Le cronache riferiscono del grande entusiasmo con il quale i turchi incollati alle tv hanno atteso ieri il fatidico "Sì", senza però «dimenticare i contrastanti umori dei futuri partner». Gli osservatori più autorevoli e acuti non si fanno illusioni circa i vantaggi economici che questo passo storico potrà produrre, ma ciò che importa di più è «avere un preciso punto di riferimento. Appartenere alla grande famiglia dell'Unione aiuterà a consolidare la nostra democrazia, a diffondere la cultura del rispetto dei diritti umani e potrà offrire condizioni di vita migliori».
Tuttavia, come mi appariva chiaro fin da subito, e osserva oggi Franco Venturini sul Corriere, «malgrado il diluvio delle congratulazioni reciproche, sono stati i dubbi generalizzati, i paletti piantati ovunque», i veri protagonisti della giornata di ieri alla Rond-point Schuman di Bruxelles.
Al messaggio politico che la Turchia moderna porta con sé, di capitale importanza nel mondo di oggi, e cioè che Islam e democrazia sono conciliabili, l'Europa ha risposto sollevando in modo pretestuso il problema irrisolto (da Annan) della divisione di Cipro e superato poi con un inevitabile capolavoro di ambiguità diplomatica. Ma «da quel momento non si è più parlato di grandi progetti». Il problema dell'identità europea è un problema che l'Europa - la Vecchia Europa soprattutto - ha con se stessa, è il problema di un'identità percepita a cui troppo spesso non seguono fatti, progetti, grandi visioni coerenti con essa. Di questo non possiamo incolpare i turchi.
«Il problema non è più di sapere se la Turchia debba entrare un giorno nell'Unione (troppo laceranti sarebbero le conseguenze di un "No" sullo scacchiere islamico-mediorientale) bensì di capire per tempo quale Unione possa accogliere la Turchia dopo il 2014».Giuliano Ferrara nel suo editoriale di oggi ricorda che i più attivi sostenitori dell'apertura alla Turchia, Bush, Blair, Berlusconi e Israele, «sono precisamente le forze che hanno teorizzato e praticato una risposta di autodifesa attiva dell'occidente di fronte alla guerra portatagli dagli islamisti fondamentalisti» e che «le loro opinioni non sono deboli né sospette». Ci ricorda che è in gioco la «collocazione internazionale» di un paese, la Turchia, «che fino ad ora è stato con molte ambiguità un bastione antifondamentalista e a suo modo occidentalista», da mezzo secolo integrato lealmente nella Nato.
Poi però ci avverte che «non si decide la storia senza coinvolgere i popoli» e per questo appoggia l'idea di un referendum sull'ingresso della Turchia. Sarebbe un trattamento senza precedenti, ma è anche vero che si tratterebbe di un'adesione dal carattere unico e non paragonabile a quelle già avvenute. Osservo solo che parlare di referendum oggi, e non alla fine dei negoziati, è un po' come brandire una minaccia, lo fa Chirac, lo fanno gli austriaci. Ma forse, come prevede Pannella, fra qualche anno sarà l'Europa a supplicare la Turchia di entrare e allora potrò dire anch'io «sì al referendum».
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