C'è da sperare che il presidente degli Stati Uniti sia un ipocrita e non un incapace. Nel suo discorso al Paese sulla Libia ha ribadito che favorire l'avanzata degli insorti non rientra nel mandato Onu che ha autorizzato l'intervento e che «ampliare la missione in modo da includere il regime change sarebbe un errore», ma ha spiegato che la caduta di Gheddafi è un obiettivo, solo che va perseguito «con mezzi non militari». Pressioni e isolamento.
E' evidente anche ad un bambino che questa strategia, se fosse applicata alla lettera, non porterebbe mai alla caduta di Gheddafi, il quale ha il vantaggio di poter considerare una vittoria anche solo una situazione di stallo dal punto di vista militare che lo veda controllare la Tripolitania. A parole la strategia di Obama è più vicina alla posizione italiana che a quella francese, ma nei fatti - fortunatamente - dai bersagli centrati, dalle armi e dai mezzi aerei (come gli AC-130 e gli A-10) impiegati dagli Usa, le cose sembrerebbero stare molto diversamente. A parole Obama assicura di non voler dare appoggio aereo ai ribelli né di perseguire militarmente la caduta di Gheddafi, ma nei fatti è esattamente ciò che le sue forze aero-navali stanno cercando di fare - pur senza dare troppo nell'occhio, quindi a scapito dell'efficacia dell'azione. A Washington d'altra parte sanno bene che le chance di successo delle pressioni non militari tanto care a Obama sono direttamente proporzionali al grado di minaccia bellica.
Tuttavia, l'ambiguità su un obiettivo militare che non si può dichiarare apertamente, e dunque sembra venire perseguito troppo debolmente, resta, ed è ciò che anche il Washington Post rimprovera al presidente, in sostanza di non avere «una strategia che non faccia affidamento su un colpo di fortuna - un golpe improvviso, una inaspettata avanzata ribelle, o un improbabile accordo con Gheddafi per il suo esilio... Il rischio - conclude il quotidiano della capitale Usa - è che l'ansia del presidente nel circoscrivere il coinvolgimento americano alla fine ostacoli il cambiamento che a parole sostiene». Se secondo voi "prova a farlo col minimo sforzo e senza dirlo" rappresenta una «dottrina» politica...
Un piano sostanzialmente affidato al colpo di fortuna - addirittura tre, cioè che Gheddafi accetti di fermare le armi, di dialogare con gli insorti e, infine, di andarsene - è anche quello elaborato alla Farnesina per ritagliare finalmente all'Italia un ruolo da protagonista: cessate-il-fuoco; dialogo di riconciliazione nazionale; iniziativa dell'Unione africana per convincere Gheddafi all'esilio. Tutto bello e buono, ma perché dovrebbe funzionare? Per di più in Italia, diversamente dagli americani, sembriamo ignorare la centralità del fattore militare. Ci illudiamo anzi che da uno stallo sul terreno possano scaturire le condizioni per una «fase di mediazione», mentre è vero il contrario, perché uno stallo è una vittoria di Gheddafi e il raìs non tratterà mai quando ai suoi occhi è convinto di poter vincere.
Ecco perché l'Italia dovrebbe continuare pure a elaborare quanti piani vuole ma intanto partecipare ai bombardamenti. Per fugare gli ultimi residui dubbi sulla sua amicizia (ex?) con la famiglia Gheddafi, e perché solo i successi militari possono accelerare la caduta del raìs con mezzi non militari. Per mediare c'è sempre tempo, ma prima bisogna mettere il dittatore dinanzi alla prospettiva di una sconfitta e/o morte praticamente certa. Il che con i dittatori non è mai facile, perché il loro fanatismo li induce a sopravvalutare leggermente le loro forze. Ma posta una pistola alla tempia di Gheddafi, il più sarebbe fatto e parlare di esilio non avrebbe senso se non per salvargli la vita.
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