Manifestazioni e repressione in Iran continuano lontano dagli sguardi dei media, concentrati sulla guerra civile scoppiata in Libia. Dei leader dell'opposizione Moussavi e Karroubi non si hanno notizie dal 14 febbraio e ieri un pezzo da novanta del regime, ma prezioso contrappeso interno al potere quasi assoluto di Khamenei e Ahmadinejad, l'ex presidente Rafsanjani è uscito di scena. Occupava ancora una posizione chiave: la presidenza del Consiglio degli Esperti, un organo di 86 "mujtahed", o giurisperiti, con il compito di controllare l'operato del leader supremo, nominare un suo successore in caso di morte e, in casi estremi, perfino destituirlo.
E' stato costretto dalle intimidazioni del regime a ritirare la sua candidatura per il rinnovo della carica: gli attacchi dei basiji alla figlia Faezeh; il mandato di cattura nei confronti del terzo figlio, Mehdi, esule a Londra; le pressioni che hanno indotto il figlio Mohsen Hashemi a dimettersi dalla guida della Metro di Teheran. Ahmadinejad sembra aver eliminato ogni punto di riferimento dell'opposizione "lealista" (almeno a parole) rispetto al sistema messo in piedi da Khomeini.
Gran parte di quel movimento verde che si era ribellato alla rielezione truffaldina di Ahmadinejad infatti non mirava a sovvertire la Repubblica islamica, ma a riformarla, a "democratizzarla". Ma adesso che i leader riformatori Moussavi e Karroubi sono fuori gioco, che il pragmatico Rafsanjani è stato costretto a farsi da parte, la speranza è che il venir meno per la seconda volta (dopo l'illusione Khatami) dell'opzione riformista radicalizzi il movimento di protesta, che tutti si convincano che il regime non è riformabile dall'interno e che va abbattuto.
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