Week end
Parto per il week end, ciao a tutti, torno lunedì. Ci tenevo ad assicurarvi che non vado in un posto del cazzo. Clicca sulla foto per ingrandirla.
Foto Gnueconomy
Friday, May 30, 2003
L'Analisi. Troppo "sovranista" la bozza di Costituzione Ue
«Si dice che un buon compromesso debba lasciare tutti un po' scontenti, ma non troppo. Che non debba limitarsi al minimo comune denominatore fra le parti, ma neppure tentare fughe in avanti. Che debba stabilire principi flessibili e funzionali. Alla luce delle reazioni registrate, la bozza di Trattato costituzionale elaborata dal Presidium della Convenzione non è un buon compromesso. Si sapeva che per far riuscire la Convenzione andava trovata una formula intermedia fra le richieste dei "federalisti" più europeisti e le resistenze dei "sovranisti" intergovernativi». Tuttavia, «la curvatura data alle disposizioni-chiave, però, appare un po' troppo "sovranista" e tale da rendere la gestione delle politiche comuni a 25 poco praticabile». Il rischio è un'Europa «con ambizioni forti ma con istituzioni comuni deboli»
Rimane la regola dell'unanimità in troppe decisioni: «a 25 e più, non sarà possibile fare scelte importanti, se non solo Londra, ma anche Lussemburgo e Malta potranno porre un veto in materia fiscale. Ma anche per quanto riguarda l'approvazione del nuovo Trattato (e di future modifiche "costituzionali"), il vincolo della ratifica unanime è una ricetta per il disastro. Con l'allargamento, saranno in troppi a poter brandire l'arma del veto indiretto». «Appare necessario un principio di maggioranza "giusto" per le decisioni comuni, e l'unanimità non lo è». Il nuovo testo propone una doppia maggioranza, di Stati e di cittadini rappresentati (il 60%). «Un'estensione della nuova maggioranza qualificata, con clausole di salvaguardia per decisioni delicate, sarebbe più "giusta" e funzionale».
Sulla politica estera e di difesa, «si è ripiegato sul "sovranismo" inserendo nell'attuale art.III-196 troppe limitazioni all'eventuale ricorso al voto a maggioranza. Le disposizioni sul voto sono macchinose, a 25 possono paralizzare l'Ue e il ministro degli Esteri. Sul presidente unico del Consiglio un buon compromesso è possibile lavorando sulle sue prerogative e su una misura di "rotazione" fra i paesi da conservare per le altre formazioni del Consiglio».
«Ma un buon compromesso entro fine giugno richiederà ritocchi per venire incontro ai "federalisti" e rendere l'Ue capace di agire in modo efficace».
Analisi da Il Foglio
Qui, l'analisi de il Riformista
«Si dice che un buon compromesso debba lasciare tutti un po' scontenti, ma non troppo. Che non debba limitarsi al minimo comune denominatore fra le parti, ma neppure tentare fughe in avanti. Che debba stabilire principi flessibili e funzionali. Alla luce delle reazioni registrate, la bozza di Trattato costituzionale elaborata dal Presidium della Convenzione non è un buon compromesso. Si sapeva che per far riuscire la Convenzione andava trovata una formula intermedia fra le richieste dei "federalisti" più europeisti e le resistenze dei "sovranisti" intergovernativi». Tuttavia, «la curvatura data alle disposizioni-chiave, però, appare un po' troppo "sovranista" e tale da rendere la gestione delle politiche comuni a 25 poco praticabile». Il rischio è un'Europa «con ambizioni forti ma con istituzioni comuni deboli»
Rimane la regola dell'unanimità in troppe decisioni: «a 25 e più, non sarà possibile fare scelte importanti, se non solo Londra, ma anche Lussemburgo e Malta potranno porre un veto in materia fiscale. Ma anche per quanto riguarda l'approvazione del nuovo Trattato (e di future modifiche "costituzionali"), il vincolo della ratifica unanime è una ricetta per il disastro. Con l'allargamento, saranno in troppi a poter brandire l'arma del veto indiretto». «Appare necessario un principio di maggioranza "giusto" per le decisioni comuni, e l'unanimità non lo è». Il nuovo testo propone una doppia maggioranza, di Stati e di cittadini rappresentati (il 60%). «Un'estensione della nuova maggioranza qualificata, con clausole di salvaguardia per decisioni delicate, sarebbe più "giusta" e funzionale».
Sulla politica estera e di difesa, «si è ripiegato sul "sovranismo" inserendo nell'attuale art.III-196 troppe limitazioni all'eventuale ricorso al voto a maggioranza. Le disposizioni sul voto sono macchinose, a 25 possono paralizzare l'Ue e il ministro degli Esteri. Sul presidente unico del Consiglio un buon compromesso è possibile lavorando sulle sue prerogative e su una misura di "rotazione" fra i paesi da conservare per le altre formazioni del Consiglio».
«Ma un buon compromesso entro fine giugno richiederà ritocchi per venire incontro ai "federalisti" e rendere l'Ue capace di agire in modo efficace».
Analisi da Il Foglio
Qui, l'analisi de il Riformista
Bush aiuta l'Africa, l'Europa no?!?!?!?!
«Bush sta aiutando l'Africa come da tempo non succedeva. L'Unione Europea è patetica». No, non l'ha detto Donald Rumsfeld. Sono parole di Bob Geldof, il musicista fondatore di Live Aid e attivista pro-Africa nella lotta alla povertà e alla fame, davanti agli sbigottiti rappresentanti delle organizzazioni umanitarie e in un'intervista al Guardian. Quello di Bush è un approccio "radicale e benvenuto", mentre Bill Clinton parlava appassionatamente di Africa, ma non ha fatto nulla, ed è addirittura bollato come "patetico" l'atteggiamento dell'Unione europea. "Una bestemmia in chiesa", lo avverte 1972. Leggi sul Guardian
«Bush sta aiutando l'Africa come da tempo non succedeva. L'Unione Europea è patetica». No, non l'ha detto Donald Rumsfeld. Sono parole di Bob Geldof, il musicista fondatore di Live Aid e attivista pro-Africa nella lotta alla povertà e alla fame, davanti agli sbigottiti rappresentanti delle organizzazioni umanitarie e in un'intervista al Guardian. Quello di Bush è un approccio "radicale e benvenuto", mentre Bill Clinton parlava appassionatamente di Africa, ma non ha fatto nulla, ed è addirittura bollato come "patetico" l'atteggiamento dell'Unione europea. "Una bestemmia in chiesa", lo avverte 1972. Leggi sul Guardian
Bush in Medio Oriente: ce la farà? I commentarori divisi
«Tre uomini e una road map», come ha scritto sul Washington Post, Jim Hoagland. Condoleezza Rice ha aggiunto: "Voglio essere molto chiara: questo sarà un lungo processo che avrà alti e bassi, come è sempre stato".
Thomas Friedman «riconosce che il presidente ha le idee giuste (cacciare Saddam, liberarsi di Arafat, porre fine agli insediamenti e creare lo Stato palestinese), il problema è se saprà metterle in pratica e se avrà la pazienza necessaria»: ci vorrà una vera "passione per la pace", e questo dovrebbe essere il ruolo dell'America.
Frank Gaffney pensa l'opposto, "promuovere la pace attraverso la forza", e parla di "road trap".
Scettici anche al Wall Street Journal: un errore "credere che la strada della stabilità passi attraverso la Palestina", perché "il nuovo Medio Oriente si ritrova col pericolo di tornare a essere il vecchio Medio Oriente".
Amir Taheri, esperto di politica mediorientale: il processo di pace ora o mai più. "Bush è all'apice della sua autorevolezza nella regione, e gli Stati Uniti ora sono più forti che mai in Medio Oriente".
Il Foglio
«Tre uomini e una road map», come ha scritto sul Washington Post, Jim Hoagland. Condoleezza Rice ha aggiunto: "Voglio essere molto chiara: questo sarà un lungo processo che avrà alti e bassi, come è sempre stato".
Thomas Friedman «riconosce che il presidente ha le idee giuste (cacciare Saddam, liberarsi di Arafat, porre fine agli insediamenti e creare lo Stato palestinese), il problema è se saprà metterle in pratica e se avrà la pazienza necessaria»: ci vorrà una vera "passione per la pace", e questo dovrebbe essere il ruolo dell'America.
Frank Gaffney pensa l'opposto, "promuovere la pace attraverso la forza", e parla di "road trap".
Scettici anche al Wall Street Journal: un errore "credere che la strada della stabilità passi attraverso la Palestina", perché "il nuovo Medio Oriente si ritrova col pericolo di tornare a essere il vecchio Medio Oriente".
Amir Taheri, esperto di politica mediorientale: il processo di pace ora o mai più. "Bush è all'apice della sua autorevolezza nella regione, e gli Stati Uniti ora sono più forti che mai in Medio Oriente".
Il Foglio
Thursday, May 29, 2003
Juve - Milan. Tutto secondo i piani
Il calcio italiano ha dato un'altra mediocre prova di sé. Avevo previsto che sarebbero stati 120 minuti di NOIA, ma, devo dire, più per demerito della Juve che del Milan, che ha provato a fare la partita.
Da romanista dico, sono contento per Nesta, che se lo meritava; per Maldini, perché ha trovato sempre qualche maledetto incompetente o juventino che non gli ha fatto vincere il mondiale; per Ancelotti, che magari viene alla Roma al posto di quello sciagurato e prezzolato di Capello.
Ma sono contento anche per Piccinini che non finiva di ripetere: "ENTRAMBE le squadre hanno tentato di superarsi fino all'ultimo". Ridicolo, della serie, 'non so più a chi fare pompini'.
Riguardo l'assenza di Nedved. Lippi ha puntato su Camoranesi, che però non è stato all'altezza, questo è vero, ma resta il fatto che più di tutto ha pesato proprio la tattica attendista di Lippi, che ha rinunciato a giocarsela aspettando di colpire in contropiede (il Milan attaccava con 7 uomini, la Juve con 3), pur non avendo gli attaccanti adatti (Sheva va bene per il contro piede, non Trezeguet che è più attaccante d'area). Comunque il Milan non ha concesso spazi. Ridicola la Juve che non ha provato a vincere neanche quando il Milan era in 10.
I giornali sportivi stranieri protestano per il non-gioco italiano:
«Finale soporifera», «poverissima», sul Marca (Spa);
«Attentato al calcio», «partita penosa». Una finale con due squadre italiane, quando Cruyff sostiene che già la presenza di una è una tragedia per il gioco, su AS (Spa);
«Finale 'all'italiana'» su Le Monde (Fra);
L'Equipe (Fra).
Il calcio italiano ha dato un'altra mediocre prova di sé. Avevo previsto che sarebbero stati 120 minuti di NOIA, ma, devo dire, più per demerito della Juve che del Milan, che ha provato a fare la partita.
Da romanista dico, sono contento per Nesta, che se lo meritava; per Maldini, perché ha trovato sempre qualche maledetto incompetente o juventino che non gli ha fatto vincere il mondiale; per Ancelotti, che magari viene alla Roma al posto di quello sciagurato e prezzolato di Capello.
Ma sono contento anche per Piccinini che non finiva di ripetere: "ENTRAMBE le squadre hanno tentato di superarsi fino all'ultimo". Ridicolo, della serie, 'non so più a chi fare pompini'.
Riguardo l'assenza di Nedved. Lippi ha puntato su Camoranesi, che però non è stato all'altezza, questo è vero, ma resta il fatto che più di tutto ha pesato proprio la tattica attendista di Lippi, che ha rinunciato a giocarsela aspettando di colpire in contropiede (il Milan attaccava con 7 uomini, la Juve con 3), pur non avendo gli attaccanti adatti (Sheva va bene per il contro piede, non Trezeguet che è più attaccante d'area). Comunque il Milan non ha concesso spazi. Ridicola la Juve che non ha provato a vincere neanche quando il Milan era in 10.
I giornali sportivi stranieri protestano per il non-gioco italiano:
«Finale soporifera», «poverissima», sul Marca (Spa);
«Attentato al calcio», «partita penosa». Una finale con due squadre italiane, quando Cruyff sostiene che già la presenza di una è una tragedia per il gioco, su AS (Spa);
«Finale 'all'italiana'» su Le Monde (Fra);
L'Equipe (Fra).
Wednesday, May 28, 2003
La trappola delle classifiche musicali, e non solo
brainDamage ha postato la classifica dei "migliori dischi della nostra vita" (qui). Ho scritto ad Adri dicendogli che le classifiche dei propri favorite sono cose complicate. Intanto vedo che da dieci sei già passato a venti e so che ti sta rodendo il fegato perché ti vengono in mente i tanti esclusi che ti sono rimasti nel cuore. Insomma, fare una cosa del genere richiede una riflessione teorica e metodologica. A parte il fatto che si potrebbe discutere a lungo della scelta per album e non per brani. E' raro infatti che l'album rappresenti nella sua interezza un'opera conclusa e coerente. Comunque. Io preferisco procedere per classificazioni meno assolute di "I migliori dischi della nostra vita", meno generaliste. Innanzitutto credo che il numero perfetto sia il 5. Si potrebbe banalmente procedere per periodi, o per generi, o, meno banalmente, circoscrivere il campo con classifiche del tipo cosa preferisco con certi stati d'animo o in determinate situazioni e luoghi, o ancora i migliori brani che parlano, che ne so, di guerra, di città, e così via con gli argomenti più disparati. Il dibattito è aperto e comunque prometto che cercherò di postare anch'io qualche classifica.
brainDamage ha postato la classifica dei "migliori dischi della nostra vita" (qui). Ho scritto ad Adri dicendogli che le classifiche dei propri favorite sono cose complicate. Intanto vedo che da dieci sei già passato a venti e so che ti sta rodendo il fegato perché ti vengono in mente i tanti esclusi che ti sono rimasti nel cuore. Insomma, fare una cosa del genere richiede una riflessione teorica e metodologica. A parte il fatto che si potrebbe discutere a lungo della scelta per album e non per brani. E' raro infatti che l'album rappresenti nella sua interezza un'opera conclusa e coerente. Comunque. Io preferisco procedere per classificazioni meno assolute di "I migliori dischi della nostra vita", meno generaliste. Innanzitutto credo che il numero perfetto sia il 5. Si potrebbe banalmente procedere per periodi, o per generi, o, meno banalmente, circoscrivere il campo con classifiche del tipo cosa preferisco con certi stati d'animo o in determinate situazioni e luoghi, o ancora i migliori brani che parlano, che ne so, di guerra, di città, e così via con gli argomenti più disparati. Il dibattito è aperto e comunque prometto che cercherò di postare anch'io qualche classifica.
Bono sulla strada di Jovanotti
Il commento di Neri sull'esibizione di Bono Vox degli U2 al Pavarotti & Firends su Gnueconomy diviene un malinconico 'mea culpa'. Esagera?
Gnueconomy
Il commento di Neri sull'esibizione di Bono Vox degli U2 al Pavarotti & Firends su Gnueconomy diviene un malinconico 'mea culpa'. Esagera?
Gnueconomy
Probabili formazioni e 'Tempo reale'
Stasera finale di champions Juve-Milan. Beh, qualsiasi cosa per veder perdere la Juve. O prendendo una scoppola tremenda, o giocando alla grande e subendo il gol-sconfitta al '120 dts con 5 metri di fuorigioco, sbandierati dal guardalinee, che verrà ignorato dall'arbitro.
Però sarà difficile. Juve favorita perché più solida (però senza Nedved grosso handicap). Spero in Segihno e Seedorf per un Milan all'attacco, ma è molto probabile che, trattandosi di due squadre italiane, sarà una bruttissima partita, 0 a 0 alla fine dei supplementari, o, al massimo 1 a 1. Tutti nella propria metà campo fino al '70. Che barba. Utile una rassegna dei quotidiani esteri domani. Magari ci dedico un post.
Stasera finale di champions Juve-Milan. Beh, qualsiasi cosa per veder perdere la Juve. O prendendo una scoppola tremenda, o giocando alla grande e subendo il gol-sconfitta al '120 dts con 5 metri di fuorigioco, sbandierati dal guardalinee, che verrà ignorato dall'arbitro.
Però sarà difficile. Juve favorita perché più solida (però senza Nedved grosso handicap). Spero in Segihno e Seedorf per un Milan all'attacco, ma è molto probabile che, trattandosi di due squadre italiane, sarà una bruttissima partita, 0 a 0 alla fine dei supplementari, o, al massimo 1 a 1. Tutti nella propria metà campo fino al '70. Che barba. Utile una rassegna dei quotidiani esteri domani. Magari ci dedico un post.
Tuesday, May 27, 2003
Riconoscimenti alla "Mideast Vision" di Bush
«Il sogno di Bush di un Medio Oriente trasformato non porta da nessuna parte, fin quando il mondo arabo è ossessionato dalla penosa situazione dei palestinesi. Il Bush di due anni fa non era pronto, per ragioni politiche e pratiche, a fare nessuna mossa decisa. Ma ora le condizioni sono cambiate e Bush ha una grande visione, più ampia e più rischiosa di qualunque altra sognata dai suoi predecessori. Speriamo che abbia la volontà di perseguirla». Editoriale, New York Times.
Thomas Friedman, "principe degli opinionisti liberal", ha chiesto a Bush di dire all'Arabia Saudita la verità: «Il loro antimoderno e antipluralista tipo di Islam, il wahabismo, insieme con la ricchezza petrolifera, è diventato una forza destabilizzatrice nel mondo. E che finanziare moschee e scuole che promuovono la versione meno tollerante dell'Islam, sta educando i terroristi che bruciano sia le nostre che le loro case».
«Bush in qualche modo è diventato come Clinton, che credeva che era comunque meglio tentare e fallire in un contesto pacificatore, piuttosto che non tentare per niente». Bush potrebbe farcela perché «il contesto strategico è cambiato a causa della caduta di Saddam; per aver messo gli Stati che sponsorizzano il terrorismo, come l'Iran e la Siria, sulla difensiva; e per il rafforzamento di chi come Abu Mazen sostiene che non c'è una soluzione militare a questo conflitto, ma solo negoziale». Martin Indyk, vicesegretario di Stato per gli affari mediorientali nelle Amministrazioni Clinton. Leggi tutto
Camillo
«Il sogno di Bush di un Medio Oriente trasformato non porta da nessuna parte, fin quando il mondo arabo è ossessionato dalla penosa situazione dei palestinesi. Il Bush di due anni fa non era pronto, per ragioni politiche e pratiche, a fare nessuna mossa decisa. Ma ora le condizioni sono cambiate e Bush ha una grande visione, più ampia e più rischiosa di qualunque altra sognata dai suoi predecessori. Speriamo che abbia la volontà di perseguirla». Editoriale, New York Times.
Thomas Friedman, "principe degli opinionisti liberal", ha chiesto a Bush di dire all'Arabia Saudita la verità: «Il loro antimoderno e antipluralista tipo di Islam, il wahabismo, insieme con la ricchezza petrolifera, è diventato una forza destabilizzatrice nel mondo. E che finanziare moschee e scuole che promuovono la versione meno tollerante dell'Islam, sta educando i terroristi che bruciano sia le nostre che le loro case».
«Bush in qualche modo è diventato come Clinton, che credeva che era comunque meglio tentare e fallire in un contesto pacificatore, piuttosto che non tentare per niente». Bush potrebbe farcela perché «il contesto strategico è cambiato a causa della caduta di Saddam; per aver messo gli Stati che sponsorizzano il terrorismo, come l'Iran e la Siria, sulla difensiva; e per il rafforzamento di chi come Abu Mazen sostiene che non c'è una soluzione militare a questo conflitto, ma solo negoziale». Martin Indyk, vicesegretario di Stato per gli affari mediorientali nelle Amministrazioni Clinton. Leggi tutto
Camillo
L'ora delle scelte irrevocabili si avvicina per palestinesi e israeliani
Il governo israeliano approva la road map. «Non si possono tenere tre milioni e mezzo di palestinesi sotto occupazione. E' terribile per Israele, per i palestinesi e per l'economia israeliana. 1,8 milioni di palestinesi vivono di aiuti umanitari da organizzazioni internazionali. Volete esserne responsabili? Non credo sia giusto controllare Betlemme o Ramallah». Ariel Sharon
Ecco come tutte le ipotesi di pace girano intorno alle questioni del "territorio" e della "demografia".
Per palestinesi e israeliani i "richiami primordiali alle identità" nazionali, i due inconciliabili nazionalismi, sono giustificabili, anzi legittimi, come lo furono per noi. Ma fino al punto di sacrificare su quell'altare pace, modernità, sviluppo economico e benessere? Leggi tutto
Il Foglio
Il governo israeliano approva la road map. «Non si possono tenere tre milioni e mezzo di palestinesi sotto occupazione. E' terribile per Israele, per i palestinesi e per l'economia israeliana. 1,8 milioni di palestinesi vivono di aiuti umanitari da organizzazioni internazionali. Volete esserne responsabili? Non credo sia giusto controllare Betlemme o Ramallah». Ariel Sharon
Ecco come tutte le ipotesi di pace girano intorno alle questioni del "territorio" e della "demografia".
Per palestinesi e israeliani i "richiami primordiali alle identità" nazionali, i due inconciliabili nazionalismi, sono giustificabili, anzi legittimi, come lo furono per noi. Ma fino al punto di sacrificare su quell'altare pace, modernità, sviluppo economico e benessere? Leggi tutto
Il Foglio
Questione di abilità aritmetiche
L'unica cosa da dire che mi viene in mente dopo queste elezioni è che in Italia il voto non si sposta, rimane un forte voto di appartenenza, anche a causa delle campagne elettorali cui siamo costretti da entrambi gli schieramenti. Cari amici, votiamo sempre allo stesso modo, non ci informiamo, non guardiamo in faccia i candidati, non ci accorgiamo dei successi/insuccessi delle precedenti amministrazioni o degli attuali Governi, non distinguiamo la credibilità o l'assenza di credibilità delle varie armate brancaleone. Dal 1994 i rapporti di forza sono sempre gli stessi. Con Rifondazione il centrosinistra acchiappa, con la Lega e al sud vince la Casa delle Libertà. Così, chi ci governa non dipende da noi, ma dall'"abilità aritmetica" dei partiti.
L'unica cosa da dire che mi viene in mente dopo queste elezioni è che in Italia il voto non si sposta, rimane un forte voto di appartenenza, anche a causa delle campagne elettorali cui siamo costretti da entrambi gli schieramenti. Cari amici, votiamo sempre allo stesso modo, non ci informiamo, non guardiamo in faccia i candidati, non ci accorgiamo dei successi/insuccessi delle precedenti amministrazioni o degli attuali Governi, non distinguiamo la credibilità o l'assenza di credibilità delle varie armate brancaleone. Dal 1994 i rapporti di forza sono sempre gli stessi. Con Rifondazione il centrosinistra acchiappa, con la Lega e al sud vince la Casa delle Libertà. Così, chi ci governa non dipende da noi, ma dall'"abilità aritmetica" dei partiti.
Sunday, May 25, 2003
Nuove istituzioni europee/3. La riforma comunitaria. Verso la visione federale?
Attualmente le istituzioni europee rappresentano un modello lontano da quello della separazione dei poteri. Piuttosto si tratta di una divisione dei poteri e di una sovranità condivisa. Il potere legislativo è nelle mani del Parlamento europeo, ma anche del Consiglio, mentre quest’ultimo divide con la Commissione europea il potere esecutivo. Tutto si regge sulla Commissione europea, che svolge funzioni esecutive, una parte della funzione legislativa, oltre a fondamentali funzioni quasi giurisdizionali, con la sua facoltà di sanzionare i comportamenti degli Stati che infrangono i patti comunitari. La sua legittimità risiede nell’investitura dei capi di Stato o di governo e del Parlamento europeo, ma di fatto è una forza sopranazionale e indipendente, guidata dall’interesse comune, e rappresenta la sintesi e la valutazione dell’interesse generale, mentre gli interessi degli Stati membri sono spesso paralleli e talvolta divergenti. L’assetto comunitario ha ottenuto ottimi risultati, soprattutto per l’Unione economica. Tuttavia la sua legittimità democratica appare insufficiente ad un progressivo allargamento delle competenze dell’Unione a settori nuovi come la sicurezza, la giustizia e i compiti di polizia, la politica estera e di difesa, ingredienti di un’Unione anche politica. Proprio a fronte dell’ampiezza dei suoi compiti, sempre più in espansione, la Commissione europea dispone solo di una legittimità indiretta, fragile, sia di fronte al Parlamento europeo, sia di fronte al Consiglio, formato dai governi democraticamente eletti. Una riforma della Commissione potrebbe dotarla di una legittimità democratica diretta, e non delegata, per esempio con l’elezione del suo presidente, di un potere di decisione esercitato in forma collegiale nelle stesse materie sui cui agiscono oggi i Governi degli Stati membri sui propri territori nazionali. A questo livello di legittimità si potrebbe prevedere un diritto di scioglimento dell’assemblea, ad opera del presidente della Commissione previo accordo del Consiglio europeo, oppure ad opera del Consiglio europeo su proposta del presidente della Commissione. In un assetto del genere l’Alto rappresentante dell’Unione europea per la politica estera e di sicurezza comune potrebbe far parte della Commissione, probabilmente nella posizione particolare di primo vicepresidente. Ovvio che riformare in questo senso la Commissione imporrebbe una riforma e un ripensamento radicali anche dei poteri del Parlamento e del Consiglio europeo, ma soprattutto mi sembra di scorgere in tale ipotetico nuovo assetto comunitario una rilevante vicinanza alle caratteristiche tipiche di un’Unione federale. Potrebbe costituire un passo deciso verso la “visione federale”, o rappresentare un nuovo modello federale prettamente europeo.
Attualmente le istituzioni europee rappresentano un modello lontano da quello della separazione dei poteri. Piuttosto si tratta di una divisione dei poteri e di una sovranità condivisa. Il potere legislativo è nelle mani del Parlamento europeo, ma anche del Consiglio, mentre quest’ultimo divide con la Commissione europea il potere esecutivo. Tutto si regge sulla Commissione europea, che svolge funzioni esecutive, una parte della funzione legislativa, oltre a fondamentali funzioni quasi giurisdizionali, con la sua facoltà di sanzionare i comportamenti degli Stati che infrangono i patti comunitari. La sua legittimità risiede nell’investitura dei capi di Stato o di governo e del Parlamento europeo, ma di fatto è una forza sopranazionale e indipendente, guidata dall’interesse comune, e rappresenta la sintesi e la valutazione dell’interesse generale, mentre gli interessi degli Stati membri sono spesso paralleli e talvolta divergenti. L’assetto comunitario ha ottenuto ottimi risultati, soprattutto per l’Unione economica. Tuttavia la sua legittimità democratica appare insufficiente ad un progressivo allargamento delle competenze dell’Unione a settori nuovi come la sicurezza, la giustizia e i compiti di polizia, la politica estera e di difesa, ingredienti di un’Unione anche politica. Proprio a fronte dell’ampiezza dei suoi compiti, sempre più in espansione, la Commissione europea dispone solo di una legittimità indiretta, fragile, sia di fronte al Parlamento europeo, sia di fronte al Consiglio, formato dai governi democraticamente eletti. Una riforma della Commissione potrebbe dotarla di una legittimità democratica diretta, e non delegata, per esempio con l’elezione del suo presidente, di un potere di decisione esercitato in forma collegiale nelle stesse materie sui cui agiscono oggi i Governi degli Stati membri sui propri territori nazionali. A questo livello di legittimità si potrebbe prevedere un diritto di scioglimento dell’assemblea, ad opera del presidente della Commissione previo accordo del Consiglio europeo, oppure ad opera del Consiglio europeo su proposta del presidente della Commissione. In un assetto del genere l’Alto rappresentante dell’Unione europea per la politica estera e di sicurezza comune potrebbe far parte della Commissione, probabilmente nella posizione particolare di primo vicepresidente. Ovvio che riformare in questo senso la Commissione imporrebbe una riforma e un ripensamento radicali anche dei poteri del Parlamento e del Consiglio europeo, ma soprattutto mi sembra di scorgere in tale ipotetico nuovo assetto comunitario una rilevante vicinanza alle caratteristiche tipiche di un’Unione federale. Potrebbe costituire un passo deciso verso la “visione federale”, o rappresentare un nuovo modello federale prettamente europeo.
Nuove istituzioni europee/2. L’ipotesi intergovernativa
La logica di un’evoluzione intergovernativa porterebbe ad un chiaro e definitivo passaggio del potere esecutivo al Consiglio europeo o ad uno dei suoi membri, un superpresidente, designato dal Consiglio stesso per presiedere l’Unione e dirigere l’azione del Consiglio. La Commissione europea si trasformerebbe in una semplice amministrazione guidata dal presidente. Nessun cambiamento rilevante sarebbe previsto per il potere legislativo, che potrebbe essere svolto dall’attuale Parlamento. Una soluzione che vedrebbe racchiudere nella figura del superpresidente dell’Unione gli equilibri politici e gli interessi degli Stati più forti e risolvere le questioni degli interessi nazionali collegialmente all’interno del Consiglio, per giungere ad una politica comune, anche estera e di difesa, che rappresenti l’interesse collettivo. La difesa degli interessi comunitari, di cui si cura ora la Commissione europea, dovrebbe essere assicurata da un’istituzione giudiziaria, indipendente dagli Stati membri e dal Consiglio, investita della missione fondamentale di “custode dei trattati”, compito che finora spetta alla Commissione. Sarebbe questo il metodo pragmatico per conciliare le diverse politiche degli Stati membri direttamente in Consiglio, visto che già ora la Commissione è spesso in difficoltà nel coordinamento interno e deve fare appello all’autorità politica dei Governi che siedono in Consiglio, nel quale si procede su una base consensuale. Il rischio è quello di un ritorno al “ciascuno per sé” e di un accentuarsi delle divisioni delle voci, soprattutto in materia di politica estera e di difesa, dove il cammino appare più in salita. Le norme, le direttive, gli obiettivi, le politiche sarebbero forse più “flessibili” e più efficaci dei “rigidi” patti odierni.
La logica di un’evoluzione intergovernativa porterebbe ad un chiaro e definitivo passaggio del potere esecutivo al Consiglio europeo o ad uno dei suoi membri, un superpresidente, designato dal Consiglio stesso per presiedere l’Unione e dirigere l’azione del Consiglio. La Commissione europea si trasformerebbe in una semplice amministrazione guidata dal presidente. Nessun cambiamento rilevante sarebbe previsto per il potere legislativo, che potrebbe essere svolto dall’attuale Parlamento. Una soluzione che vedrebbe racchiudere nella figura del superpresidente dell’Unione gli equilibri politici e gli interessi degli Stati più forti e risolvere le questioni degli interessi nazionali collegialmente all’interno del Consiglio, per giungere ad una politica comune, anche estera e di difesa, che rappresenti l’interesse collettivo. La difesa degli interessi comunitari, di cui si cura ora la Commissione europea, dovrebbe essere assicurata da un’istituzione giudiziaria, indipendente dagli Stati membri e dal Consiglio, investita della missione fondamentale di “custode dei trattati”, compito che finora spetta alla Commissione. Sarebbe questo il metodo pragmatico per conciliare le diverse politiche degli Stati membri direttamente in Consiglio, visto che già ora la Commissione è spesso in difficoltà nel coordinamento interno e deve fare appello all’autorità politica dei Governi che siedono in Consiglio, nel quale si procede su una base consensuale. Il rischio è quello di un ritorno al “ciascuno per sé” e di un accentuarsi delle divisioni delle voci, soprattutto in materia di politica estera e di difesa, dove il cammino appare più in salita. Le norme, le direttive, gli obiettivi, le politiche sarebbero forse più “flessibili” e più efficaci dei “rigidi” patti odierni.
Nuove istituzioni europee/1. La visione federale
L’idea di un Europa federale non è nuova. Espressa fin dagli anni ‘30, poi subito dopo la guerra e ispirando molti dei fondatori della costruzione europea, l’idea di dar vita agli “Stati Uniti d’Europa” non è mai stata abbandonata. Tuttavia un’unione federale dovrebbe naturalmente comportare un potere esecutivo scelto dagli elettori, per esempio un presidente eletto da tutti i cittadini europei, a capo di un’amministrazione federale forte, magari l’attuale Commissione europea, una compagine governativa formata nel rispetto dei grandi equilibri nazionali e politici. Poi dovrebbe esser previsto un Parlamento bicamerale, nel quale il potere legislativo verrebbe esercitato da entrambe le camere, e ciascuna disporrebbe del diritto di iniziativa legislativa. Una di queste, il Parlamento, dovrebbe essere eletto a livello dell’Unione, su liste europee, mediante una procedura elettorale uniforme. L’altra sarebbe una “Camera delle nazioni”, che rappresenta gli Stati e i cui membri potrebbero quindi essere designati dai Parlamenti e dai Governi nazionali. La Corte di Giustizia europea sarebbe una “corte suprema” a pieno titolo, custode e un interprete della Costituzione, ultima istanza per dirimere controversie e preservare la divisione netta di competenze fra l’Unione federale e gli Stati nazione.
L’idea di un Europa federale non è nuova. Espressa fin dagli anni ‘30, poi subito dopo la guerra e ispirando molti dei fondatori della costruzione europea, l’idea di dar vita agli “Stati Uniti d’Europa” non è mai stata abbandonata. Tuttavia un’unione federale dovrebbe naturalmente comportare un potere esecutivo scelto dagli elettori, per esempio un presidente eletto da tutti i cittadini europei, a capo di un’amministrazione federale forte, magari l’attuale Commissione europea, una compagine governativa formata nel rispetto dei grandi equilibri nazionali e politici. Poi dovrebbe esser previsto un Parlamento bicamerale, nel quale il potere legislativo verrebbe esercitato da entrambe le camere, e ciascuna disporrebbe del diritto di iniziativa legislativa. Una di queste, il Parlamento, dovrebbe essere eletto a livello dell’Unione, su liste europee, mediante una procedura elettorale uniforme. L’altra sarebbe una “Camera delle nazioni”, che rappresenta gli Stati e i cui membri potrebbero quindi essere designati dai Parlamenti e dai Governi nazionali. La Corte di Giustizia europea sarebbe una “corte suprema” a pieno titolo, custode e un interprete della Costituzione, ultima istanza per dirimere controversie e preservare la divisione netta di competenze fra l’Unione federale e gli Stati nazione.
Saturday, May 24, 2003
Da Enrico Letta contributo al dibattito sulla Convenzione europea
Sono venuti al pettine i nodi alla Convenzione europea per la carta che dovrà dare un nuovo volto alle istituzioni dell'Unone. Tre modelli-visioni si confrontano: intergovernativo, comunitario, federale. Domani pubblicherò una nota.
L'Italia può far perdere la partita all'Europa. Questa la riflessione, chiara e interessante, di Enrico Letta su il Riformista. Secondo il responsabile ecomomico della Margherita, che qualcuno vorrebbe a sfidare il Berlusca come candidato premier alle prossime politiche, «l'Italia è un Paese troppo debole per giocare la carta 'sovranista'» e quindi «se Berlusconi sceglie il metodo intergovernativo tradisce l'interesse nazionale e ci fa più fragili». In effetti il Governo italiano è decisamente orientato a sostenere il modello intergovernativo, preferito dai Paesi più grandi, che è anche la linea Giscard-Amato, mentre Letta sostiene quello comunitario, incarnato dal ruolo della Commissione e quindi sponsorizzato da Prodi. Sull'argomento non ho idee ben definite e nette. L'intergovernativo sembra il modello più cauto e pragmatico, quello comunitario pecca di burocratismo da superStato, mentre quello federale sembrerebbe il più democratico e partecipativo, ma è anche il più ambizioso. Vedremo.
il Riformista
Di seguito invece, «le buone ragioni che spingono il governo italiano e Giuliano Amato a optare per un'Europa intergovernativa»: Giscard sì, Prodi no. Per Amato, un'Europa politica non potrebbe essere governata secondo le stesse regole di quella economica.
Il Foglio
Secondo Franco Bernabè, parlando a Il Foglio dei problemi euroatlantici, "la salvezza può venire solo dalla Convenzione, sulla linea Giscard-Amato".
Sono venuti al pettine i nodi alla Convenzione europea per la carta che dovrà dare un nuovo volto alle istituzioni dell'Unone. Tre modelli-visioni si confrontano: intergovernativo, comunitario, federale. Domani pubblicherò una nota.
L'Italia può far perdere la partita all'Europa. Questa la riflessione, chiara e interessante, di Enrico Letta su il Riformista. Secondo il responsabile ecomomico della Margherita, che qualcuno vorrebbe a sfidare il Berlusca come candidato premier alle prossime politiche, «l'Italia è un Paese troppo debole per giocare la carta 'sovranista'» e quindi «se Berlusconi sceglie il metodo intergovernativo tradisce l'interesse nazionale e ci fa più fragili». In effetti il Governo italiano è decisamente orientato a sostenere il modello intergovernativo, preferito dai Paesi più grandi, che è anche la linea Giscard-Amato, mentre Letta sostiene quello comunitario, incarnato dal ruolo della Commissione e quindi sponsorizzato da Prodi. Sull'argomento non ho idee ben definite e nette. L'intergovernativo sembra il modello più cauto e pragmatico, quello comunitario pecca di burocratismo da superStato, mentre quello federale sembrerebbe il più democratico e partecipativo, ma è anche il più ambizioso. Vedremo.
il Riformista
Di seguito invece, «le buone ragioni che spingono il governo italiano e Giuliano Amato a optare per un'Europa intergovernativa»: Giscard sì, Prodi no. Per Amato, un'Europa politica non potrebbe essere governata secondo le stesse regole di quella economica.
Il Foglio
Secondo Franco Bernabè, parlando a Il Foglio dei problemi euroatlantici, "la salvezza può venire solo dalla Convenzione, sulla linea Giscard-Amato".
Magdi Allam sull'estremismo islamico in Italia
Un'intelligente analisi fatta da Magdi Allam su 'la Repubblica' dell'Islam in Italia e dei pericoli che vi si nascondono, partendo dalla dichiarazione di intenti del ministro degli Interni Giuseppe Pisanu. "La sfida ai profeti di violenza nelle moschee".
Per gli estremisti islamici «l'uso della forza contro i regimi tacciati d'apostasia o considerati "infedeli" viene considerato legittimo: ciò avviene in Palestina ed è avvenuto in Algeria».
Cosa fare? «I luoghi di culto dovrebbero avere un rapporto organico con le istituzioni pubbliche, visto che la gran parte dei fedeli si reca nei templi solo per pregare».
la Repubblica
Un'intelligente analisi fatta da Magdi Allam su 'la Repubblica' dell'Islam in Italia e dei pericoli che vi si nascondono, partendo dalla dichiarazione di intenti del ministro degli Interni Giuseppe Pisanu. "La sfida ai profeti di violenza nelle moschee".
Per gli estremisti islamici «l'uso della forza contro i regimi tacciati d'apostasia o considerati "infedeli" viene considerato legittimo: ciò avviene in Palestina ed è avvenuto in Algeria».
Cosa fare? «I luoghi di culto dovrebbero avere un rapporto organico con le istituzioni pubbliche, visto che la gran parte dei fedeli si reca nei templi solo per pregare».
la Repubblica
L'Onu dà carta bianca alla 'coalizione dei volenterosi'
L'Onu ha dunque revocato, con risoluzione unanime del Consiglio di Sicurezza, le sanzioni economiche che gravavano da 13 anni sull'Iraq (qui la notizia). Nel recensire Rep. di Rocca su Il Foglio si fa notare: «Pensate allora che 'la Repubblica' abbia fatto un titolone sulla marcia indietro & capo cosparso di cenere di Francia e Germania? No, un richiamino piccino piccino, e un editorialone di Bernardo Valli dal titolo inequivocabilmente nun-ce-vonno-sta: "Il realismo dell'Europa davanti a Bush il vincitore".
Camillo
Piacerebbe a Valli, invece no: hanno dovuto 'abbassare la cresta'. Chi si è messo di traverso in vario modo, dissentendo (come la Germania), o addirittura ostacolando (come la Francia) la liberazione dell'Iraq oggi risente di un forte isolamento. Riconoscenti con gli amici, benevoli con i 'figliol prodighi' Russia e Germania, già autori-attori di gesti di riconciliazione e di ritorno sulla retta via, gli Stati Uniti si mostrano più duri nei confronti della Francia e dell'Onu. Ora Bush e Blair hanno la forza per far approvare ciò che vogliono, pur con stile e senza arroganza, e, a causa di quel meritato isolamento dello scellerato asse franco-russo-tedesco, il peso dell'influenza europea sul corso degli eventi internazionali e sulla politica di Bush è ai minimi storici. Più che di "realismo", Valli dovrebbe parlare di necessità fatta virtù, se non di 'abbassa la cresta'. Il solo Blair porta sulle spalle la responsabilità di quell'essenziale ruolo di influenza europea sulla politica Usa.
La risoluzione accoglie le richieste angloamericane: fine a 13 anni di sanzioni e, quindi, del controllo Onu (leggi Francia-Russia) sul petrolio iracheno (il ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer ha ribadito, fin dal principio e fino all'ultimo, che ormai non avevano "più alcun senso"), prende atto che a gestire il dopoguerra (e il ritorno sui mercati del greggio) saranno americani e britannici, concesso all'Onu un ruolo non solo negli aiuti umanitari, ma anche nella ricostruzione delle Istituzioni, con un proprio rappresentante fidato e gradito a Washington, Sergio Vieira de Mello, il brasiliano distintosi a Timor.
Con stile, si diceva, niente arroganze: «La risoluzione è stata discussa con tutti e limata per giorni, il voto ha subito il canonico ritardo dell'ultima ora che fa sentire così importanti ambasciatori e delegati». I russi hanno ottenuto alcune rassicurazioni per i contratti approvati sotto Saddam, ma niente ai francesi, che «avevano cercato di contrastare la fine delle sanzioni tramite il capziosissimo argomento della mancata certificazione, da parte degli ispettori Onu, dell'assenza di armi di distruzione di massa». «Alla fine nessuna data viene stabilita per il ritiro delle truppe angloamericane dall'Iraq (un anno al massimo, voleva la Francia): "E ci mancherebbe altro – sorride un diplomatico americano – dopo che i francesi si erano sempre rifiutati di fissare scadenze ultimative per le ispezioni, ora vorrebbero impiccare noi a un termine perentorio". L'unica gentile concessione è il permesso al Consiglio di sicurezza di tornare sulla materia fra un anno, per discutere su come la risoluzione sia stata attuata». Dunque, «carta bianca alla 'coalizione dei volenterosi'». Leggi tutto
Tuttavia, fa notare su Il Foglio Franco Bernabè, che fa parte del board del Council on Foreign Relations tra Europa e Stati Uniti la frattura è molto seria.
Il Foglio
L'Onu ha dunque revocato, con risoluzione unanime del Consiglio di Sicurezza, le sanzioni economiche che gravavano da 13 anni sull'Iraq (qui la notizia). Nel recensire Rep. di Rocca su Il Foglio si fa notare: «Pensate allora che 'la Repubblica' abbia fatto un titolone sulla marcia indietro & capo cosparso di cenere di Francia e Germania? No, un richiamino piccino piccino, e un editorialone di Bernardo Valli dal titolo inequivocabilmente nun-ce-vonno-sta: "Il realismo dell'Europa davanti a Bush il vincitore".
Camillo
Piacerebbe a Valli, invece no: hanno dovuto 'abbassare la cresta'. Chi si è messo di traverso in vario modo, dissentendo (come la Germania), o addirittura ostacolando (come la Francia) la liberazione dell'Iraq oggi risente di un forte isolamento. Riconoscenti con gli amici, benevoli con i 'figliol prodighi' Russia e Germania, già autori-attori di gesti di riconciliazione e di ritorno sulla retta via, gli Stati Uniti si mostrano più duri nei confronti della Francia e dell'Onu. Ora Bush e Blair hanno la forza per far approvare ciò che vogliono, pur con stile e senza arroganza, e, a causa di quel meritato isolamento dello scellerato asse franco-russo-tedesco, il peso dell'influenza europea sul corso degli eventi internazionali e sulla politica di Bush è ai minimi storici. Più che di "realismo", Valli dovrebbe parlare di necessità fatta virtù, se non di 'abbassa la cresta'. Il solo Blair porta sulle spalle la responsabilità di quell'essenziale ruolo di influenza europea sulla politica Usa.
La risoluzione accoglie le richieste angloamericane: fine a 13 anni di sanzioni e, quindi, del controllo Onu (leggi Francia-Russia) sul petrolio iracheno (il ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer ha ribadito, fin dal principio e fino all'ultimo, che ormai non avevano "più alcun senso"), prende atto che a gestire il dopoguerra (e il ritorno sui mercati del greggio) saranno americani e britannici, concesso all'Onu un ruolo non solo negli aiuti umanitari, ma anche nella ricostruzione delle Istituzioni, con un proprio rappresentante fidato e gradito a Washington, Sergio Vieira de Mello, il brasiliano distintosi a Timor.
Con stile, si diceva, niente arroganze: «La risoluzione è stata discussa con tutti e limata per giorni, il voto ha subito il canonico ritardo dell'ultima ora che fa sentire così importanti ambasciatori e delegati». I russi hanno ottenuto alcune rassicurazioni per i contratti approvati sotto Saddam, ma niente ai francesi, che «avevano cercato di contrastare la fine delle sanzioni tramite il capziosissimo argomento della mancata certificazione, da parte degli ispettori Onu, dell'assenza di armi di distruzione di massa». «Alla fine nessuna data viene stabilita per il ritiro delle truppe angloamericane dall'Iraq (un anno al massimo, voleva la Francia): "E ci mancherebbe altro – sorride un diplomatico americano – dopo che i francesi si erano sempre rifiutati di fissare scadenze ultimative per le ispezioni, ora vorrebbero impiccare noi a un termine perentorio". L'unica gentile concessione è il permesso al Consiglio di sicurezza di tornare sulla materia fra un anno, per discutere su come la risoluzione sia stata attuata». Dunque, «carta bianca alla 'coalizione dei volenterosi'». Leggi tutto
Tuttavia, fa notare su Il Foglio Franco Bernabè, che fa parte del board del Council on Foreign Relations tra Europa e Stati Uniti la frattura è molto seria.
Il Foglio
Friday, May 23, 2003
'Sars' Von Trier spaventa Gnueconomy
Di sicuro Neri non vedrà il nuovo film di 'Sars' Von Trier presentato a Cannes. Qui ci spiega perché. Io sottoscrivo.
Gnueconomy
Di sicuro Neri non vedrà il nuovo film di 'Sars' Von Trier presentato a Cannes. Qui ci spiega perché. Io sottoscrivo.
Gnueconomy
Thursday, May 22, 2003
Matrix2 la ricarica
Attenzione amici! Camillo ha ben 10 motivi per non andare a vedere Matrix2, detto 'la ricarica'. E quasi tutti sono ottimi, inquietanti motivi. qui
Attenzione amici! Camillo ha ben 10 motivi per non andare a vedere Matrix2, detto 'la ricarica'. E quasi tutti sono ottimi, inquietanti motivi. qui
City of God
Ieri sera sono andato al cinema con i miei colleghi, il film era brasiliano, 'City of God', la Città di Dio, regista Fernando Meirelles, tratto dal romanzo di Paulo Lins. Ve lo consiglio davvero. A tutti gli scettici delle produzioni 'esotiche', delle storie di miseria dai paesi del terzo mondo, agli amanti dell'azione spettacolare dico: andate a vederlo, non rimarrete delusi. Per fortuna non annoia con la solita 'probbblematica sociale' e di denuncia forse per questo 'la Repubblica' ne parla male, o forse perché, mi suggerisce robba, nell'era di Lula le condizioni di vita nelle favelas sono 'ovviamente' migliorate).
La Città di Dio è una delle favelas più misere e malfamate di Rio de Janeiro, nella quale si svolse una cruenta guerra tra bande di adolescenti e bambini. Buscapé non è un ragazzo violento, ma è nato e cresciuto nella favela e ci racconta come andarono le cose. Montaggio frenetico, regia veloce, scene dure e violente che non impediscono ai personaggi di mostrare la loro umanità e il loro vigore giovanile. Ispirato, tra Pulp Fiction e Gangs of New York, anche per le scelte narrative.
Ieri sera sono andato al cinema con i miei colleghi, il film era brasiliano, 'City of God', la Città di Dio, regista Fernando Meirelles, tratto dal romanzo di Paulo Lins. Ve lo consiglio davvero. A tutti gli scettici delle produzioni 'esotiche', delle storie di miseria dai paesi del terzo mondo, agli amanti dell'azione spettacolare dico: andate a vederlo, non rimarrete delusi. Per fortuna non annoia con la solita 'probbblematica sociale' e di denuncia forse per questo 'la Repubblica' ne parla male, o forse perché, mi suggerisce robba, nell'era di Lula le condizioni di vita nelle favelas sono 'ovviamente' migliorate).
La Città di Dio è una delle favelas più misere e malfamate di Rio de Janeiro, nella quale si svolse una cruenta guerra tra bande di adolescenti e bambini. Buscapé non è un ragazzo violento, ma è nato e cresciuto nella favela e ci racconta come andarono le cose. Montaggio frenetico, regia veloce, scene dure e violente che non impediscono ai personaggi di mostrare la loro umanità e il loro vigore giovanile. Ispirato, tra Pulp Fiction e Gangs of New York, anche per le scelte narrative.
Wednesday, May 21, 2003
Qualcosa 'di sinistra'. I Socialdemocratici americani
Il documento riportato di seguito è stato scritto dai 'Social Democrats' americani, «un piccolo partito di sinistra, più a sinistra dei Democratici, nato dalle ceneri del vecchio Partito Socialista americano di Eugene Debs e Norman Thomas. La settimana scorsa i Social Democrats, che fanno parte dell'Internazionale Socialista insieme con i Ds italiani, hanno organizzato a Washington un convegno su come ricostruire la sinistra americana».
Purtroppo in Italia avverto la mancanza di una vera alternativa di sinistra e, a quanto pare, questi socialdemocrats la avvertono anche negli Usa. Non dico che la sinistra italiana dovrebbe prenderli a modello, ma certo dovrebbe rinnovare la sua cultura politica, e farlo in fretta, o quanto meno iniziare un processo in tal senso, guardando con più attenzione a idee come queste, avendo come riferimento più Tony Blair che non i Movimenti o Cofferati.
Obiettivi del momento: «Sostenere il capitalismo, il libero commercio e insieme rafforzare il sindacato e la tutela dei lavoratori, mentre all'estero diffondere la libertà e la democrazia».
Modello: Franklin Delano Roosevelt (e, oggi, Tony Blair).
Le critiche alla sinistra: «Manca una piattaforma chiara e vincente, c'è bisogno di una 'vision'». No allo "stridente antiamericanismo" e alla "magnanimità nei confronti delle dittature dei paesi del terzo mondo da parte di chi proclama di parlare in nome della sinistra". Questa posizione alimenta "ancora una volta l'impressione che alla sinistra non importi nulla della libertà".
Questo il documento dei socialdemocratici, preparato nel mese di maggio 2003 da una sottocommissione del National Committee of Social Democrats, Usa, per essere usato nelle discussioni sull'approvazione di risoluzioni e per un programma d'azione in vista di un incontro che si terrà alla fine dell'autunno o nell'inverno 2003. Il documento non rappresenta una dichiarazione ufficiale da parte dell'organizzazione.
Camillo
Il documento riportato di seguito è stato scritto dai 'Social Democrats' americani, «un piccolo partito di sinistra, più a sinistra dei Democratici, nato dalle ceneri del vecchio Partito Socialista americano di Eugene Debs e Norman Thomas. La settimana scorsa i Social Democrats, che fanno parte dell'Internazionale Socialista insieme con i Ds italiani, hanno organizzato a Washington un convegno su come ricostruire la sinistra americana».
Purtroppo in Italia avverto la mancanza di una vera alternativa di sinistra e, a quanto pare, questi socialdemocrats la avvertono anche negli Usa. Non dico che la sinistra italiana dovrebbe prenderli a modello, ma certo dovrebbe rinnovare la sua cultura politica, e farlo in fretta, o quanto meno iniziare un processo in tal senso, guardando con più attenzione a idee come queste, avendo come riferimento più Tony Blair che non i Movimenti o Cofferati.
Obiettivi del momento: «Sostenere il capitalismo, il libero commercio e insieme rafforzare il sindacato e la tutela dei lavoratori, mentre all'estero diffondere la libertà e la democrazia».
Modello: Franklin Delano Roosevelt (e, oggi, Tony Blair).
Le critiche alla sinistra: «Manca una piattaforma chiara e vincente, c'è bisogno di una 'vision'». No allo "stridente antiamericanismo" e alla "magnanimità nei confronti delle dittature dei paesi del terzo mondo da parte di chi proclama di parlare in nome della sinistra". Questa posizione alimenta "ancora una volta l'impressione che alla sinistra non importi nulla della libertà".
Questo il documento dei socialdemocratici, preparato nel mese di maggio 2003 da una sottocommissione del National Committee of Social Democrats, Usa, per essere usato nelle discussioni sull'approvazione di risoluzioni e per un programma d'azione in vista di un incontro che si terrà alla fine dell'autunno o nell'inverno 2003. Il documento non rappresenta una dichiarazione ufficiale da parte dell'organizzazione.
Camillo
Ordine-potere giudiziario. Elementi di un dissesto del diritto
Dopo 7 anni di detenzione Enzo Brusca, il mafioso (tanto per rinfrescarci la memoria) che uccise con le sue mani un ragazzo di 11 anni e lo sciolse nell'acido, perché figlio di un pentito, è stato scarcerato dal Tribunale di Sorveglianza di Roma e sarà agli arresti domiciliari a spese dello Stato.
Perché? Avrà maturato, pensiamo, i requisiti fissati dalla legge (i cui aspetti di clemenza, per quanto non ci possa far piacere, vanno applicati anche per il 'cittadino Brusca'). Invece no. Il pm Alfonso Sabella motiva così la decisione: Brusca ora è "buono". Avete capito bene, sì. Dice, ci assicura, che è "buono". Sconvolgente! E' colpa del padre, che era cattivo perché lo rimproverava. Il suo pentimento "vero" e "genuino". Bene, questa la cultura giuridica della magistratura qui da noi in Italia: le leggi sono superflue quando i giudizi sono morali.
Demagogia
E ora voglio essere demagogico. La 'gente' è schifata, non ne può più, non ci crede più, e se qualche governo (voglia il Signore) vorrà smantellare questo insulso ordinamento giudiziario, faccia pure. A nessuno importa che fine farà questa manica di privilegiati, questa casta di incompetenti, azzeccagarbugli, politicizzati, golpisti, sono la vergogna di uno Stato di diritto.
RadioRadicale.it ricorda il caso Tortora.
Dopo 7 anni di detenzione Enzo Brusca, il mafioso (tanto per rinfrescarci la memoria) che uccise con le sue mani un ragazzo di 11 anni e lo sciolse nell'acido, perché figlio di un pentito, è stato scarcerato dal Tribunale di Sorveglianza di Roma e sarà agli arresti domiciliari a spese dello Stato.
Perché? Avrà maturato, pensiamo, i requisiti fissati dalla legge (i cui aspetti di clemenza, per quanto non ci possa far piacere, vanno applicati anche per il 'cittadino Brusca'). Invece no. Il pm Alfonso Sabella motiva così la decisione: Brusca ora è "buono". Avete capito bene, sì. Dice, ci assicura, che è "buono". Sconvolgente! E' colpa del padre, che era cattivo perché lo rimproverava. Il suo pentimento "vero" e "genuino". Bene, questa la cultura giuridica della magistratura qui da noi in Italia: le leggi sono superflue quando i giudizi sono morali.
Demagogia
E ora voglio essere demagogico. La 'gente' è schifata, non ne può più, non ci crede più, e se qualche governo (voglia il Signore) vorrà smantellare questo insulso ordinamento giudiziario, faccia pure. A nessuno importa che fine farà questa manica di privilegiati, questa casta di incompetenti, azzeccagarbugli, politicizzati, golpisti, sono la vergogna di uno Stato di diritto.
RadioRadicale.it ricorda il caso Tortora.
Da noi non fa notizia
Beit Hanoun - Centinaia di palestinesi a Gaza protestano contro i militanti di Hamas. Ma questo in Italia non fa notizia.
"They (the militants) claim they are heroes," said Mohammed Zaaneen, 30, a farmer, as he carried rocks into the street. "They brought us only destruction and made us homeless. They used our farms, our houses and our children ... to hide".La notizia
che l'Ansa dà solo oggi, ma i fatti sono accaduti ieri.
Rainews24.it censura anche oggi, RadioRadicale.it invece.
1972
Beit Hanoun - Centinaia di palestinesi a Gaza protestano contro i militanti di Hamas. Ma questo in Italia non fa notizia.
"They (the militants) claim they are heroes," said Mohammed Zaaneen, 30, a farmer, as he carried rocks into the street. "They brought us only destruction and made us homeless. They used our farms, our houses and our children ... to hide".La notizia
che l'Ansa dà solo oggi, ma i fatti sono accaduti ieri.
Rainews24.it censura anche oggi, RadioRadicale.it invece.
1972
Tuesday, May 20, 2003
Estremismo islamico/1. Il Medio Oriente impari dall'Africa
"Non siamo bambini incapaci di esprimere un'azione e un pensiero autonomo. Nel bene e nel male siamo adulti".
Guglielmo Verdirame su Il Foglio scriveva del "bello" e del "brutto" dell'Africa, individuando uno dei principali problemi in quello che definisce "pregiudizio eurocentrico" e che sarebbe anche la chiave di lettura dei sentimenti antioccidentali nel mondo arabo. L'articolo è molto lungo, ecco un estratto.
«Nei paesi sub-sahariani, pur essendo le colpe dell'Occidente maggiori che in Medio Oriente, la mentalità del capro espiatorio non si è affermata nella stessa misura. Hanno tentato alcuni intellettuali europei di tendere la stessa trappola e di far credere agli africani che tutto fosse colpa dell'Occidente, ma hanno spesso incontrato resistenza: non dimenticherò l'applauso fragoroso che accolse a Nairobi il commento di un collega africano alla relazione di un politologo europeo che attribuiva le responsabilità per tutto ciò che andava male in Africa all'Occidente: "Non vi rendete conto che queste tesi sono in fin dei conti razziste? I rapporti tra mondo occidentale e Africa sono molto più complessi e, comunque, dobbiamo tutti quanti smetterla di esagerare il ruolo dei fattori esterni: in Rwanda a uccidere furono ruandesi. Non siamo bambini incapaci di esprimere un'azione e un pensiero autonomo. Nel bene e nel male siamo adulti"». Eccolo quel pregiudizio: «Che l'Occidente, adulto, controlli i destini del Terzo mondo, che, siccome fanciullo innocente, viene pilotato dagli adulti cattivi».
I fattori locali. «A questi irriducibili e "occidentalissimi" critici dell'Occidente i fattori locali sono sempre interessati poco, forse perché, grazie ai preziosi insegnamenti ottocenteschi di un signore di Treviri, hanno già un modello unico per capire tutte le società, dai dinka del Sudan meridionale ai lapponi, dagli aborigeni australiani ai mormoni dello Utah. Il (non) pensiero della globalizzazione non ha fatto altro che rinvigorire l'antica passione di molta sinistra per le spiegazioni mono-causali e aprioristiche».
«E' necessario da parte dell'Occidente un impegno politico serio in Africa, innanzitutto per prevenire alcuni rischi gravissimi: elementi fondamentalisti stanno cercando di cambiare l'Islam sincretico e tollerante tipico dell'Africa occidentale, cercando di imporre, con finanziamenti generosi provenienti dai paesi arabi del Golfo, una versione "pura" dell'Islam, per lo più di matrice wahabita. E' altresì necessario agevolare la crescita economica, non, come si pensa spesso, attraverso gli aiuti umanitari – "L'industria umanitaria serve più a dare occupazione a giovani disoccupati europei che ad aiutare noi africani", mi disse un ministro sudafricano qualche tempo fa. La ricetta per lo sviluppo è il commercio, eliminando le ineguaglianze del regime di scambi attuali, liberista nei settori dove europei e americani sono competitivi, e protezionista in altri. Insomma, per il bene di tutti: politica agricola comune dell'Unione europea, adieu».
L'Iraq. Dove sono gli attivisti della pace? Sembrano indifferenti verso il futuro del popolo iracheno:
«La sfida in Iraq è gigantesca. La questione del debito intraversa il futuro sviluppo economico in Iraq; e forse perché i principali creditori non sono gli Stati Uniti, ma i paesi arabi del Golfo, la Russia, la Cina e la Francia, pochi attivisti sembrano interessarsi a questa questione: il loro silenzio svela l'ipocrisia, e l'indifferenza verso il futuro del popolo iracheno. Ma soprattutto la sfida in Iraq è di rompere il circolo vizioso del vittimismo, che definisce la politica nel mondo arabo contemporaneo impedendo ogni forma di critica introspettiva e precludendo alla società la possibilità di riscatto, miglioramento e progresso. In questo senso l'esperienza africana può essere da guida: riaccendere il desiderio di libertà, creare una società civile capace di autocritica, superare la mentalità del capro espiatorio sono sfide a cui molti africani, tra mille difficoltà e nell'indifferenza generale, stanno tenendo testa». Leggi tutto l'articolo
Il Foglio
"Non siamo bambini incapaci di esprimere un'azione e un pensiero autonomo. Nel bene e nel male siamo adulti".
Guglielmo Verdirame su Il Foglio scriveva del "bello" e del "brutto" dell'Africa, individuando uno dei principali problemi in quello che definisce "pregiudizio eurocentrico" e che sarebbe anche la chiave di lettura dei sentimenti antioccidentali nel mondo arabo. L'articolo è molto lungo, ecco un estratto.
«Nei paesi sub-sahariani, pur essendo le colpe dell'Occidente maggiori che in Medio Oriente, la mentalità del capro espiatorio non si è affermata nella stessa misura. Hanno tentato alcuni intellettuali europei di tendere la stessa trappola e di far credere agli africani che tutto fosse colpa dell'Occidente, ma hanno spesso incontrato resistenza: non dimenticherò l'applauso fragoroso che accolse a Nairobi il commento di un collega africano alla relazione di un politologo europeo che attribuiva le responsabilità per tutto ciò che andava male in Africa all'Occidente: "Non vi rendete conto che queste tesi sono in fin dei conti razziste? I rapporti tra mondo occidentale e Africa sono molto più complessi e, comunque, dobbiamo tutti quanti smetterla di esagerare il ruolo dei fattori esterni: in Rwanda a uccidere furono ruandesi. Non siamo bambini incapaci di esprimere un'azione e un pensiero autonomo. Nel bene e nel male siamo adulti"». Eccolo quel pregiudizio: «Che l'Occidente, adulto, controlli i destini del Terzo mondo, che, siccome fanciullo innocente, viene pilotato dagli adulti cattivi».
I fattori locali. «A questi irriducibili e "occidentalissimi" critici dell'Occidente i fattori locali sono sempre interessati poco, forse perché, grazie ai preziosi insegnamenti ottocenteschi di un signore di Treviri, hanno già un modello unico per capire tutte le società, dai dinka del Sudan meridionale ai lapponi, dagli aborigeni australiani ai mormoni dello Utah. Il (non) pensiero della globalizzazione non ha fatto altro che rinvigorire l'antica passione di molta sinistra per le spiegazioni mono-causali e aprioristiche».
«E' necessario da parte dell'Occidente un impegno politico serio in Africa, innanzitutto per prevenire alcuni rischi gravissimi: elementi fondamentalisti stanno cercando di cambiare l'Islam sincretico e tollerante tipico dell'Africa occidentale, cercando di imporre, con finanziamenti generosi provenienti dai paesi arabi del Golfo, una versione "pura" dell'Islam, per lo più di matrice wahabita. E' altresì necessario agevolare la crescita economica, non, come si pensa spesso, attraverso gli aiuti umanitari – "L'industria umanitaria serve più a dare occupazione a giovani disoccupati europei che ad aiutare noi africani", mi disse un ministro sudafricano qualche tempo fa. La ricetta per lo sviluppo è il commercio, eliminando le ineguaglianze del regime di scambi attuali, liberista nei settori dove europei e americani sono competitivi, e protezionista in altri. Insomma, per il bene di tutti: politica agricola comune dell'Unione europea, adieu».
L'Iraq. Dove sono gli attivisti della pace? Sembrano indifferenti verso il futuro del popolo iracheno:
«La sfida in Iraq è gigantesca. La questione del debito intraversa il futuro sviluppo economico in Iraq; e forse perché i principali creditori non sono gli Stati Uniti, ma i paesi arabi del Golfo, la Russia, la Cina e la Francia, pochi attivisti sembrano interessarsi a questa questione: il loro silenzio svela l'ipocrisia, e l'indifferenza verso il futuro del popolo iracheno. Ma soprattutto la sfida in Iraq è di rompere il circolo vizioso del vittimismo, che definisce la politica nel mondo arabo contemporaneo impedendo ogni forma di critica introspettiva e precludendo alla società la possibilità di riscatto, miglioramento e progresso. In questo senso l'esperienza africana può essere da guida: riaccendere il desiderio di libertà, creare una società civile capace di autocritica, superare la mentalità del capro espiatorio sono sfide a cui molti africani, tra mille difficoltà e nell'indifferenza generale, stanno tenendo testa». Leggi tutto l'articolo
Il Foglio
Estremismo islamico/2. Riflessione sui perché...
Dopo gli attentati terroristici contro il centro residenziale occidentale a Riad, solo i più gravi di una nuova ondata, che qualcuno interpreta come segno di debolezza di Al Qaeda e dei gruppi palestinesi, qualcun altro come segno di uno scisma interno all'Islam portato da una "teologia della morte" (Carlo Panella, Il Foglio), siamo qui, di nuovo, a chiederci il perché di tutto questo odio e di questa violenza. Tentiamo invano di darci una risposta fin dall'11 settembre.
Due sono le analisi più diffuse, e tra loro contrastanti. Da una parte, il terrorismo e l'estremismo islamico sarebbero l'espressione della disperazione e del malcontento provocato dalla miseria delle popolazioni arabe, soprattutto quella palestinese, e dai torti subiti dall'Occidente, dagli americani innanzitutto, colpevoli di appoggiare Israele e di porre in essere un atteggiamento egemonico sulla regione.
Dall'altra, si tende a vedere il terrorismo come il frutto dei mali che affliggono le società arabe, soprattutto l'assenza di democrazia e l'indottrinamento religioso.
La Palestina? A mio avviso poco più di un pretesto per il terrorismo islamico. Gli Stati Uniti più di ogni altro Paese, non l'Europa, non il mondo arabo (che invece storicamente ha solo strumentalizzato e danneggiato la causa palestinese), hanno insistito sulla via della pace. Dagli accordi di Oslo il conflitto israelo-palestinese è stato al centro della politica mediorientale dell'Amministrazione americana. Non è possibile però per gli americani non sostenere Israele su tutte quelle richieste da parte palestinese e araba volte a minacciare l'esistenza stessa dello Stato ebraico. Già, perché il punto è che fino ad ora il mondo arabo ha visto nello Stato israeliano un cancro portatore di valori occidentali, democratici, e avvertiti come egemonici, e per questo l'obiettivo resta, nonostante le sconfitte militari, la distruzione di Israele: da un punto di vista demografico ed economico (chiedendo il ritorno dei rifugiati palestinesi), e militare (chiedendo la rinuncia al nucleare e all'invadenza Usa, inaccettabile perché Israele si troverebbe ad essere minacciato dalle forze convenzionali di tutti gli eserciti della regione).
Dunque, secondo il primo approccio, gli Usa pagherebbero l'incapacità o l'assenza di volontà ad offrire una soluzione giusta al problema palestinese, la sola che garantirebbe l'affievolirsi del sentimento antiamericano, il problema risolto il quale tutte le altre questioni del Medio Oriente si avvierebbero ad una meno complicata soluzione: l'assenza di democrazia, la povertà, l'oppressione delle minoranze, sarebbero questioni secondarie nella formazione del sentimento antioccidentale.
E' giunto il momento di rendersi conto invece di come proprio a partire dalla risoluzione di tali questioni considerate secondarie, endemiche nel mondo arabo, sia possibile far scaturire una soluzione giusta per il problema palestinese, mentre appare più arduo il contrario. Il mondo arabo odia Israele perché mette a nudo i fallimenti di un'intera regione per quanto riguarda molteplici aspetti: immobilismo politico, stagnazione economica, impotenza militare, invadenza di modelli culturali e morali occidentali. Sono innanzitutto i regimi oppressivi la causa della povertà, della mancanza di libertà politica, delle repressioni delle minoranze ideologiche, etniche e religiose.
In conclusione. E' pur vero che la disperazione provocata dalla miseria, dalla mancanza di prospettive (sia economiche, sia in termini di autodeterminazione per i palestinesi) contribuisce in una certa misura all'ingrossamento delle fila delle organizzazioni terroristiche, ma è vero che quelle condizioni sono causate in maggior misura dall'arretratezza dei Paesi arabi, dall'assenza di democrazia e di società aperte, nonché dall'indottrinamento dei giovani al fanatismo religioso.
Dopo gli attentati terroristici contro il centro residenziale occidentale a Riad, solo i più gravi di una nuova ondata, che qualcuno interpreta come segno di debolezza di Al Qaeda e dei gruppi palestinesi, qualcun altro come segno di uno scisma interno all'Islam portato da una "teologia della morte" (Carlo Panella, Il Foglio), siamo qui, di nuovo, a chiederci il perché di tutto questo odio e di questa violenza. Tentiamo invano di darci una risposta fin dall'11 settembre.
Due sono le analisi più diffuse, e tra loro contrastanti. Da una parte, il terrorismo e l'estremismo islamico sarebbero l'espressione della disperazione e del malcontento provocato dalla miseria delle popolazioni arabe, soprattutto quella palestinese, e dai torti subiti dall'Occidente, dagli americani innanzitutto, colpevoli di appoggiare Israele e di porre in essere un atteggiamento egemonico sulla regione.
Dall'altra, si tende a vedere il terrorismo come il frutto dei mali che affliggono le società arabe, soprattutto l'assenza di democrazia e l'indottrinamento religioso.
La Palestina? A mio avviso poco più di un pretesto per il terrorismo islamico. Gli Stati Uniti più di ogni altro Paese, non l'Europa, non il mondo arabo (che invece storicamente ha solo strumentalizzato e danneggiato la causa palestinese), hanno insistito sulla via della pace. Dagli accordi di Oslo il conflitto israelo-palestinese è stato al centro della politica mediorientale dell'Amministrazione americana. Non è possibile però per gli americani non sostenere Israele su tutte quelle richieste da parte palestinese e araba volte a minacciare l'esistenza stessa dello Stato ebraico. Già, perché il punto è che fino ad ora il mondo arabo ha visto nello Stato israeliano un cancro portatore di valori occidentali, democratici, e avvertiti come egemonici, e per questo l'obiettivo resta, nonostante le sconfitte militari, la distruzione di Israele: da un punto di vista demografico ed economico (chiedendo il ritorno dei rifugiati palestinesi), e militare (chiedendo la rinuncia al nucleare e all'invadenza Usa, inaccettabile perché Israele si troverebbe ad essere minacciato dalle forze convenzionali di tutti gli eserciti della regione).
Dunque, secondo il primo approccio, gli Usa pagherebbero l'incapacità o l'assenza di volontà ad offrire una soluzione giusta al problema palestinese, la sola che garantirebbe l'affievolirsi del sentimento antiamericano, il problema risolto il quale tutte le altre questioni del Medio Oriente si avvierebbero ad una meno complicata soluzione: l'assenza di democrazia, la povertà, l'oppressione delle minoranze, sarebbero questioni secondarie nella formazione del sentimento antioccidentale.
E' giunto il momento di rendersi conto invece di come proprio a partire dalla risoluzione di tali questioni considerate secondarie, endemiche nel mondo arabo, sia possibile far scaturire una soluzione giusta per il problema palestinese, mentre appare più arduo il contrario. Il mondo arabo odia Israele perché mette a nudo i fallimenti di un'intera regione per quanto riguarda molteplici aspetti: immobilismo politico, stagnazione economica, impotenza militare, invadenza di modelli culturali e morali occidentali. Sono innanzitutto i regimi oppressivi la causa della povertà, della mancanza di libertà politica, delle repressioni delle minoranze ideologiche, etniche e religiose.
In conclusione. E' pur vero che la disperazione provocata dalla miseria, dalla mancanza di prospettive (sia economiche, sia in termini di autodeterminazione per i palestinesi) contribuisce in una certa misura all'ingrossamento delle fila delle organizzazioni terroristiche, ma è vero che quelle condizioni sono causate in maggior misura dall'arretratezza dei Paesi arabi, dall'assenza di democrazia e di società aperte, nonché dall'indottrinamento dei giovani al fanatismo religioso.
Estremismo islamico/3. ... e riflessione sui rimedi
Se dunque libertà e democrazia, prospettive di benessere e partecipazione, società aperte, saranno gli ingredienti per sconfiggere i sentimenti antioccidentali e il terrorismo, si pone ora il problema di come fare.
Emanuele Ottolenghi su Il Foglio ha ricordato quella che lo studioso Fouad Ajami ha individuato come la politica occidentale finora perseguita in Medio Oriente: la scelta tra "prigione o anarchia". «L'alternativa ai regimi apparve fino all'11 settembre soltanto la deriva fondamentalista nel migliore dei casi, il caos della guerra civile libanese in quello peggiore. Beirut o Baghdad, Teheran o Algeri. Saddam piuttosto che Khomeini negli anni Ottanta, Arafat piuttosto che Hamas negli anni Novanta, Musharraf piuttosto che bin Laden nel 2001». Quindi, «prediligere, per mancanza di opzioni migliori, la prigione all'anarchia, il dittatore filo-occidentale al fondamentalista islamico», «al caos si preferiva l'ordine», poiché spesso quel «male minore offriva garanzie agli interessi occidentali». Ma il risultato è stato "sia la prigione, sia il caos".
Il processo di democratizzazione del Medio Oriente passa innanzitutto per il sostegno a quanti nel mondo arabo già si battono per questo e collegando la democrazia ad una speranza di benessere economico e di sviluppo. Ai poveri non si può parlare solo di principi, ma anche di 'pagnotte'. E' vero che gli arabi sono attratti dai nostri modelli, ma non comprendono le nostre azioni e per questo abbiamo bisogno di un più sapiente 'marketing democratico, occidentale e americano'. Sarà inoltre necessario praticare rapporti diplomatici ed economici in cui il parametro democrazia e diritti sia effettivamente uno dei parametri, anche se certo non l'unico.
Come mi era già capitato di osservare su un post di qualche settimana fa sull'esportazione della democrazia, gli strumenti della comunicazione e dell'informazione sono "in grado di promuovere i processi democratici, aiutando i dissidenti interni, screditando i regimi dittatoriali o, fornendo informazione completa e vero dibattito in una situazione a rischio". Puntare con decisione sul 'bombardamento' d'informazione significa sviluppare una delle più efficaci 'armi di attrazione di massa' a disposizione nell'arsenale delle democrazie occidentali, che si esercita diffondendo conoscenza, e che ora dispone di mezzi inimmaginabili fino a qualche anno fa.
Infine, la guerra. Non si può escludere purtroppo il ricorso alla forza, qualora ci si trovi di fronte a situazioni limite come in Afghanistan o in Iraq: dipende dai contesti, dalla realtà e dall'immediatezza della minaccia per le sicurezze nazionali.
La vera questione da affrontare subito è però la convinzione di voler esportare o meno la democrazia. Questo i governi occidentali devono prima di tutto decidere. Questa decisione contiene in sé un equilibrio delicato: quanto di relativismo culturale e quanto di visione etica nei nostri comportamenti. Ma di questo ho già parlato qui.
Se dunque libertà e democrazia, prospettive di benessere e partecipazione, società aperte, saranno gli ingredienti per sconfiggere i sentimenti antioccidentali e il terrorismo, si pone ora il problema di come fare.
Emanuele Ottolenghi su Il Foglio ha ricordato quella che lo studioso Fouad Ajami ha individuato come la politica occidentale finora perseguita in Medio Oriente: la scelta tra "prigione o anarchia". «L'alternativa ai regimi apparve fino all'11 settembre soltanto la deriva fondamentalista nel migliore dei casi, il caos della guerra civile libanese in quello peggiore. Beirut o Baghdad, Teheran o Algeri. Saddam piuttosto che Khomeini negli anni Ottanta, Arafat piuttosto che Hamas negli anni Novanta, Musharraf piuttosto che bin Laden nel 2001». Quindi, «prediligere, per mancanza di opzioni migliori, la prigione all'anarchia, il dittatore filo-occidentale al fondamentalista islamico», «al caos si preferiva l'ordine», poiché spesso quel «male minore offriva garanzie agli interessi occidentali». Ma il risultato è stato "sia la prigione, sia il caos".
Il processo di democratizzazione del Medio Oriente passa innanzitutto per il sostegno a quanti nel mondo arabo già si battono per questo e collegando la democrazia ad una speranza di benessere economico e di sviluppo. Ai poveri non si può parlare solo di principi, ma anche di 'pagnotte'. E' vero che gli arabi sono attratti dai nostri modelli, ma non comprendono le nostre azioni e per questo abbiamo bisogno di un più sapiente 'marketing democratico, occidentale e americano'. Sarà inoltre necessario praticare rapporti diplomatici ed economici in cui il parametro democrazia e diritti sia effettivamente uno dei parametri, anche se certo non l'unico.
Come mi era già capitato di osservare su un post di qualche settimana fa sull'esportazione della democrazia, gli strumenti della comunicazione e dell'informazione sono "in grado di promuovere i processi democratici, aiutando i dissidenti interni, screditando i regimi dittatoriali o, fornendo informazione completa e vero dibattito in una situazione a rischio". Puntare con decisione sul 'bombardamento' d'informazione significa sviluppare una delle più efficaci 'armi di attrazione di massa' a disposizione nell'arsenale delle democrazie occidentali, che si esercita diffondendo conoscenza, e che ora dispone di mezzi inimmaginabili fino a qualche anno fa.
Infine, la guerra. Non si può escludere purtroppo il ricorso alla forza, qualora ci si trovi di fronte a situazioni limite come in Afghanistan o in Iraq: dipende dai contesti, dalla realtà e dall'immediatezza della minaccia per le sicurezze nazionali.
La vera questione da affrontare subito è però la convinzione di voler esportare o meno la democrazia. Questo i governi occidentali devono prima di tutto decidere. Questa decisione contiene in sé un equilibrio delicato: quanto di relativismo culturale e quanto di visione etica nei nostri comportamenti. Ma di questo ho già parlato qui.
Monday, May 19, 2003
M o o n t a x i
Pomeriggio di musica in rete, cercando Hendrix. Uno dei portali su cui ci siamo fermati io e Mic è moontaxi.com: Lou Reed, Linda Ronstadt, Steppenwolf, Simon and Garfunkel, K. C. and The Sunshine Band, Ozark Mountain Daredevils, Bay City Rollers. Poi su choiceradio.com: Blue Oyster Cult, Creedence Clearwater Revival, Doobie Brothers, Jefferson Airplane,
Pomeriggio di musica in rete, cercando Hendrix. Uno dei portali su cui ci siamo fermati io e Mic è moontaxi.com: Lou Reed, Linda Ronstadt, Steppenwolf, Simon and Garfunkel, K. C. and The Sunshine Band, Ozark Mountain Daredevils, Bay City Rollers. Poi su choiceradio.com: Blue Oyster Cult, Creedence Clearwater Revival, Doobie Brothers, Jefferson Airplane,
L'irresistibile Jedi
Facciamoci due risate con questo povero malcapitato. Gnueconomy ci racconta questa fenomenale storiella della rete. Come un ragazzino del Quebec è diventato lo zimbello, o l'"eroe" (dipende dai punti di vista), del cyberspazio. Disponibili anche gli audiovideo: clicca qui
Gnueconomy
Facciamoci due risate con questo povero malcapitato. Gnueconomy ci racconta questa fenomenale storiella della rete. Come un ragazzino del Quebec è diventato lo zimbello, o l'"eroe" (dipende dai punti di vista), del cyberspazio. Disponibili anche gli audiovideo: clicca qui
Gnueconomy
Quelli che l'11 settembre non è successo niente
Su 1972 possiamo rileggere l'editoriale di ieri di Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere della Sera: «L'11 settembre, come si vede, ha cambiato tutto, sta cambiando tutto: chi non vuole convincersene rischia sempre di più di non capire nulla». Leggi
1972
Su 1972 possiamo rileggere l'editoriale di ieri di Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere della Sera: «L'11 settembre, come si vede, ha cambiato tutto, sta cambiando tutto: chi non vuole convincersene rischia sempre di più di non capire nulla». Leggi
1972
Sunday, May 18, 2003
Solo promesse, o una prima svolta?
L'anziano Re Fahd dell'Arabia Saudita si è impegnato di fronte al suo Consiglio consultivo per un programma di riforme politiche e sociali e nella lotta contro il terrorismo: «Intendiamo perseguire la via della riforma politica e amministrativa», e ancora, «allargheremo la partecipazione popolare e allargheremo l'accesso al lavoro delle donne».
«Siamo ad un bivio. I (vecchi) concetti nel mondo sono morti e ne emergono altri. Le (vecchie) alleanze si sono appassite e di nuove se ne sono formate. Facciamo parte di questo mondo e non ce ne possiamo isolare. Non possiamo immobilizzarci quando il mondo sta cambiando». Leggi tutto
RadioRadicale.it
L'anziano Re Fahd dell'Arabia Saudita si è impegnato di fronte al suo Consiglio consultivo per un programma di riforme politiche e sociali e nella lotta contro il terrorismo: «Intendiamo perseguire la via della riforma politica e amministrativa», e ancora, «allargheremo la partecipazione popolare e allargheremo l'accesso al lavoro delle donne».
«Siamo ad un bivio. I (vecchi) concetti nel mondo sono morti e ne emergono altri. Le (vecchie) alleanze si sono appassite e di nuove se ne sono formate. Facciamo parte di questo mondo e non ce ne possiamo isolare. Non possiamo immobilizzarci quando il mondo sta cambiando». Leggi tutto
RadioRadicale.it
Al Qaeda cambia strategia: obiettivi facili e Paesi islamici moderati
Harlan Ullman, stratega Usa: «I terroristi scelgono obiettivi imprevedibili. Al Qaeda ha deciso di lanciare una campagna internazionale contro obiettivi 'soft', facili, e nel mondo ce ne sono troppi per poter prevedere dove colpirà e quindi prevenire gli attacchi". Ecco perché il Marocco: «Era facile, meno protetto di altri paesi, ma abitato da abbastanza manodopera favorevole ad Al Qaeda».
Se Al Qaeda volesse, sarebbe ancora in grado di attaccare gli Stati Uniti: «Per ora non lo fa perché non ne ha bisogno. Punta su obiettivi facili raggiungendo lo stesso risultato di terrorizzare la comunità globale, danneggiare l'economia, destabilizzare Paesi alleati e quindi colpire gli interessi di Washington. Non mi stupirei se adesso iniziassero a prendere di mira leader o individui con un particolare significato politico». Leggi tutto
La Stampa
I paesi islamici moderati, che si mostrano più aperti verso l'Occidente, sono ora sotto il mirino di Al Qaeda, ora sono questi gli obiettivi principali, per accrescere problemi economici a chi sta muovendo i primi passi verso la democrazia.
Harlan Ullman, stratega Usa: «I terroristi scelgono obiettivi imprevedibili. Al Qaeda ha deciso di lanciare una campagna internazionale contro obiettivi 'soft', facili, e nel mondo ce ne sono troppi per poter prevedere dove colpirà e quindi prevenire gli attacchi". Ecco perché il Marocco: «Era facile, meno protetto di altri paesi, ma abitato da abbastanza manodopera favorevole ad Al Qaeda».
Se Al Qaeda volesse, sarebbe ancora in grado di attaccare gli Stati Uniti: «Per ora non lo fa perché non ne ha bisogno. Punta su obiettivi facili raggiungendo lo stesso risultato di terrorizzare la comunità globale, danneggiare l'economia, destabilizzare Paesi alleati e quindi colpire gli interessi di Washington. Non mi stupirei se adesso iniziassero a prendere di mira leader o individui con un particolare significato politico». Leggi tutto
La Stampa
I paesi islamici moderati, che si mostrano più aperti verso l'Occidente, sono ora sotto il mirino di Al Qaeda, ora sono questi gli obiettivi principali, per accrescere problemi economici a chi sta muovendo i primi passi verso la democrazia.
Friday, May 16, 2003
quindici minuti di puro zelig. i miei colleghi sono cattivissimi. hanno sezionato una lunga intervista ad un leader dell'opposizione fatta da un giornalista che lavora con noi, cucendo insieme ogni sua singola gaffe. risultato: da un'ora di conversazione un po' noiosetta, complice anche la bastardaggine dell'intervistato, sono venuti fuori quindici minuti di puro zelig.
Da robba
Lo studio legale è ora all'opera per studiare la fattibilità di pubblicazione in rete.
Da robba
Lo studio legale è ora all'opera per studiare la fattibilità di pubblicazione in rete.
Thursday, May 15, 2003
Benaltrismo e Comparazionismo
Il Benaltrismo è senz'altro comodo vizio (per chi lo applica) e fastidiosa malattia (per chi ascolta) da curare; suscita in me istinti pericolosi e beluini. Il Comparazionismo, o giustificazionismo, un esercizio utile, da usare però con moderazione, e a patto che non lo si usi per condoni generalizzati. Spiego.
Rolli fa notare che Berlusconi non è il solo ad aver minacciato di querele chiunque lo avesse insultato (Link). Ok, prendiamo atto. Ma sull'episodio al tribunale di Milano e polemiche seguenti trovo ridicolo che un uomo politico quereli qualcuno per degli insulti o per una vignetta. Grave sarebbe però se il tutto fosse stato studiato a tavolino per mandarlo in onda al Tg3.
Comunque, Gnueconomy accusa Rolli di Comparazionismo e ci mette in guardia giustamente dai suoi rischi, anche se è cosa ben diversa e da non confondere con il Benaltrismo.
Così Luca Sofri definisce infatti il 'Benaltrismo': «Il Benaltrismo dovrebbe definirsi come quell'imbroglio retorico per cui "ben altri" sono i problemi che andrebbero affrontati, o che per coerenza bisognerebbe affrontarli tutti, o nessuno. Esempio: Ottoemmezzo fa una puntata su Cuba e Minà dice "ma perché non vi occupate del Guatemala, invece?". Esempio: uno dice che Saddam va eliminato, e gli rispondono "e allora la Corea del Nord"? Esempio: uno dice Sofri è innocente e gli rispondono "e perché non vi occupate di tutti gli innocenti che stanno in carcere?". Esempio: uno dice Guantanamo è una vergogna e gli rispondono che durante la Ii guerra mondiale fu fatto di molto peggio. Chi abusa del benaltrismo, di solito, non ha mai mosso un dito né in un caso né nell'altro».
Dunque, ripeto: il Benaltrismo è senz'altro comodo vizio (per chi lo applica) e fastidiosa malattia (per chi ascolta) da curare; suscita in me istinti pericolosi e beluini. Il Comparazionismo, o giustificazionismo, un esercizio utile, da usare però con moderazione, e a patto che non lo si usi per condoni generalizzati.
Il Benaltrismo è senz'altro comodo vizio (per chi lo applica) e fastidiosa malattia (per chi ascolta) da curare; suscita in me istinti pericolosi e beluini. Il Comparazionismo, o giustificazionismo, un esercizio utile, da usare però con moderazione, e a patto che non lo si usi per condoni generalizzati. Spiego.
Rolli fa notare che Berlusconi non è il solo ad aver minacciato di querele chiunque lo avesse insultato (Link). Ok, prendiamo atto. Ma sull'episodio al tribunale di Milano e polemiche seguenti trovo ridicolo che un uomo politico quereli qualcuno per degli insulti o per una vignetta. Grave sarebbe però se il tutto fosse stato studiato a tavolino per mandarlo in onda al Tg3.
Comunque, Gnueconomy accusa Rolli di Comparazionismo e ci mette in guardia giustamente dai suoi rischi, anche se è cosa ben diversa e da non confondere con il Benaltrismo.
Così Luca Sofri definisce infatti il 'Benaltrismo': «Il Benaltrismo dovrebbe definirsi come quell'imbroglio retorico per cui "ben altri" sono i problemi che andrebbero affrontati, o che per coerenza bisognerebbe affrontarli tutti, o nessuno. Esempio: Ottoemmezzo fa una puntata su Cuba e Minà dice "ma perché non vi occupate del Guatemala, invece?". Esempio: uno dice che Saddam va eliminato, e gli rispondono "e allora la Corea del Nord"? Esempio: uno dice Sofri è innocente e gli rispondono "e perché non vi occupate di tutti gli innocenti che stanno in carcere?". Esempio: uno dice Guantanamo è una vergogna e gli rispondono che durante la Ii guerra mondiale fu fatto di molto peggio. Chi abusa del benaltrismo, di solito, non ha mai mosso un dito né in un caso né nell'altro».
Dunque, ripeto: il Benaltrismo è senz'altro comodo vizio (per chi lo applica) e fastidiosa malattia (per chi ascolta) da curare; suscita in me istinti pericolosi e beluini. Il Comparazionismo, o giustificazionismo, un esercizio utile, da usare però con moderazione, e a patto che non lo si usi per condoni generalizzati.
Wednesday, May 14, 2003
Immunità parlamentari: tutti d'accordo al Parlamento europeo
Il 5 dicembre 2002, il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che dà il via libera a "concludere la procedura relativa all'adozione" dello Statuto dei deputati (PE 294.967/riv., relatore l'europarlamentare socialista Willy Rothley), con le relative consultazioni di Commissione europea e Consiglio. L'assemblea si è così divisa (Link): 296 voti favorevoli (Ppe e Pse) e 136 contrari (comunisti, liberali e verdi). Per quanto riguarda i gruppi italiani, oltre il 'sì' del centrodestra, 'sì' compatto anche dai Ds (tra cui Elena Paciotti, Gianni Vattimo, Pasqualina Napoletano, Renzo Imbeni). Uniche questioni dibattute le indennità e i salari dei deputati e non le immunità parlamentari, sulle quali non ci sono stati emendamenti o proposte alternative, e tutti hanno concordato su quanto previsto dal testo.
Articolo 11 - Tutela della libertà di voto e di opinione
1. I deputati non possono essere in alcun momento perseguiti a motivo dei voti o delle opinioni espresse nell'esercizio del loro mandato, né possono essere chiamati a renderne altrimenti conto in sede extragiudiziale.
2. Su richiesta del deputato, il Parlamento decide se un'opinione sia stata espressa nell'esercizio del mandato.
Articolo 12 - Tutela dell'integrità del Parlamento
1. Qualsiasi limitazione della libertà personale di un deputato è ammessa solo su autorizzazione del Parlamento, salvo in caso di flagranza di reato.
2. Il sequestro di documenti scritti o di materiale su supporto elettronico di proprietà del deputato, o la perquisizione della sua persona, del suo ufficio o della sua abitazione, così come il controllo della sua corrispondenza e delle sue telefonate, possono essere ordinati solo su autorizzazione del Parlamento. L'articolo 9, paragrafo 4, si applica per analogia.
3. Un'indagine o un procedimento penale nei confronti di un deputato dev'essere sospeso qualora il Parlamento lo richieda.
4. L'autorizzazione di cui al paragrafo 2 può essere richiesta dalle autorità competenti in base al diritto nazionale.
5. L'autorizzazione di cui al paragrafo 2 o la sospensione di cui al paragrafo 3 può essere subordinata a condizioni ovvero essere temporanea o parziale.
Il 5 dicembre 2002, il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che dà il via libera a "concludere la procedura relativa all'adozione" dello Statuto dei deputati (PE 294.967/riv., relatore l'europarlamentare socialista Willy Rothley), con le relative consultazioni di Commissione europea e Consiglio. L'assemblea si è così divisa (Link): 296 voti favorevoli (Ppe e Pse) e 136 contrari (comunisti, liberali e verdi). Per quanto riguarda i gruppi italiani, oltre il 'sì' del centrodestra, 'sì' compatto anche dai Ds (tra cui Elena Paciotti, Gianni Vattimo, Pasqualina Napoletano, Renzo Imbeni). Uniche questioni dibattute le indennità e i salari dei deputati e non le immunità parlamentari, sulle quali non ci sono stati emendamenti o proposte alternative, e tutti hanno concordato su quanto previsto dal testo.
Articolo 11 - Tutela della libertà di voto e di opinione
1. I deputati non possono essere in alcun momento perseguiti a motivo dei voti o delle opinioni espresse nell'esercizio del loro mandato, né possono essere chiamati a renderne altrimenti conto in sede extragiudiziale.
2. Su richiesta del deputato, il Parlamento decide se un'opinione sia stata espressa nell'esercizio del mandato.
Articolo 12 - Tutela dell'integrità del Parlamento
1. Qualsiasi limitazione della libertà personale di un deputato è ammessa solo su autorizzazione del Parlamento, salvo in caso di flagranza di reato.
2. Il sequestro di documenti scritti o di materiale su supporto elettronico di proprietà del deputato, o la perquisizione della sua persona, del suo ufficio o della sua abitazione, così come il controllo della sua corrispondenza e delle sue telefonate, possono essere ordinati solo su autorizzazione del Parlamento. L'articolo 9, paragrafo 4, si applica per analogia.
3. Un'indagine o un procedimento penale nei confronti di un deputato dev'essere sospeso qualora il Parlamento lo richieda.
4. L'autorizzazione di cui al paragrafo 2 può essere richiesta dalle autorità competenti in base al diritto nazionale.
5. L'autorizzazione di cui al paragrafo 2 o la sospensione di cui al paragrafo 3 può essere subordinata a condizioni ovvero essere temporanea o parziale.
Tuesday, May 13, 2003
Incredibilia
Cose dell'altro mondo...
Tra i 50 e i 58 deputati texani sono fuggiti domenica da Austin e si sono rifugiati nell'hotel Ardmore Holiday, poco dopo il confine con l'Oklahoma, per bloccare, non facendo raggiungere il quorum, un voto cruciale al Congresso statale.
All'origine della paradossale situazione, con i democratici che si rifiutano di tornare nella capitale statale ed i repubblicani che ne chiedono l'arresto, il regolamento dell'assemblea, che, assurdamente, vieta che la Camera si riunisca se non sono presenti almeno 100 dei 150 deputati e che permette l'arresto dei deputati che intenzionalmente fanno mancare il quorum per riportarli in aula (L'articolo 5 del regolamento della Camera al comma 8 recita: "Tutti gli assenti che non hanno una scusa sufficiente, possono essere arrestati per ordine della maggioranza dei presenti, in modo che venga garantita la loto presenza"). Il regolamento è folle perché impedisce alla maggioranza assoluta di legiferare e, ovviamente, perché prevede l'arresto per chi fa ostruzionismo facendo mancare il quorum.
AP-Adnkronos
Cose dell'altro mondo...
Tra i 50 e i 58 deputati texani sono fuggiti domenica da Austin e si sono rifugiati nell'hotel Ardmore Holiday, poco dopo il confine con l'Oklahoma, per bloccare, non facendo raggiungere il quorum, un voto cruciale al Congresso statale.
All'origine della paradossale situazione, con i democratici che si rifiutano di tornare nella capitale statale ed i repubblicani che ne chiedono l'arresto, il regolamento dell'assemblea, che, assurdamente, vieta che la Camera si riunisca se non sono presenti almeno 100 dei 150 deputati e che permette l'arresto dei deputati che intenzionalmente fanno mancare il quorum per riportarli in aula (L'articolo 5 del regolamento della Camera al comma 8 recita: "Tutti gli assenti che non hanno una scusa sufficiente, possono essere arrestati per ordine della maggioranza dei presenti, in modo che venga garantita la loto presenza"). Il regolamento è folle perché impedisce alla maggioranza assoluta di legiferare e, ovviamente, perché prevede l'arresto per chi fa ostruzionismo facendo mancare il quorum.
AP-Adnkronos
Monday, May 12, 2003
Scommessa vinta, comunque
Sabato sera una pizza al Paò, Monteverde. E' la prima volta che mi capita di conversare a lungo con Matteo sulla sua esperienza come studente consigliere d'Amministrazione dell'Università in cui mi sono laureato. Da molto tempo desideravo che accadesse e, non lo nascondo, anche per porgli alcune delle mie sontuose quanto autoreferenziali considerazioni. Sabato sera è accaduto e me ne sono stato zitto ad ascoltare. Al mio impegno politico universitario è mancata solo quell'"alta" carica che lui ha avuto l'occasione di ricoprire. L'anno in cui si candidò con noi ricordo che fu l'ultima campagna elettorale in cui mi impegnai e, contro l'enorme divario di risorse e lo strapotere delle altre liste, riuscimmo, con lo sforzo sovrumano di quattro gatti, a ottenere il seggio. Ho sempre pensato quanto dovesse essere stato difficile e mortificante per lui adempiere a quell'impegno privato di un adeguato gruppo di studenti che lo sostenesse e lo aiutasse nello scontro con quel "regime" che si stava instaurando e si è poi instaurato ai vertici dell'Ateneo, e che in CdA si esprime ai suoi più alti livelli organizzativi (ma non è questa la sede per approfondire sull'argomento). Ma l'altra sera dalle sue parole ho appreso molto e gliene sono grato. Ho trovato in lui anche una consapevolezza maggiore di qualche anno fa, ha fatto tesoro della sua esperienza, ed è stato istruttivo ascoltare le sue riflessioni frutto di cognizioni sedimentate, ragionate-ragionevoli.
Gli rimane poi quella fine abilità narrativa, che rende gradevole e gustoso l'ascolto dei suoi racconti e, da qualche giorno, la loro lettura: qui, su Mhttk' blog
Sabato sera una pizza al Paò, Monteverde. E' la prima volta che mi capita di conversare a lungo con Matteo sulla sua esperienza come studente consigliere d'Amministrazione dell'Università in cui mi sono laureato. Da molto tempo desideravo che accadesse e, non lo nascondo, anche per porgli alcune delle mie sontuose quanto autoreferenziali considerazioni. Sabato sera è accaduto e me ne sono stato zitto ad ascoltare. Al mio impegno politico universitario è mancata solo quell'"alta" carica che lui ha avuto l'occasione di ricoprire. L'anno in cui si candidò con noi ricordo che fu l'ultima campagna elettorale in cui mi impegnai e, contro l'enorme divario di risorse e lo strapotere delle altre liste, riuscimmo, con lo sforzo sovrumano di quattro gatti, a ottenere il seggio. Ho sempre pensato quanto dovesse essere stato difficile e mortificante per lui adempiere a quell'impegno privato di un adeguato gruppo di studenti che lo sostenesse e lo aiutasse nello scontro con quel "regime" che si stava instaurando e si è poi instaurato ai vertici dell'Ateneo, e che in CdA si esprime ai suoi più alti livelli organizzativi (ma non è questa la sede per approfondire sull'argomento). Ma l'altra sera dalle sue parole ho appreso molto e gliene sono grato. Ho trovato in lui anche una consapevolezza maggiore di qualche anno fa, ha fatto tesoro della sua esperienza, ed è stato istruttivo ascoltare le sue riflessioni frutto di cognizioni sedimentate, ragionate-ragionevoli.
Gli rimane poi quella fine abilità narrativa, che rende gradevole e gustoso l'ascolto dei suoi racconti e, da qualche giorno, la loro lettura: qui, su Mhttk' blog
Sunday, May 11, 2003
Neocons. a Venezia
Richard Perle, Robert Kagan e Samuel Huntington a Venezia per un Convegno dell’Aspen Institute: «L’Ue deve scegliere: o con noi o con la Francia». Il Corriere della Sera li ha intervistati.
Perle: «In Iraq non abbiamo desideri imperiali: potremmo andarcene domani se fossimo sicuri che la situazione è sicura. Ma credo che abbiamo la seria responsabilità di lasciare il Paese in una situazione decente, con un governo che possa garantire una certa democrazia, il libero mercato e un modello per il resto del Medio Oriente. Non so quanto tempo ci vorrà. Però, penso che tra diciotto mesi potremmo avere un serio governo iracheno al potere».
Huntington: «Non credo che impero sia la parola giusta da applicare agli Stati Uniti. Nel senso che non abbiamo desiderio di governare altri popoli: è la nostra storia a dimostrarlo. L'America è la sola superpotenza mondiale, ma credo che debba e voglia agire attraverso combinazioni di alleanze con le altre potenze regionali, l’Unione Europea, la Russia, l'India, la Cina».
Il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Kagan: «Fin dal suo inizio, il Consiglio di Sicurezza è stato solo fiction. Davvero cinquant'anni fa la Cina e la Francia potevano essere considerate grandi potenze? Ovviamente no, e infatti nessuno ha mai dato credibilità al Consiglio. E' solo dalla fine della Guerra Fredda che ha avuto un certo ruolo, e anche qui i risultati hanno mostrato luci e ombre. Sono però contrario a chiuderlo. Va riformato, vedremo come».
Huntington: «La struttura del Consiglio di Sicurezza è ancora quella che riflette i poteri del 1945. Potrebbero essere introdotti nuovi membri permanenti, i poteri regionali. Ma senza diritto di veto».
Stati Uniti ed Europa.
Perle : «Non c'è una visione europea comune. La Francia ha l'ambizione di guidare la politica estera europea contro gli Stati Uniti. Gli altri Paesi europei devono decidere se vogliono farsi guidare dalla Francia o se scelgono la relazione transatlantica».
Kagan: «Ancora oggi a Parigi vogliono che la nostra politica in Iraq fallisca, che finisca in catastrofe».
Chi sono i neo-conservatives?
Kagan: «Nascono dal partito democratico e in maggioranza oggi sono repubblicani. Io mi considero un liberal moderato sulle questioni di politica interna mentre nella politica estera credo in un ruolo degli Usa che deve favorire un ordine globale liberale, fondato su sicurezza e principi. Nella tradizione di Truman e Kennedy ma anche di Theodore Roosevelt e Wilson. Niente di nuovo». Leggi tutto
Corriere della Sera
Richard Perle, Robert Kagan e Samuel Huntington a Venezia per un Convegno dell’Aspen Institute: «L’Ue deve scegliere: o con noi o con la Francia». Il Corriere della Sera li ha intervistati.
Perle: «In Iraq non abbiamo desideri imperiali: potremmo andarcene domani se fossimo sicuri che la situazione è sicura. Ma credo che abbiamo la seria responsabilità di lasciare il Paese in una situazione decente, con un governo che possa garantire una certa democrazia, il libero mercato e un modello per il resto del Medio Oriente. Non so quanto tempo ci vorrà. Però, penso che tra diciotto mesi potremmo avere un serio governo iracheno al potere».
Huntington: «Non credo che impero sia la parola giusta da applicare agli Stati Uniti. Nel senso che non abbiamo desiderio di governare altri popoli: è la nostra storia a dimostrarlo. L'America è la sola superpotenza mondiale, ma credo che debba e voglia agire attraverso combinazioni di alleanze con le altre potenze regionali, l’Unione Europea, la Russia, l'India, la Cina».
Il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Kagan: «Fin dal suo inizio, il Consiglio di Sicurezza è stato solo fiction. Davvero cinquant'anni fa la Cina e la Francia potevano essere considerate grandi potenze? Ovviamente no, e infatti nessuno ha mai dato credibilità al Consiglio. E' solo dalla fine della Guerra Fredda che ha avuto un certo ruolo, e anche qui i risultati hanno mostrato luci e ombre. Sono però contrario a chiuderlo. Va riformato, vedremo come».
Huntington: «La struttura del Consiglio di Sicurezza è ancora quella che riflette i poteri del 1945. Potrebbero essere introdotti nuovi membri permanenti, i poteri regionali. Ma senza diritto di veto».
Stati Uniti ed Europa.
Perle : «Non c'è una visione europea comune. La Francia ha l'ambizione di guidare la politica estera europea contro gli Stati Uniti. Gli altri Paesi europei devono decidere se vogliono farsi guidare dalla Francia o se scelgono la relazione transatlantica».
Kagan: «Ancora oggi a Parigi vogliono che la nostra politica in Iraq fallisca, che finisca in catastrofe».
Chi sono i neo-conservatives?
Kagan: «Nascono dal partito democratico e in maggioranza oggi sono repubblicani. Io mi considero un liberal moderato sulle questioni di politica interna mentre nella politica estera credo in un ruolo degli Usa che deve favorire un ordine globale liberale, fondato su sicurezza e principi. Nella tradizione di Truman e Kennedy ma anche di Theodore Roosevelt e Wilson. Niente di nuovo». Leggi tutto
Corriere della Sera
"Scontro di civiltà": Intervista ad Huntington
Su La Stampa, intervista al professor Samuel Huntington, lo studioso dello "scontro di civiltà":
La guerra in Iraq approfondirà lo scontro di civiltà?
«Dipenderà dalle sue conseguenze. Due conseguenze, in particolare. La prima: l'Iraq riuscirà a diventare in un tempo ragionevole un Paese ragionevolmente stabile, unificato e democratico? La seconda: alla guerra seguiranno significativi progressi nella soluzione del problema israelo-palestinese? Se queste due condizioni si verificheranno, le relazioni fra Stati Uniti e mondo islamico miglioreranno rapidamente, altrimenti dobbiamo attenderci un grosso scontro fra civiltà».
E' possibile conciliare Islam e democrazia?
«Non credo ci siano ragioni per pensare che nell'Islam esistano ostacoli allo sviluppo della democrazia. Ogni grande cultura ha differenti componenti al suo interno. Non dimentichiamo che fino a 50 anni fa molti scienziati della politica ritenevano inconciliabili democrazia e cattolicesimo, una previsione che si è rivelata assolutamente sbagliata».
Crede sia possibile introdurre dall'esterno la democrazia, magari con la forza?
«Assolutamente no».
Come deve agire l'Occidente di fronte alla rinascita islamica?
«Il problema è l'ascesa dell'Islam militante e dei Paesi canaglia, nei confronti dei quali bisogna agire con precauzioni militari. La dottrina Bush dell'azione preventiva contro gli Stati che costituiscono vere minacce è giustificata».
Anche la guerra all'Iraq lo era, dunque?
«No, l'Iraq non poneva una minaccia urgente e grave agli Usa o ai suoi alleati».
L'Islam ha coscienza di se stesso ma scarsa coesione. Con quali conseguenze per l'Occidente?
«La prima conseguenza è che è molto difficile trattare con l'Islam. Certo, stiamo assistendo a una poderosa rinascita dell'identità musulmana, ma si ricorda che cosa diceva Kissinger? “Che numero di telefono devo fare, quando voglio parlare dell'Europa?”. Lo stesso vale oggi per l'Islam. La seconda conseguenza è ancora più preoccupante: le rivalità fra Arabia Saudita e Iran hanno spinto i due Paesi a finanziare gruppi musulmani in lotta contro l'Occidente». Leggi tutto
La Stampa
Su La Stampa, intervista al professor Samuel Huntington, lo studioso dello "scontro di civiltà":
La guerra in Iraq approfondirà lo scontro di civiltà?
«Dipenderà dalle sue conseguenze. Due conseguenze, in particolare. La prima: l'Iraq riuscirà a diventare in un tempo ragionevole un Paese ragionevolmente stabile, unificato e democratico? La seconda: alla guerra seguiranno significativi progressi nella soluzione del problema israelo-palestinese? Se queste due condizioni si verificheranno, le relazioni fra Stati Uniti e mondo islamico miglioreranno rapidamente, altrimenti dobbiamo attenderci un grosso scontro fra civiltà».
E' possibile conciliare Islam e democrazia?
«Non credo ci siano ragioni per pensare che nell'Islam esistano ostacoli allo sviluppo della democrazia. Ogni grande cultura ha differenti componenti al suo interno. Non dimentichiamo che fino a 50 anni fa molti scienziati della politica ritenevano inconciliabili democrazia e cattolicesimo, una previsione che si è rivelata assolutamente sbagliata».
Crede sia possibile introdurre dall'esterno la democrazia, magari con la forza?
«Assolutamente no».
Come deve agire l'Occidente di fronte alla rinascita islamica?
«Il problema è l'ascesa dell'Islam militante e dei Paesi canaglia, nei confronti dei quali bisogna agire con precauzioni militari. La dottrina Bush dell'azione preventiva contro gli Stati che costituiscono vere minacce è giustificata».
Anche la guerra all'Iraq lo era, dunque?
«No, l'Iraq non poneva una minaccia urgente e grave agli Usa o ai suoi alleati».
L'Islam ha coscienza di se stesso ma scarsa coesione. Con quali conseguenze per l'Occidente?
«La prima conseguenza è che è molto difficile trattare con l'Islam. Certo, stiamo assistendo a una poderosa rinascita dell'identità musulmana, ma si ricorda che cosa diceva Kissinger? “Che numero di telefono devo fare, quando voglio parlare dell'Europa?”. Lo stesso vale oggi per l'Islam. La seconda conseguenza è ancora più preoccupante: le rivalità fra Arabia Saudita e Iran hanno spinto i due Paesi a finanziare gruppi musulmani in lotta contro l'Occidente». Leggi tutto
La Stampa
Wednesday, May 07, 2003
Chuang-tzu e Hui-tzu stavano passeggiando lungo la riva del fiume Hao, quando il primo esclamò:
«I pesci saltano con facilità fuori dell'acqua. In ciò devono provare piacere».
Hui-tzu replicò:
«Tu non sei un pesce. Come puoi sapere che i pesci provano piacere?»
«E tu non sei me», rispose Chuang-tzu «Come fai a sapere che io non lo so?».
Hui-tzu continuò:
«Se io, non essendo te, non posso conoscere quel che tu sai, così tu, non essendo pesce, non puoi conoscere se i pesci provano piacere!».
Chuang-tzu rispose:
«Per favore, torniamo al punto di partenza. Tu hai chiesto come potevo sapere che i pesci provano piacere. La tua stessa domanda mi prova che tu sapevi che io lo sapevo. Lo so – per il fatto che io stesso sono felice – stando su questa sponda!».
«I pesci saltano con facilità fuori dell'acqua. In ciò devono provare piacere».
Hui-tzu replicò:
«Tu non sei un pesce. Come puoi sapere che i pesci provano piacere?»
«E tu non sei me», rispose Chuang-tzu «Come fai a sapere che io non lo so?».
Hui-tzu continuò:
«Se io, non essendo te, non posso conoscere quel che tu sai, così tu, non essendo pesce, non puoi conoscere se i pesci provano piacere!».
Chuang-tzu rispose:
«Per favore, torniamo al punto di partenza. Tu hai chiesto come potevo sapere che i pesci provano piacere. La tua stessa domanda mi prova che tu sapevi che io lo sapevo. Lo so – per il fatto che io stesso sono felice – stando su questa sponda!».
Sme: De Benedetti conferma la ricostruzione di Berlusconi, già dal 1999
«Sì, Craxi mi fece sapere tramite Giuliano Amato (allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio) di essere contrario all'operazione e di essere offeso per aver letto la notizia sui giornali. E, in effetti, era andata proprio così: Prodi, che aveva pessimi rapporti con Craxi, aveva avvisato della vendita Sme solo il proprio partito di riferimento, cioè la Dc. Sul principio aveva ragione il leader socialista e io rimproverai a Prodi quella gaffe. Per ricucire andammo insieme a Palazzo Chigi e in quella occasione Craxi mi disse subito che il prezzo gli pareva inadeguato. Lui odiava sia Prodi sia me, e un accordo tra noi due lo insospettiva oltre ogni misura. Sicuramente era convinto che nell'operazione ci fosse stata una tangente solo per la Dc».
'Per adesso - intervista con Carlo De Benedetti' di Federico Rampini, ed. Longanesi & C., 1999
«Sì, Craxi mi fece sapere tramite Giuliano Amato (allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio) di essere contrario all'operazione e di essere offeso per aver letto la notizia sui giornali. E, in effetti, era andata proprio così: Prodi, che aveva pessimi rapporti con Craxi, aveva avvisato della vendita Sme solo il proprio partito di riferimento, cioè la Dc. Sul principio aveva ragione il leader socialista e io rimproverai a Prodi quella gaffe. Per ricucire andammo insieme a Palazzo Chigi e in quella occasione Craxi mi disse subito che il prezzo gli pareva inadeguato. Lui odiava sia Prodi sia me, e un accordo tra noi due lo insospettiva oltre ogni misura. Sicuramente era convinto che nell'operazione ci fosse stata una tangente solo per la Dc».
'Per adesso - intervista con Carlo De Benedetti' di Federico Rampini, ed. Longanesi & C., 1999
Vive la France!
Barzelletta che circola nei blog francesi (traduzione di valerio)
Jaques Chirac visita George Bush.
- Dimmi George come hai fatto a mettere in piedi un team così efficiente mentre io sono assistito da un branco di coglioni?
- E' semplice Jaques io faccio dei test ai miei collaboratori, se non rispondono correttamente li licenzio
Bush chiama Powell
- Dimmi Colin tu sai la regola se dai una risposta giusta ok, se no sei licenziato. E' il figlio di tua madre, ma non è né tuo fratello né tua sorella, chi è?
Powell aspetta qualche secondo e dice:
- è facile, sono io.
Chirac rimane molto colpito e appena ritorna a Parigi chiama Raffarin(primo ministro) e gli dice: se rispondi correttamente, bene, se no sei licenziato. La domanda è: E' il figlio di tua madre, ma non è né tuo fratello né tua sorella, chi è?
Raffarin non sa rispondere e chiede 24 ore di tempo. Torna nel suo palazzo, convoca il consiglio dei ministri più una schiera di mandarini e gli pone la domanda. Nessuno sa rispondere finche uno più furbo degli altri dice: chiediamolo ad Alain Juppe' (ex capo di governo, fedelissimo di Chirac) lui sa tutto quello che passa nella mente del presidente.
Raffarin chiama Juppè egli chiede: E' il figlio di tua madre, ma non è né tuo fratello né tua sorella,chi è? Juppè risponde: è facile sono io!
Raffarin entusiasta irrompe nell'ufficio di Chirac e dice: ho trovato la risposta signor presidente: è Juppè!
Chirac diventa scuro in volto e dice: fai le valige, sei licenziato, la risposta giusta é Powell
valerio
Barzelletta che circola nei blog francesi (traduzione di valerio)
Jaques Chirac visita George Bush.
- Dimmi George come hai fatto a mettere in piedi un team così efficiente mentre io sono assistito da un branco di coglioni?
- E' semplice Jaques io faccio dei test ai miei collaboratori, se non rispondono correttamente li licenzio
Bush chiama Powell
- Dimmi Colin tu sai la regola se dai una risposta giusta ok, se no sei licenziato. E' il figlio di tua madre, ma non è né tuo fratello né tua sorella, chi è?
Powell aspetta qualche secondo e dice:
- è facile, sono io.
Chirac rimane molto colpito e appena ritorna a Parigi chiama Raffarin(primo ministro) e gli dice: se rispondi correttamente, bene, se no sei licenziato. La domanda è: E' il figlio di tua madre, ma non è né tuo fratello né tua sorella, chi è?
Raffarin non sa rispondere e chiede 24 ore di tempo. Torna nel suo palazzo, convoca il consiglio dei ministri più una schiera di mandarini e gli pone la domanda. Nessuno sa rispondere finche uno più furbo degli altri dice: chiediamolo ad Alain Juppe' (ex capo di governo, fedelissimo di Chirac) lui sa tutto quello che passa nella mente del presidente.
Raffarin chiama Juppè egli chiede: E' il figlio di tua madre, ma non è né tuo fratello né tua sorella,chi è? Juppè risponde: è facile sono io!
Raffarin entusiasta irrompe nell'ufficio di Chirac e dice: ho trovato la risposta signor presidente: è Juppè!
Chirac diventa scuro in volto e dice: fai le valige, sei licenziato, la risposta giusta é Powell
valerio
Tuesday, May 06, 2003
Falouja, Iraq, nella grande moschea. Un sermone che qualcuno non si aspetta (grazie a Diego che me lo ha segnalato)
La scorsa settimana a Falouja, città dell'Iraq, durante una manifestazione ci sono stati scontri a fuoco tra gli iracheni e le truppe americane, che hanno ucciso alcuni civili. Quelli che seguono sono brani tratti dal sermone pronunciato venerdì 2 maggio da Sheikh Jamal Shakir Al-Nazzal alla grande moschea di Falouja. Gli estremisti islamici, ma spesso anche in troppi qui da noi, hanno interesse a presentare l'Islam come una religione incompatibile con la democrazia. Si tratta di razzismo e nonostante le tensioni e le tragedie che si stanno vivendo in Iraq, gli islamici non sono così ostili agli americani "invasori" come qualcuno vorrebbe farci credere, perfino nelle moschee si predica diversamente.
Il sermone rispercorre fin dalle origini i rapporti tra Occidente e Islam, i rapporti all'insegna della tolleranza tra le religioni del libro, ribadendo i principi e l'essenza dell'Islam:
«'We are guided by the Koran and by the words of the Prophet. Anyone who harms the People of the Book harms me.' What does this mean? If you are a Muslim and in your country are Jews, Christians, and Sabians, do not harm them, because if you harm them, you are harming the Prophet Muhammad. How wonderful this tolerance is?!... Islam is the religion of tolerance, the religion of good, the religion of love».
«Hear, countries of the world: In our city there are no weapons. Do we have weapons of mass destruction?! We have weapons of mass construction: good deeds, the Koran, prayer. This is our weapon. We are people of mass construction and not of mass destruction. We are people of comprehensive justice, for Islam and the other religions, and we do not differentiate between white and black, rich and poor, minister and emir, merchant and poor. No! The essence is Islam...».
Individua nell'ideologia marxista e non nell'America la causa prima delle sofferenze patite in Iraq:
«What happened to us was not caused by the force of America. By Allah, we do not fear its force, because all power is Allah's. What happened to us was because we distanced ourselves from Islam. It was not due to the power of the American forces, but because we followed Marxism and Socialism and violated the principles of Islam...».
Chiede agli americani di portare libertà e democrazia, e di andarsene, di comportarsi non secondo la loro potenza, ma secondo la loro umanità:
«If the previous government was unjust, you americans, come cooperate with us and bring freedom and democracy, as you claim, so that the Iraqi people will live in security and comfort and will elect a good government that will give rights to every human being...».
«We call on America to draw strength from its humanity and not from its power... We appreciate the things that America and its president have done for us. First of all, the removal of the siege on Iraq – for this we must thank them. Second, for not harming the Iraqi people for what the deposed rulers did».
«We call on the American forces to leave our city. We will protect our [own] people, city, and children».
«We demand always a Muslim ruler, but not an extremist and arrogant Muslim leader, as was in Iran and Afghanistan, in which there were rulers who did not understand life, and did not know how to cooperate with the countries and the other minorities and to give them rights...».
Leggi tutto.
Memri - The Middle East Media Research Insitute
La scorsa settimana a Falouja, città dell'Iraq, durante una manifestazione ci sono stati scontri a fuoco tra gli iracheni e le truppe americane, che hanno ucciso alcuni civili. Quelli che seguono sono brani tratti dal sermone pronunciato venerdì 2 maggio da Sheikh Jamal Shakir Al-Nazzal alla grande moschea di Falouja. Gli estremisti islamici, ma spesso anche in troppi qui da noi, hanno interesse a presentare l'Islam come una religione incompatibile con la democrazia. Si tratta di razzismo e nonostante le tensioni e le tragedie che si stanno vivendo in Iraq, gli islamici non sono così ostili agli americani "invasori" come qualcuno vorrebbe farci credere, perfino nelle moschee si predica diversamente.
Il sermone rispercorre fin dalle origini i rapporti tra Occidente e Islam, i rapporti all'insegna della tolleranza tra le religioni del libro, ribadendo i principi e l'essenza dell'Islam:
«'We are guided by the Koran and by the words of the Prophet. Anyone who harms the People of the Book harms me.' What does this mean? If you are a Muslim and in your country are Jews, Christians, and Sabians, do not harm them, because if you harm them, you are harming the Prophet Muhammad. How wonderful this tolerance is?!... Islam is the religion of tolerance, the religion of good, the religion of love».
«Hear, countries of the world: In our city there are no weapons. Do we have weapons of mass destruction?! We have weapons of mass construction: good deeds, the Koran, prayer. This is our weapon. We are people of mass construction and not of mass destruction. We are people of comprehensive justice, for Islam and the other religions, and we do not differentiate between white and black, rich and poor, minister and emir, merchant and poor. No! The essence is Islam...».
Individua nell'ideologia marxista e non nell'America la causa prima delle sofferenze patite in Iraq:
«What happened to us was not caused by the force of America. By Allah, we do not fear its force, because all power is Allah's. What happened to us was because we distanced ourselves from Islam. It was not due to the power of the American forces, but because we followed Marxism and Socialism and violated the principles of Islam...».
Chiede agli americani di portare libertà e democrazia, e di andarsene, di comportarsi non secondo la loro potenza, ma secondo la loro umanità:
«If the previous government was unjust, you americans, come cooperate with us and bring freedom and democracy, as you claim, so that the Iraqi people will live in security and comfort and will elect a good government that will give rights to every human being...».
«We call on America to draw strength from its humanity and not from its power... We appreciate the things that America and its president have done for us. First of all, the removal of the siege on Iraq – for this we must thank them. Second, for not harming the Iraqi people for what the deposed rulers did».
«We call on the American forces to leave our city. We will protect our [own] people, city, and children».
«We demand always a Muslim ruler, but not an extremist and arrogant Muslim leader, as was in Iran and Afghanistan, in which there were rulers who did not understand life, and did not know how to cooperate with the countries and the other minorities and to give them rights...».
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Memri - The Middle East Media Research Insitute
Who wants to be a martyr?
Un articolo sul New York Times di Scott Atran, National Center for Scientific Research a Parigi e University of Michigan, autore di "In Gods We Trust: The Evolutionary Landscape of Religion".
Credo anch'io che il terrorismo suicida sia provocato più da fanatismo e indottrinamento che dalla disperazione causata dalla povertà. Tuttavia, per convincere i popoli arabi del processo di democratizzazione in Medio Oriente, oltre a sostenere chi già si batte per questo, bisogna collegare la democrazia ad una speranza di benessere economico e di sviluppo. Ai poveri non si può parlare solo di principi, ma anche di 'pagnotte'.
Vero che gli arabi sono attratti dai nostri modelli, ma non comprendono le nostre azioni. Ripeto anche il forte bisogno di un più sapiente 'marketing democratico, occidentale e americano' presso le popolazioni arabe.
«President Bush and many American politicans maintain that these groups and the people supporting them hate our democracy and freedoms. But poll after poll of the Muslim world shows opinion strongly favoring America's forms of government, personal liberty and education. A University of Michigan political scientist, Mark Tessler, finds Arab attitudes to American culture most favorable among young adults (regardless of their religious feeling) — the same population that recruiters single out. It is our actions that they don't like: as long ago as 1997, a Defense Department report (in response to the 1996 suicide bombing of Air Force housing at the Khobar Towers in Saudi Arabia) noted that "historical data show a strong correlation between U.S. involvement in international situations and an increase in terrorist attacks against the United States».
«We need to show the Muslim world the side of our culture that they most respect. Our engagement needs to involve interfaith initiatives, not ethnic profiling. America must address grievances, such as the conflict in the Palestinian territories, whose daily images of violence engender global Muslim resentment».
«Of course, this does not mean negotiating with terrorist groups over goals like Al Qaeda's quest to replace the Western-inspired system of nation-states with a global caliphate. Osama bin Laden seeks no compromise. But most of the people who sympathize with him just might».
Leggi tutto
New York Times
Un articolo sul New York Times di Scott Atran, National Center for Scientific Research a Parigi e University of Michigan, autore di "In Gods We Trust: The Evolutionary Landscape of Religion".
Credo anch'io che il terrorismo suicida sia provocato più da fanatismo e indottrinamento che dalla disperazione causata dalla povertà. Tuttavia, per convincere i popoli arabi del processo di democratizzazione in Medio Oriente, oltre a sostenere chi già si batte per questo, bisogna collegare la democrazia ad una speranza di benessere economico e di sviluppo. Ai poveri non si può parlare solo di principi, ma anche di 'pagnotte'.
Vero che gli arabi sono attratti dai nostri modelli, ma non comprendono le nostre azioni. Ripeto anche il forte bisogno di un più sapiente 'marketing democratico, occidentale e americano' presso le popolazioni arabe.
«President Bush and many American politicans maintain that these groups and the people supporting them hate our democracy and freedoms. But poll after poll of the Muslim world shows opinion strongly favoring America's forms of government, personal liberty and education. A University of Michigan political scientist, Mark Tessler, finds Arab attitudes to American culture most favorable among young adults (regardless of their religious feeling) — the same population that recruiters single out. It is our actions that they don't like: as long ago as 1997, a Defense Department report (in response to the 1996 suicide bombing of Air Force housing at the Khobar Towers in Saudi Arabia) noted that "historical data show a strong correlation between U.S. involvement in international situations and an increase in terrorist attacks against the United States».
«We need to show the Muslim world the side of our culture that they most respect. Our engagement needs to involve interfaith initiatives, not ethnic profiling. America must address grievances, such as the conflict in the Palestinian territories, whose daily images of violence engender global Muslim resentment».
«Of course, this does not mean negotiating with terrorist groups over goals like Al Qaeda's quest to replace the Western-inspired system of nation-states with a global caliphate. Osama bin Laden seeks no compromise. But most of the people who sympathize with him just might».
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New York Times
Quel pasticciaccio della Sme
Della complicata vicenda di quel pasticciaccio che fu, ed è, la vendita della Sme da parte dell'Iri di Prodi a De Benedetti, si può parlare solo per supposizioni. Cercando di affrontare ogni affermazione dei protagonisti col massimo della ragionevolezza, ci troviamo di fronte, come quasi sempre in questi casi, a mezze verità, dove ognuno ha la sua parte di ragione, o, forse, ognuno la sua parte di torto. E' un'ovvietà, ma val la pena ricordare che la cornice in cui va inquadrata la vicenda di allora è quella di una lotta tra gruppi di potere politico-economici, come per altro, oltre le responsabilità dei singoli, spesso accade quando la mano dello Stato si allunga così tanto sull'economia. E la vicenda giudiziaria di oggi, a prescindere dalle responsabilità penali, riveste tutto il carattere di una battaglia politica. Per un compendio completo di ciò che è avvenuto ieri, con la deposizione spontanea del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi in Tribunale a Milano, rimando ai servizi di RadioRadicale.it. Oggi gli ultimi sviluppi politici e i commenti sui quotidiani.
E' probabile che il prezzo fatto da Prodi a De Benedetti per acquistare la partecipazione statale dell'Iri in Sme sia stato un 'prezzo di favore', forse non da svendita, ma di favore.
E' probabile che non si sia cercato molto in giro per offerte concorrenti.
E' probabile che Craxi non voleva abbandonare la partecipazione statale nelle industrie alimentari della Sme, che considerava 'strategiche', mentre il progetto di Prodi all'Iri era proprio questo, e non possiamo dargli torto.
E' altresì probabile che Craxi fosse anche preoccupato del realizzarsi di uno scambio di favori tra un concorrente gruppo di potere politico-economico.
E' molto probabile che Craxi abbia chiesto al suo amico B. di opporre un'offerta per bloccare tutto. La guerra tra Berlusconi e De Benedetti è da sempre totale.
E' probabile che, accettando l'offerta di De Benedetti gli si stava facendo un favore, ma è anche vero che lo Stato si sarebbe liberato di settori non strategici e dei grossi costi di risanamento dovuti sopportare in seguito prima di vendere, otto anni dopo, quelle industrie.
E' probabile che Berlusconi abbia voluto sollevare il polverone, ma si è dissociato dalla strategia Previti: ha deciso di partecipare al processo, che è politico, e per questo non gli si può chiedere di non chiamare a rispondere altri politici coinvolti. Rimane un polverone.
E' probabile che la sua sia stata una buona mossa: se la Corte rifiuterà di acquisire tutti gli elementi da lui proposti, ciò avverrà sotto gli occhi attenti di un'opinione pubblica curiosa di accertare l'esistenza della persecuzione politica.
Infine, premesso che senza l'autorizzazione del governo nulla sarebbe stato venduto, se Craxi trovò il modo di bloccare la vendita, a cosa servì corrompere i giudici?
Della complicata vicenda di quel pasticciaccio che fu, ed è, la vendita della Sme da parte dell'Iri di Prodi a De Benedetti, si può parlare solo per supposizioni. Cercando di affrontare ogni affermazione dei protagonisti col massimo della ragionevolezza, ci troviamo di fronte, come quasi sempre in questi casi, a mezze verità, dove ognuno ha la sua parte di ragione, o, forse, ognuno la sua parte di torto. E' un'ovvietà, ma val la pena ricordare che la cornice in cui va inquadrata la vicenda di allora è quella di una lotta tra gruppi di potere politico-economici, come per altro, oltre le responsabilità dei singoli, spesso accade quando la mano dello Stato si allunga così tanto sull'economia. E la vicenda giudiziaria di oggi, a prescindere dalle responsabilità penali, riveste tutto il carattere di una battaglia politica. Per un compendio completo di ciò che è avvenuto ieri, con la deposizione spontanea del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi in Tribunale a Milano, rimando ai servizi di RadioRadicale.it. Oggi gli ultimi sviluppi politici e i commenti sui quotidiani.
E' probabile che il prezzo fatto da Prodi a De Benedetti per acquistare la partecipazione statale dell'Iri in Sme sia stato un 'prezzo di favore', forse non da svendita, ma di favore.
E' probabile che non si sia cercato molto in giro per offerte concorrenti.
E' probabile che Craxi non voleva abbandonare la partecipazione statale nelle industrie alimentari della Sme, che considerava 'strategiche', mentre il progetto di Prodi all'Iri era proprio questo, e non possiamo dargli torto.
E' altresì probabile che Craxi fosse anche preoccupato del realizzarsi di uno scambio di favori tra un concorrente gruppo di potere politico-economico.
E' molto probabile che Craxi abbia chiesto al suo amico B. di opporre un'offerta per bloccare tutto. La guerra tra Berlusconi e De Benedetti è da sempre totale.
E' probabile che, accettando l'offerta di De Benedetti gli si stava facendo un favore, ma è anche vero che lo Stato si sarebbe liberato di settori non strategici e dei grossi costi di risanamento dovuti sopportare in seguito prima di vendere, otto anni dopo, quelle industrie.
E' probabile che Berlusconi abbia voluto sollevare il polverone, ma si è dissociato dalla strategia Previti: ha deciso di partecipare al processo, che è politico, e per questo non gli si può chiedere di non chiamare a rispondere altri politici coinvolti. Rimane un polverone.
E' probabile che la sua sia stata una buona mossa: se la Corte rifiuterà di acquisire tutti gli elementi da lui proposti, ciò avverrà sotto gli occhi attenti di un'opinione pubblica curiosa di accertare l'esistenza della persecuzione politica.
Infine, premesso che senza l'autorizzazione del governo nulla sarebbe stato venduto, se Craxi trovò il modo di bloccare la vendita, a cosa servì corrompere i giudici?
Monday, May 05, 2003
Nuova sinistra americana
"Terror and liberalism" è l'ultimo libro di Paul Berman, intellettuale della nuova sinistra americana che scrive per il Dissent, per il magazine del New York Times, per New Republic e Slate. La sua tesi è: il fondamentalismo islamico è il nuovo fascismo, se siamo di sinistra dobbiamo combatterlo. Christian Rocca su Il Foglio ci spiega che nel libro, con "taglio filosofico e storico", cerca di dimostrare come la "guerra al terrorismo non sia una guerra imperialista né uno scontro di civiltà", ma il proseguimento della guerra contro i totalitarismi che hanno afflitto l'Occidente nel secolo scorso e le cui ideologie e uso della violenza influenzano il fondamentalismo islamico: "Politiche totalitarie e pratiche terroristiche" sono state "importate dall'occidente, dal nichilismo e dal fascismo/stalinismo", ma "nella cultura e nella storia araba non c'è niente" di tutto questo e che giustifichi una pretesa impossibilità di organizzare gli Stati come democrazie. Se è una guerra antifascista, può essere anche una guerra "di sinistra". Leggi tutto
Ne scrive anche il Washington Monthly
Camillo
"Terror and liberalism" è l'ultimo libro di Paul Berman, intellettuale della nuova sinistra americana che scrive per il Dissent, per il magazine del New York Times, per New Republic e Slate. La sua tesi è: il fondamentalismo islamico è il nuovo fascismo, se siamo di sinistra dobbiamo combatterlo. Christian Rocca su Il Foglio ci spiega che nel libro, con "taglio filosofico e storico", cerca di dimostrare come la "guerra al terrorismo non sia una guerra imperialista né uno scontro di civiltà", ma il proseguimento della guerra contro i totalitarismi che hanno afflitto l'Occidente nel secolo scorso e le cui ideologie e uso della violenza influenzano il fondamentalismo islamico: "Politiche totalitarie e pratiche terroristiche" sono state "importate dall'occidente, dal nichilismo e dal fascismo/stalinismo", ma "nella cultura e nella storia araba non c'è niente" di tutto questo e che giustifichi una pretesa impossibilità di organizzare gli Stati come democrazie. Se è una guerra antifascista, può essere anche una guerra "di sinistra". Leggi tutto
Ne scrive anche il Washington Monthly
Camillo
Saturday, May 03, 2003
Mafia: Andreotti assolto in appello. Può tornare a baciare
Andreotti di nuovo assolto. Dieci anni di procedimenti partiti dal bacio di Riina, "la prova". Se le accuse erano infondate, allora è stata un'operazione politica. Se erano fondante, ma i pm di una delle maggiori procure italiane non sono riusciti a dimostrare la colpevolezza dell'imputato, allora è solo una questione di incapacità. In entrambi i casi, qualcuno dovrebbe rendere conto del denaro dei contribuenti speso in due lustri, delle energie sottratte alla procura dalla vera lotta alla mafia, se questa mafia non era. Talvolta la logica è stringente. I pm? O persecutori, o incapaci. Sempre, s'intende, con rispetto parlando.
Su Radio Radicale è andato in onda ieri sera un interessante Speciale Giustizia di commenti alla sentenza di assoluzione. Da non perdere l'intervento dell'avvocato di Andreotti, Giulia Buongiorno. Riascoltalo
Andreotti di nuovo assolto. Dieci anni di procedimenti partiti dal bacio di Riina, "la prova". Se le accuse erano infondate, allora è stata un'operazione politica. Se erano fondante, ma i pm di una delle maggiori procure italiane non sono riusciti a dimostrare la colpevolezza dell'imputato, allora è solo una questione di incapacità. In entrambi i casi, qualcuno dovrebbe rendere conto del denaro dei contribuenti speso in due lustri, delle energie sottratte alla procura dalla vera lotta alla mafia, se questa mafia non era. Talvolta la logica è stringente. I pm? O persecutori, o incapaci. Sempre, s'intende, con rispetto parlando.
Su Radio Radicale è andato in onda ieri sera un interessante Speciale Giustizia di commenti alla sentenza di assoluzione. Da non perdere l'intervento dell'avvocato di Andreotti, Giulia Buongiorno. Riascoltalo
Esportare la democrazia, ma non con la guerra. E' possibile
Un mio amico radicale ci parla della campagna per l'Organizzazione mondiale della democrazia e per le "armi di attrazione di massa". Infrangere le "cortine dittatoriali" con la forza dirompente dell'informazione, invece che con guerre e distruzioni per i radicali è possibile. «Tutto dipende dalle forze che i radicali riusciranno a mobilitare intorno alla loro battaglia. Perché, come sarà di già chiaro con gli emendamenti alla prossima finanziaria, o queste convinzioni e speranze saranno fatte proprie trasversalmente, anche a livello parlamentare, oppure tutto rischierà di essere tardivo». Questo è il suo articolo pubblicato su Gazzetta Politica: Leggi tutto
RadioRadicale.it
Sì, ma. Considerazioni sulle esportazioni
"Attrarre" i popoli verso la democrazia è un obiettivo sacrosanto. E' l'unico modo che finora ho ascoltato di chiedere pace presentando un'alternativa difficile, ma concreta e non impossibile, non utopistica. Un modo che non ha avuto proseliti nelle piazze poiché, si sa, la dinamica della folla fa a pugni con la ragionevolezza, che è cosa radicale e non conformista.
L'autore di questo blog crede che gli strumenti della comunicazione e dell'informazione siano "in grado di promuovere i processi democratici, aiutando i dissidenti interni, screditando i regimi dittatoriali o, fornendo informazione completa e vero dibattito in una situazione a rischio". Non credo invece che "il potenziamento dell'industria bellica" sia di per sè un danno: dipende dai contesti, dalla realtà e dall'immediatezza della minaccia per le sicurezze nazionali.
Certo sono convinto della necessità di puntare con forza sul 'bombardamento' d'informazione per battere le dittature e liberare i popoli, ma bisogna riconoscere che "nel campo delle 'armi di attrazione di massa' l'unica esperienza in corso è quella americana" e chiedersi perché.
La vera questione è infatti la convinzione di voler esportare o meno la democrazia. Questo i governi occidentali devono prima di tutto decidere. Se la risposta è sì, è necessario muoversi: sia nella direzione indicata, sia con rapporti diplomatici ed economici in cui il parametro democrazia e diritti sia effettivamente uno dei paramentri, anche se certo non l'unico, sia, come ultima risorsa, con il ricorso alla forza misurata.
Io ne sono convinto, ma osservo pacatamente che questa decisione contiene in sé un equilibrio delicato: quanto di relativismo culturale e quanto di visione etica nei nostri comportamenti. Una maggiore invasività dei valori in cui crediamo, seppure in forme pacifiche, si traduce in una scelta etica nei confronti delle altre civiltà: ci sentiamo nel giusto e ci esportiamo. E' ovvio altresì che stare a guardare mentre si compiono massacri di dignità e di diritti legittimamente ritenuti universali è assai più deplorevole e inaccettabile. E', appunto, un delicato equilibrio.
Bisogna essere consapevoli che l'invasività dei valori che ci appartengono, per quanto alcuni nobili, come e forze più delle guerre, ha prodotto e produce reazione, terrorismo. Per questo è necessario affiancare a tale esportazione di democrazia vere e proprie politiche di marketing democratico e occidentale e offrire prospettive di ricchezza, convincendo che scegliere la democrazia significa anche scegliere maggiori opportunità di benessere. D'altronde, in tutto il mondo la 'pagnotta' ha sempre il suo peso.
Un mio amico radicale ci parla della campagna per l'Organizzazione mondiale della democrazia e per le "armi di attrazione di massa". Infrangere le "cortine dittatoriali" con la forza dirompente dell'informazione, invece che con guerre e distruzioni per i radicali è possibile. «Tutto dipende dalle forze che i radicali riusciranno a mobilitare intorno alla loro battaglia. Perché, come sarà di già chiaro con gli emendamenti alla prossima finanziaria, o queste convinzioni e speranze saranno fatte proprie trasversalmente, anche a livello parlamentare, oppure tutto rischierà di essere tardivo». Questo è il suo articolo pubblicato su Gazzetta Politica: Leggi tutto
RadioRadicale.it
Sì, ma. Considerazioni sulle esportazioni
"Attrarre" i popoli verso la democrazia è un obiettivo sacrosanto. E' l'unico modo che finora ho ascoltato di chiedere pace presentando un'alternativa difficile, ma concreta e non impossibile, non utopistica. Un modo che non ha avuto proseliti nelle piazze poiché, si sa, la dinamica della folla fa a pugni con la ragionevolezza, che è cosa radicale e non conformista.
L'autore di questo blog crede che gli strumenti della comunicazione e dell'informazione siano "in grado di promuovere i processi democratici, aiutando i dissidenti interni, screditando i regimi dittatoriali o, fornendo informazione completa e vero dibattito in una situazione a rischio". Non credo invece che "il potenziamento dell'industria bellica" sia di per sè un danno: dipende dai contesti, dalla realtà e dall'immediatezza della minaccia per le sicurezze nazionali.
Certo sono convinto della necessità di puntare con forza sul 'bombardamento' d'informazione per battere le dittature e liberare i popoli, ma bisogna riconoscere che "nel campo delle 'armi di attrazione di massa' l'unica esperienza in corso è quella americana" e chiedersi perché.
La vera questione è infatti la convinzione di voler esportare o meno la democrazia. Questo i governi occidentali devono prima di tutto decidere. Se la risposta è sì, è necessario muoversi: sia nella direzione indicata, sia con rapporti diplomatici ed economici in cui il parametro democrazia e diritti sia effettivamente uno dei paramentri, anche se certo non l'unico, sia, come ultima risorsa, con il ricorso alla forza misurata.
Io ne sono convinto, ma osservo pacatamente che questa decisione contiene in sé un equilibrio delicato: quanto di relativismo culturale e quanto di visione etica nei nostri comportamenti. Una maggiore invasività dei valori in cui crediamo, seppure in forme pacifiche, si traduce in una scelta etica nei confronti delle altre civiltà: ci sentiamo nel giusto e ci esportiamo. E' ovvio altresì che stare a guardare mentre si compiono massacri di dignità e di diritti legittimamente ritenuti universali è assai più deplorevole e inaccettabile. E', appunto, un delicato equilibrio.
Bisogna essere consapevoli che l'invasività dei valori che ci appartengono, per quanto alcuni nobili, come e forze più delle guerre, ha prodotto e produce reazione, terrorismo. Per questo è necessario affiancare a tale esportazione di democrazia vere e proprie politiche di marketing democratico e occidentale e offrire prospettive di ricchezza, convincendo che scegliere la democrazia significa anche scegliere maggiori opportunità di benessere. D'altronde, in tutto il mondo la 'pagnotta' ha sempre il suo peso.
Friday, May 02, 2003
Diario di eMMA bONINO dallo Yemen prove di democrazia
Il diario di Emma Bonino da Sanaa, dopo le elezioni politiche nello Yemen: «Anche se nessuno lo riconosce apertamente, a parte qualche dissidente coraggioso, la caduta di Bagdad comincia ad avere per questa regione lo stesso effetto che ebbe per l'est europeo la caduta del muro di Berlino». Questo l'articolo di Emma Bonino pubblicato sul 'Corriere della Sera' del 1 maggio 2003 in cui la leader radicale si sofferma sull'esito delle elezioni nello Yemen, il paese arabo in cui più avanzato è il processo di democratizzazione.
«L'Europa, dopo aver speso tante parole in questi mesi per affermare che la democrazia non si promuove e non si esporta con le bombe, è assente proprio in questo Paese che, senza molti concorrenti nel panorama medio-orientale, ha avviato da solo, con le sue poche risorse, il suo lento e difficile processo verso la democrazia».
«Ci sono stati anche incidenti e probabilmente il partito di governo avrà utilizzato più di uno strumento di pressione per conservare la maggioranza dei voti. Ma il solo fatto che i cittadini dello Yemen, unici in questa area del mondo, abbiano potuto scegliere da chi farsi governare, nel rispetto almeno formale della libertà e della segretezza del voto, è un fatto di straordinaria importanza. Questo non vuol dire che lo Yemen sia un paradiso in terra e una democrazia compiuta.
Molta strada deve essere ancora fatta».
«Ma pur in questo contesto, nello Yemen il difficile e lungo processo verso la democrazia è partito, l'Europa sia finalmente coinvolta politicamente dalle vicende di questo Paese ai massimi livelli, lo accompagni e lo sostenga nella delicata strada intrapresa, non solo con i suoi utilissimi e anche consistenti aiuti finanziari. Un segno tangibile di questo nuovo interesse sarebbe certamente l'apertura in Yemen di una delegazione dell'Unione». Leggi tutto
RadioRadicale.it
Il diario di Emma Bonino da Sanaa, dopo le elezioni politiche nello Yemen: «Anche se nessuno lo riconosce apertamente, a parte qualche dissidente coraggioso, la caduta di Bagdad comincia ad avere per questa regione lo stesso effetto che ebbe per l'est europeo la caduta del muro di Berlino». Questo l'articolo di Emma Bonino pubblicato sul 'Corriere della Sera' del 1 maggio 2003 in cui la leader radicale si sofferma sull'esito delle elezioni nello Yemen, il paese arabo in cui più avanzato è il processo di democratizzazione.
«L'Europa, dopo aver speso tante parole in questi mesi per affermare che la democrazia non si promuove e non si esporta con le bombe, è assente proprio in questo Paese che, senza molti concorrenti nel panorama medio-orientale, ha avviato da solo, con le sue poche risorse, il suo lento e difficile processo verso la democrazia».
«Ci sono stati anche incidenti e probabilmente il partito di governo avrà utilizzato più di uno strumento di pressione per conservare la maggioranza dei voti. Ma il solo fatto che i cittadini dello Yemen, unici in questa area del mondo, abbiano potuto scegliere da chi farsi governare, nel rispetto almeno formale della libertà e della segretezza del voto, è un fatto di straordinaria importanza. Questo non vuol dire che lo Yemen sia un paradiso in terra e una democrazia compiuta.
Molta strada deve essere ancora fatta».
«Ma pur in questo contesto, nello Yemen il difficile e lungo processo verso la democrazia è partito, l'Europa sia finalmente coinvolta politicamente dalle vicende di questo Paese ai massimi livelli, lo accompagni e lo sostenga nella delicata strada intrapresa, non solo con i suoi utilissimi e anche consistenti aiuti finanziari. Un segno tangibile di questo nuovo interesse sarebbe certamente l'apertura in Yemen di una delegazione dell'Unione». Leggi tutto
RadioRadicale.it
Il genoma del virus Sars
La rivista scientifica Science pubblica sul suo sito il genoma del virus Sars (Paul A. Rota et al.; Marco A. Marra et al.) e l'editoriale del numero in uscita.
"The sequences of two isolates of the coronavirus associated with SARS show that it is not closely related to any of the previously characterized coronaviruses". Leggi tutto
Science
La rivista scientifica Science pubblica sul suo sito il genoma del virus Sars (Paul A. Rota et al.; Marco A. Marra et al.) e l'editoriale del numero in uscita.
"The sequences of two isolates of the coronavirus associated with SARS show that it is not closely related to any of the previously characterized coronaviruses". Leggi tutto
Science
La 'road map' è in salita
Non sarà facile per Abu Mazen ritagliarsi lo spazio d'azione necessario a ricostruire il processo di pace dal potere dispotico di Arafat, il quale ha sì perso la battaglia per i ministri sotto le fortissime pressioni giunte da Washington, Londra, e anche da Bruxelles e alcune capitali arabe, ma le tenterà tutte per rimanere nei giochi, screditare il suo primo ministro all'estero e delegittimarlo nei Territori. Anche il ruolo dei paesi europei potrà essere fondamentale. C'è da sperare che non si correrà in soccorso dell'anziano leader che troppo a lungo ha continuato a giocare la carta del terrorismo e che, soprattutto, non ha bisogno di aiuti.
E Israele? «I dignitari esteri che intendano andare a visitare Yasser Arafat non saranno in alcun modo ostacolati, solo poi non pretendano di incontrare il primo ministro di Israele, che è "impegnatissimo" e per ragioni tecniche non potrà incontrare nessuno. Vale per chiunque intenda continuare a far sentire Arafat forte e autorevole come sempre».
Speciale road map/prima parte
Speciale road map/seconda parte
Con commenti di Simonetta Della Seta ed Emanuele Ottolenghi
Il Foglio
Non sarà facile per Abu Mazen ritagliarsi lo spazio d'azione necessario a ricostruire il processo di pace dal potere dispotico di Arafat, il quale ha sì perso la battaglia per i ministri sotto le fortissime pressioni giunte da Washington, Londra, e anche da Bruxelles e alcune capitali arabe, ma le tenterà tutte per rimanere nei giochi, screditare il suo primo ministro all'estero e delegittimarlo nei Territori. Anche il ruolo dei paesi europei potrà essere fondamentale. C'è da sperare che non si correrà in soccorso dell'anziano leader che troppo a lungo ha continuato a giocare la carta del terrorismo e che, soprattutto, non ha bisogno di aiuti.
E Israele? «I dignitari esteri che intendano andare a visitare Yasser Arafat non saranno in alcun modo ostacolati, solo poi non pretendano di incontrare il primo ministro di Israele, che è "impegnatissimo" e per ragioni tecniche non potrà incontrare nessuno. Vale per chiunque intenda continuare a far sentire Arafat forte e autorevole come sempre».
Speciale road map/prima parte
Speciale road map/seconda parte
Con commenti di Simonetta Della Seta ed Emanuele Ottolenghi
Il Foglio
Perché l'articolo 18 non è un fine, ma soltanto un mezzo
L'articolo 18. Un diritto fondamentale del cittadino (sì al referendum perché occorre estenderlo a tutti i lavoratori) o uno dei tanti modi, una delle tante tecniche di tutela possibili (non si vede perché non si possa discutere delle alternative)?
E poi, i difetti dell'articolo 18, il referendum, il licenziamento per motivi economici, la piccola impresa, nei paesi stranieri, il modello tedesco, la proposta di legge Debenedetti, nelle argomentazioni di Pietro Ichino, ordinario di Diritto del Lavoro presso l'Università degli studi di Milano: «Il referendum ci costringe tutti quanti a prendere atto che una cosa è il diritto fondamentale di libertà, dignità e sicurezza del lavoratore nel luogo di lavoro, sancito dall’articolo 41 della Costituzione, che deve essere garantito a tutti i lavoratori indistintamente; altra cosa è il modo migliore per assicurare efficacemente a tutti i lavoratori questo diritto. L’art. 18 è solo uno dei tanti modi possibili. E non il migliore». Leggi
E Michele Magno, Direzione nazionale Ds, chiede al partito un 'no' esplicito al referendum. Leggi (colonna a sinistra)
Il Foglio
L'articolo 18. Un diritto fondamentale del cittadino (sì al referendum perché occorre estenderlo a tutti i lavoratori) o uno dei tanti modi, una delle tante tecniche di tutela possibili (non si vede perché non si possa discutere delle alternative)?
E poi, i difetti dell'articolo 18, il referendum, il licenziamento per motivi economici, la piccola impresa, nei paesi stranieri, il modello tedesco, la proposta di legge Debenedetti, nelle argomentazioni di Pietro Ichino, ordinario di Diritto del Lavoro presso l'Università degli studi di Milano: «Il referendum ci costringe tutti quanti a prendere atto che una cosa è il diritto fondamentale di libertà, dignità e sicurezza del lavoratore nel luogo di lavoro, sancito dall’articolo 41 della Costituzione, che deve essere garantito a tutti i lavoratori indistintamente; altra cosa è il modo migliore per assicurare efficacemente a tutti i lavoratori questo diritto. L’art. 18 è solo uno dei tanti modi possibili. E non il migliore». Leggi
E Michele Magno, Direzione nazionale Ds, chiede al partito un 'no' esplicito al referendum. Leggi (colonna a sinistra)
Il Foglio
Thursday, May 01, 2003
Signor presidente del Consiglio, perché dovremmo crederle?
Berlusconi, come spesso gli accade, alla fine, sbotta, come si dice a Roma, "svacca", e si sfoga come solo lui sa fare. E non va per niente bene. La sua ricostruzione storico-politica nella lettera al quotidiano Il Foglio sui dieci anni del pool milanese da 'mani pulite' a 'toghe sporche' può essere condivisibile, può reggere. Però. Però cominciano ad essere tanti i se e i ma.
La magistratura politicizzata, che combatte (da quando la debolezza del sistema politico e lo scenario internazionale lo permettono) a suon di avvisi di garanzia e sentenze i propri nemici ideologici o di casta, esiste. Tutti, nel nostro profondo, senza ipocrisie, possiamo e dobbiamo riconoscerlo, e il pool dei magistrati milanesi, da Borrelli a D'Ambrosio, da Di Pietro alla Bocassini, rappresenta l'esempio più concreto, non l'unico, purtroppo. Esiste una forte anima giustizialista che attraversa il mondo politico e l'opinione pubblica: settori della magistratura, esponenti politici, movimenti, intellettuali, giornalisti, semplici cittadini si sentono, da circa una dozzina d'anni, investiti della missione di 'ripulire' il paese, forti di una loro presunta superiorità morale. Una spinta moralizzatrice dal sapore giacobino, una jihad che troppo spesso ha provocato clamorosi errori giudiziari, condanne illustri, ma almeno altrettante assoluzioni illustri (Berlusconi è stato assolto con formula piena dal procedimento che seguì il noto avviso di garanzia ricevuto a Napoli da presidente del Consiglio), gogne mediatiche, suicidi, macerie del diritto e della dignità umana, 'ribaltoni'.
Non è questa poi, la sede per ricordare tutto ciò che rende la Giustizia italiana la più condannata in Europa, la più lenta, la più iniqua. Le sue maglie si allargano e si stringono un po' troppo arbitrariamente.
Per Silvio Berlusconi però, sta trascorrendo molto in fretta quel tempo in cui può aspettarsi di godere presso i suoi elettori di una minima credibilità politica quando lancia le sue accuse alla magistratura politicizzata. Per far pesare davanti all'opinione pubblica quelle gravi accuse bisogna costruirsi con i fatti una credibilità e un'autorevolezza politica (e sottolineo POLITICA). Proprio ciò che finora il premier non ha fatto, rendendo difficile, anche a chi condivida le sue analisi storico-politiche, credere nella sua buona fede. La mia in effetti vuole essere una considerazione dal carattere squisitamente politico e non giudiziario, né tanto meno morale (se Silvio e il suo amico Previti siano colpevoli e/o corrotti probabilmente non mi verrà dato di saperlo).
Per ora quella credibilità necessaria sembra latitare. E' innegabile che tutti i provvedimenti adottati finora da Governo e maggioranza sulla Giustizia (Cirami, rogatorie e falso in bilancio), seppure anche condivisibili nel merito, contengono in sé il corto respiro di 'toppe' per fuggire da quei processi a carico del presidente e dei suoi amici. Tali provvedimenti, con la loro vocazione 'ad personam', sono lontani anni luce da riforme organiche della Giustizia e, in particolare dell'ordinamento giudiziario, che avrebbero invece la propria vocazione nell'interesse della generalità dei cittadini a cui ci si vorrebbe richiamare. Riforme che si chiamano separazione delle carriere, responsabilità civile dei magistrati, incarichi extra-giudiziari, formazione e progressione delle carriere possono essere criticate e combattute, ma non accusate di esser dettate dal solo interesse personale del premier.
Il legittimo sospetto nei confronti di alcune procure esiste, ma sta passando velocemente a carico del presidente Berlusconi: dimostri con i fatti, non a parole, accuse e sfoghi, che la sua azione politica per la giustizia italiana è guidata da un genuino interesse per la generalità dei cittadini e non, o non solo, per la sua salvaguardia personale. Due anni di governo ormai son trascorsi e i fatti purtroppo, avendo egli dato ampia priorità alle leggine citate e non alle grandi riforme, non gli attribuiscono la credibilità necessaria per ribellarsi a certe sentenze, o non, almeno, per farlo in nome della democrazia e del Paese. Sto parlando proprio di quella credibilità che manca, ad esempio, anche al centrosinistra quando sbraita e si svocia sul conflitto d'interessi, questione che non ha saputo-voluto risolvere nell'arco di un'intera legislatura trascorsa da maggioranza parlamentare.
Signor presidente del Consiglio, perché dunque, dovremmo crederle? Ella scrive su Il Foglio che bisogna "reagire", e "reagire per tempo", che "bisogna alzare i toni della nostra democrazia", ma se tutto si risolve nel salvare lei e i suoi amici, e non nel riformare la nostra giustizia malata, allora non la seguo e credo che così faranno anche gli italiani, che non sono filantropi, ma vogliono la 'pagnotta' delle riforme.
Berlusconi, come spesso gli accade, alla fine, sbotta, come si dice a Roma, "svacca", e si sfoga come solo lui sa fare. E non va per niente bene. La sua ricostruzione storico-politica nella lettera al quotidiano Il Foglio sui dieci anni del pool milanese da 'mani pulite' a 'toghe sporche' può essere condivisibile, può reggere. Però. Però cominciano ad essere tanti i se e i ma.
La magistratura politicizzata, che combatte (da quando la debolezza del sistema politico e lo scenario internazionale lo permettono) a suon di avvisi di garanzia e sentenze i propri nemici ideologici o di casta, esiste. Tutti, nel nostro profondo, senza ipocrisie, possiamo e dobbiamo riconoscerlo, e il pool dei magistrati milanesi, da Borrelli a D'Ambrosio, da Di Pietro alla Bocassini, rappresenta l'esempio più concreto, non l'unico, purtroppo. Esiste una forte anima giustizialista che attraversa il mondo politico e l'opinione pubblica: settori della magistratura, esponenti politici, movimenti, intellettuali, giornalisti, semplici cittadini si sentono, da circa una dozzina d'anni, investiti della missione di 'ripulire' il paese, forti di una loro presunta superiorità morale. Una spinta moralizzatrice dal sapore giacobino, una jihad che troppo spesso ha provocato clamorosi errori giudiziari, condanne illustri, ma almeno altrettante assoluzioni illustri (Berlusconi è stato assolto con formula piena dal procedimento che seguì il noto avviso di garanzia ricevuto a Napoli da presidente del Consiglio), gogne mediatiche, suicidi, macerie del diritto e della dignità umana, 'ribaltoni'.
Non è questa poi, la sede per ricordare tutto ciò che rende la Giustizia italiana la più condannata in Europa, la più lenta, la più iniqua. Le sue maglie si allargano e si stringono un po' troppo arbitrariamente.
Per Silvio Berlusconi però, sta trascorrendo molto in fretta quel tempo in cui può aspettarsi di godere presso i suoi elettori di una minima credibilità politica quando lancia le sue accuse alla magistratura politicizzata. Per far pesare davanti all'opinione pubblica quelle gravi accuse bisogna costruirsi con i fatti una credibilità e un'autorevolezza politica (e sottolineo POLITICA). Proprio ciò che finora il premier non ha fatto, rendendo difficile, anche a chi condivida le sue analisi storico-politiche, credere nella sua buona fede. La mia in effetti vuole essere una considerazione dal carattere squisitamente politico e non giudiziario, né tanto meno morale (se Silvio e il suo amico Previti siano colpevoli e/o corrotti probabilmente non mi verrà dato di saperlo).
Per ora quella credibilità necessaria sembra latitare. E' innegabile che tutti i provvedimenti adottati finora da Governo e maggioranza sulla Giustizia (Cirami, rogatorie e falso in bilancio), seppure anche condivisibili nel merito, contengono in sé il corto respiro di 'toppe' per fuggire da quei processi a carico del presidente e dei suoi amici. Tali provvedimenti, con la loro vocazione 'ad personam', sono lontani anni luce da riforme organiche della Giustizia e, in particolare dell'ordinamento giudiziario, che avrebbero invece la propria vocazione nell'interesse della generalità dei cittadini a cui ci si vorrebbe richiamare. Riforme che si chiamano separazione delle carriere, responsabilità civile dei magistrati, incarichi extra-giudiziari, formazione e progressione delle carriere possono essere criticate e combattute, ma non accusate di esser dettate dal solo interesse personale del premier.
Il legittimo sospetto nei confronti di alcune procure esiste, ma sta passando velocemente a carico del presidente Berlusconi: dimostri con i fatti, non a parole, accuse e sfoghi, che la sua azione politica per la giustizia italiana è guidata da un genuino interesse per la generalità dei cittadini e non, o non solo, per la sua salvaguardia personale. Due anni di governo ormai son trascorsi e i fatti purtroppo, avendo egli dato ampia priorità alle leggine citate e non alle grandi riforme, non gli attribuiscono la credibilità necessaria per ribellarsi a certe sentenze, o non, almeno, per farlo in nome della democrazia e del Paese. Sto parlando proprio di quella credibilità che manca, ad esempio, anche al centrosinistra quando sbraita e si svocia sul conflitto d'interessi, questione che non ha saputo-voluto risolvere nell'arco di un'intera legislatura trascorsa da maggioranza parlamentare.
Signor presidente del Consiglio, perché dunque, dovremmo crederle? Ella scrive su Il Foglio che bisogna "reagire", e "reagire per tempo", che "bisogna alzare i toni della nostra democrazia", ma se tutto si risolve nel salvare lei e i suoi amici, e non nel riformare la nostra giustizia malata, allora non la seguo e credo che così faranno anche gli italiani, che non sono filantropi, ma vogliono la 'pagnotta' delle riforme.
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