è arrestato; e in secondo luogo, che elezioni libere (elezioni libere in Iran? Questa sì che è una notizia. Ma qualche riga sopra non erano solo «più o meno libere»?) non sempre portano a un governo democratico - e in Medio Oriente più spesso che altrove». Anche qui, sotto-sotto, gratta-gratta, il pregiudizio un po' razzista che se si mette in mano la democrazia ai popoli del Medio Oriente questi non sappiano proprio usarla, e messi di fronte alla scelta optano per la tirannia (che stupidi eh!). E quello dell'Iran neanche era il caso, visto che la democrazia che gli ayatollah gli mettono in mano è piuttosto fasulla.
«... la democrazia che annulla se stessa (democrazia in Iran? Questa sì che è una notizia) perché non sempre la volontà popolare al governo (elezioni libere, democrazia e volontà popolare in Iran? Queste sì che sono notizie) significa più libertà civili e politiche, o un maggiore rispetto dei diritti umani. Non sempre il suffragio universale porta insomma a quel concetto di democrazia liberale» (di certo l'Italia è un esempio). Infine, la ciliegina sulla torta ci sta, è di stagione: «... la scelta conservatrice del popolo iraniano». Ma se c'erano solo candidati conservatori, come faceva il popolo a scegliere diversamente? Chi me lo spiega?). Ma questa qui, Polito, dove l'ha presa?
Almeno quella di Carlo Panella su Il Foglio è un'analisi che non chiama in causa, per ingenuità o malafede, la volontà popolare, ma cerca di interpretare l'esito del voto nelle dinamiche interne al potere.
«La radicalizzazione, la svolta, l'emarginazione del "partito" dei moderati è tanto netta e violenta che lo stesso apparente leader, Khamenei, ne è palesemente spaventato. Il divieto ai vincitori di festeggiare nelle piazze il trionfo, le parole di straordinario apprezzamento pronunciate dal rahbar nei confronti di Rafsanjani ci presentano oggi infatti un Khamenei più ostaggio che leader e questa sua debolezza palese aggiunge tinte ancora più fosche al quadro generale».Cercando di ipotizzare le prossime mosse di Teheran posso mettere in fila: melina e dissimulazione con gli europei sul programma nucleare; fomentare Siria, Hezbollah e palestinesi contro Israele; tentativo di esportare la rivoluzione islamica in Iraq; aiuto ad Al Qaeda per colpire l'America; attacco a Israele.
Il Foglio ha il merito di tradurre l'analisi diAmir Taheri sul Wall Street Journal, di cui riporto alcuni passaggi che spiegano come l'esito del voto iraniano presenti un «enorme vantaggio sul piano della chiarezza».
«I politici mullah come Khatami e Rafsanjani hanno cercato (e spesso ci sono riusciti) di ingannare gli europei facendo finta di essere liberal in stile Davos, mentre in patria obbligavano le donne a coprirsi i capelli perché emanano un pericoloso bagliore che rende selvaggi gli uomini. Con Ahmadinejad, invece, quello che si vede è la realtà. A differenza di Khatami, il quale affermava che l'Islam e la democrazia sono la stessa cosa, Ahmadinejad non si fa alcuno scrupolo a dire che le due cose sono incompatibili. Sostiene anche senza mezzi termini che le donne non sono uguali agli uomini e che i non musulmani non possono avere gli stessi diritti dei musulmani.
Khatami e Rafsanjani hanno cercato di presentare al mondo un "diverso" che era in realtà la stessa cosa, ma senza barba e turbante. Ahmadinejad, invece, è orgoglioso di presentarsi come il "diverso" che non rinuncia in nessun caso alla sua diversità. Tutto questo rappresenta un immenso vantaggio sul piano della chiarezza. Ora sappiamo che l'Iran è controllato da un'élite che rifiuta il modello globale e dichiara di costituire un'alternativa a ciò che lei stessa definisce il "corrotto stile di vita occidentale". La vittoria di Ahmadinejad dimostra che il regime khomeinista non può essere riformato dall'interno, perlomeno non nella direzione sperata dalle classi medie urbane del paese e dalle potenze occidentali. Dice che l'Iran ha diritto ad avere qualsiasi arma desideri, comprese quelle nucleari, abbandonando così quell'ambiguità tanto cara a Jack Straw o Joschka Fischer.
Paradossalmente, queste non sono cattive notizie. In patria, le classi medie iraniane ora si rendono conto che devono combattere per ottenere ciò che vogliono. All'estero, tutte le potenze che hanno rapporti con la Repubblica islamica sanno che non possono più temporeggiare e tergiversare con i nuovi mamelucchi di Teheran. La nuova élite di Teheran può essere tenuta sotto controllo e, al momento giusto, anche affrontata e sconfitta. Ma non si può certo convincerla a un comportamento ragionevole durante un colloquio a Davos o nel corso di una cena con Jacques Chirac».
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