Dietro l'ennesima strage in Siria c'è un vecchio scandalo: l'Onu. L'Onu ormai strumento delle dittature grandi e piccole, sempre più paravento dietro cui si perpetrano i più gravi crimini contro l'umanità. E scusate, ma questo è uno dei più grandi scandali planetari, che solo il sonno ideale in cui versa l'Occidente impedisce di denunciare con la forza che meriterebbe.
Non fa neanche più notizia che il Consiglio di Sicurezza non riesca a votare una risoluzione sulla strage di Hula per i soliti veti russi e cinesi. L'Onu «condanna», si legge sui giornali e si sente in tv, ma in realtà la dichiarazione, non vincolante, della presidenza di turno del Consiglio (Azerbaigian!) è al massimo una "semi-condanna", nella quale si allude ad una possibile estraneità del regime di Assad.
Hula come Srebenica, come Sarajevo; in Siria come in Bosnia. Dove c'è Onu ci sono massacri, è matematico. Con i caschi blu che stanno a guardare, scattano foto, compilano inutili e penosi rapporti. Processi di pace e missioni diplomatiche che in realtà fanno il gioco dei dittatori, funzionali alle loro repressioni sanguinarie. Come si può pretendere di proteggere i civili praticando l'equidistanza politica tra regime e ribelli, tra aggressori e vittime?
Ritorna la domanda: ha ancora senso l'Onu? Non è giunto forse il momento di rottamare l'Onu, o almeno certa casta onusiana, di cui Kofi Annan è la massima e più rivoltante espressione? Ancora lui nonostante tutti i malaffari? Vittima ingenua dei raggiri di Assad o piuttosto complice? La Russia può facilmente nascondersi dietro il suo piano, dire di non appoggiare Assad ma di sostenere il piano Annan, ben sapendo che in realtà quest'ultimo fa proprio il gioco di Damasco.
L'altra chiave di lettura della crisi siriana è l'assenza della leadership americana. I tentennamenti, i "flip flop" dell'amministrazione Usa già visti in occasione della crisi iraniana, poi di quella egiziana e infine libica. Chi alla Casa Bianca ha avuto il coraggio e la lungimiranza di "scavalcare" l'Onu è stato dileggiato e disprezzato dai benpensanti. Oggi invece totale fiducia nel genio diplomatico e nel Nobel per la pace Obama, che procede caso per caso, senza strategia, senza visione, toppa dopo toppa. In Libia sì all'intervento - con colpevole ritardo - perché con Gheddafi si poteva vincere facile, senza boots on the ground (e nonostante questo si è rischiato lo smacco), mentre per deporre Assad bisognerebbe vedersela con Russia, Iran, Hezbollah, avversari veri insomma, non beduini. La toppa per la Siria sarebbe la cosiddetta "opzione yemenita", ovvero una transizione interna al regime favorita da una mediazione araba. Innanzitutto, nello Yemen il giudizio sull'esperimento è sospeso, non essendo ancora chiaro se sarà in grado di produrre un cambiamento pacifico ma reale, o se piuttosto permetterà nella sostanza di salvare lo status quo. Ma la Siria di tutta evidenza non è lo Yemen. Niente di più facile che la Yemenskii Variant, come guarda caso l'hanno ribattezzata a Mosca, possa apparire inizialmente un successo diplomatico americano salvo poi, nella sostanza, rivelarsi la più tipica delle normalizzazioni.
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