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Tuesday, January 24, 2017

Trump fa sul serio: i primi ordini esecutivi e il discorso di insediamento

Pubblicato su Ofcs Report

Trump fa il Trump. Discorso rivoluzionario (contro l'establishment politico di Washington e il disordine mondiale post-Guerra fredda), protezionista, nazionalista, ma non isolazionista. Rivolto ai "dimenticati", gli esclusi dall'agenda politica

Nelle ultime ore. Il via libera dalle commissioni competenti del Senato Usa alle nomine chiave della nuova amministrazione: dopo il segretario alla difesa James Mattis, anche il segretario di Stato Rex Tillerson e il nuovo direttore della Cia Mike Pompeo. Con il voto anche dei senatori repubblicani più ostili al nuovo presidente (John McCain e Marco Rubio). I primi ordini esecutivi firmati da Trump per imprimere da subito, già nei primi cento giorni, il nuovo corso alla Casa Bianca: ritiro dal TPP, il trattato di libero scambio con i Paesi asiatici (in realtà già bloccato al Congresso per l’opposizione dei repubblicani e scaricato anche dalla sua avversaria, Hillary Clinton); rinegoziazione del Nafta, l’accordo con Canada e Messico; autorizzati due oleodotti, il Keystone e il Dakota Access, bloccati da Obama; stop alle assunzioni nel governo federale; annuncio dello smantellamento dell’Obamacare. Poi, gli incontri di lunedì con i vertici del mondo dell’industria e quello di martedì con i principali produttori di automobili, a cui il neo presidente ha recapitato un messaggio chiaro: “Siamo di fronte a un ambientalismo fuori controllo. Renderemo più facile fare business”, con un taglio del 75% al quadro regolatorio e una riduzione delle tasse dal 35 al 15% per chi produce negli Stati Uniti. L’incontro, già venerdì prossimo a Washington, con la premier britannica Theresa May, che annuncia il ritorno dell’Anglosfera. E infine il discorso di insediamento di venerdì scorso, da cui tutti hanno compreso che il presidente Trump è il candidato Trump. Sono la stessa persona. Una chiarezza e una coerenza che sarà piaciuta molto a chi lo ha votato: l’arrivo a Washington non ha cambiato Trump, Trump è qui per cambiare Washington. Primi passi e un discorso che non cambiano l’analisi su Trump e la sua amministrazione che abbiamo azzardato su queste pagine sulla base degli elementi ad oggi in nostro possesso.

La sensazione è che mentre il giornalista collettivo è ancora in preda all’isteria anti-Trump, il nuovo presidente si sta concentrando su posti di lavoro, infrastrutture, politica estera. Per citare le sue parole, nel “rebuilding America”, nel “Make America Great Again”. La notizia insomma è che Trump fa sul serio. Può fallire, naturalmente, come qualsiasi presidente e come qualsiasi avventura umana, e gli ostacoli che si troverà di fronte non sono da sottovalutare: su tutti, il delicato rapporto con il Partito repubblicano, che controlla il Congresso, quindi il rischio di ritrovarsi senza partito, e i tentativi di disarcionarlo che proseguiranno per tutti i prossimi quattro anni. Ma quello che gli indignados di tv e carta stampata, delle elites e dei salotti perbene non hanno ancora capito è che se Trump è un outsider della politica americana, tuttavia la sua elezione non è uno scherzo del destino, non è un incidente della storia. Brexit e Trump rappresentano qualcosa di reale e profondo che si sta muovendo non solo in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, ma anche nell’Europa continentale e potrebbero segnare la storia come nemmeno l’11 settembre ha fatto. Le due democrazie anglosassoni si preparano a scrivere una pagina di storia diversa da quella scritta dagli anni 90′ in poi. Fino a pochi mesi fa, globalizzazione, multilateralismo, multiculturalismo e Unione europea sembravano processi ormai consolidati e destinati a dominare i prossimi decenni. E invece, siamo in procinto di un cambio di paradigma. I confini, le nazioni, esistono, fin tanto che i cittadini che ci sono dentro hanno voce in capitolo. Si cambia rotta.

E’ stato a suo modo rivoluzionario il discorso di insediamento di Trump: contro l’establishment politico di Washington e contro il (dis)ordine mondiale post-Guerra fredda. Protezionista in economia, nazionalista, ma non isolazionista. America First è uno slogan non completamente sovrapponibile al concetto di isolazionismo. Non dal momento che prevede il rilancio della potenza (e della spesa) militare tra le leve per rendere l’America di nuovo grande (e temuta). Non se la priorità dichiarata è quella di sconfiggere l’Isis. Non se la volontà è quella di contrastare l’espansionismo economico e militare della Cina. Non se con Trump e Brexit è la relazione speciale fra le due grandi democrazie anglosassoni, l’Anglosfera, a rimettersi in marcia (come indicano il ritorno del busto di Churchill nello studio ovale e l’incontro Trump-May già venerdì prossimo).

Non un’America chiusa in se stessa, né un pericolo autoritario, ma un’America concentrata a difendere i suoi interessi e i suoi confini, senza inseguire utopie mondialiste, velleità moralistiche e senza lo scrupolo di apparire buona e conciliante. L’americanismo contro l’ideologia globalista che si è affermata nel post-Guerra fredda, ma non disimpegno. Ed è comunque bizzarro che l’allarme per il protezionismo di Trump giunga da chi non si è dimostrato finora un campione del libero mercato e che la critica al suo presunto isolazionismo arrivi dagli stessi che solitamente condannano gli Usa per il loro interventismo. In realtà, al “ritiro dell’America” abbiamo assistito con Obama, che ha favorito la nascita dell’Isis in Iraq e Siria, il protagonismo della Russia di Putin in Medio Oriente e nell’est Europa, così come le manovre espansioniste di Pechino nel Mar cinese meridionale. Trump ha la possibilità invece di ricucire la tela sfilacciata dell’ordine mondiale, se non di tesserne uno nuovo.

Nel discorso di Trump, anche se molti hanno finto di non averlo sentito, c’è anche il rinnovato impegno americano nei confronti di alleati vecchi e nuovi e la promessa di un ruolo guida dell’America nella guerra al terrorismo, per la prima volta chiamato con il suo nome: islamico (“We will reinforce old alliances and form new ones – and unite the civilized world against Radical Islamic Terrorism”).

Impensabile che l’America abbandoni il libero mercato e il libero commercio, solo perché Trump ha fatto appello a “comprare americano e assumere americano” (siamo sommersi dagli appelli di politici e produttori alla tutela del Made in Italy e l’ideologia ambientalista del “km zero” è di moda, almeno tra chi può permetterselo). Ma il tentativo, questo sì, di correggere gli squilibri della globalizzazione. Due sembrano le armi che Trump ha intenzione di impugnare per “proteggere” la manifattura americana e i posti di lavoro americani. Da una parte, a torto o a ragione si vedrà, è convinto di poter portare a casa accordi migliori per gli americani: si tratta di rinegoziare vecchi accordi, come il Nafta, e siglarne di nuovi, meglio accordi bilaterali che ampie partnership. E dall’altra, rendere più favorevoli gli investimenti negli Stati Uniti (riducendo tasse e regolazione), scoraggiando la delocalizzazione e ricorrendo ai dazi solo in funzione difensiva, cioè per controbilanciare la concorrenza sleale della Cina o di altri Paesi. Una delle sfide sarà proprio aprire un aspro confronto con la Cina a cui dal suo ingresso nel WTO è stato permesso di tutto (dumping, contraffazione e manipolazione valutaria). È la Cina che ha in mente Trump quando parla di nazioni che si sono arricchite sulle spalle dell’America. Un deficit commerciale di 360 miliardi di dollari non è più sostenibile.

In una sua frase in particolare c’è la sintesi della critica alla globalizzazione: “The wealth of our middle class has been ripped from their homes and redistributed across the entire world”. Il tema esiste e negarlo non aiuta. Delocalizzazione crescente, ripresa con pochi posti di lavoro e di cattiva qualità, redditi stagnanti o in calo, nuove generazioni con prospettive peggiori di quelle dei genitori e dei nonni, mobilità sociale al palo. Riguarda non solo gli Stati Uniti, anche l’Europa. Sì, la globalizzazione ha aiutato i Paesi emergenti, favorito crescita, innovazione e progresso anche da noi, ma per alcuni non è stata un gioco a somma positiva e a Detroit non votano cinesi o indiani. Riprendendo un’espressione usata da Franklin Delano Roosevelt nel 1932, Trump ha parlato di uomini e donne “forgotten”, i dimenticati, la classe media di cui tutte le forze politiche e i governi si riempiono la bocca ma che in realtà è esclusa da tempo dall’agenda politica a vantaggio di un’agenda che ha il politicamente corretto come guida e utopie internazionaliste come cornice. “Francamente, non mi sono mai interessato a cosa fanno due adulti consenzienti quando vanno a letto assieme”, ha risposto il nuovo segretario alla difesa James Mattis, durante la sua confirmation hearing in Senato, ad una senatrice democratica che chiedeva cosa intendesse fare per “l’inserimento nelle forze armate di gay, lesbiche, bisex e transgender”.

Ma nemmeno se volesse Trump potrebbe riportare indietro le lancette dell’orologio mondiale. Dalla globalizzazione non si esce, ma si può provare a correggerne le distorsioni. Anche perché protagonisti della globalizzazione non sono solo attori economici, non solo le logiche del mercato, ma anche governi autoritari e illiberali che utilizzano i loro poteri per aggravare a loro vantaggio gli squilibri e ostacolare le compensazioni del mercato. Metodi che non hanno nulla a che vedere con libero commercio e libero mercato, ma con le vecchie politiche di potenza.

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