Poco ma sicuro: nel 2014 aumentano tasse (almeno +4,3 miliardi) e spesa (+2,6 miliardi)
Anche su Notapolitica e L'Opinione
Quella che pochi giorni fa, all'indomani della conferenza stampa del governo, avevamo definito manovra di galleggiamento, a carte scoperte in Senato rischia di rivelarsi, testo ufficiale alla mano, una manovra di affondamento. Si alza il sipario sui numeri, quelli veri, e si chiude il sipario sul balletto di cifre e sui trucchetti contabili di questi giorni. Dunque vediamoli, i numeri riportati nelle tabelle che delineano gli effetti finanziari della legge di stabilità sul bilancio dello Stato. Per quanto riguarda il saldo netto da finanziare, nel 2014 la manovra vale complessivamente circa 12,1 miliardi: ben 9,45 miliardi di maggiori spese e solo 2,64 miliardi di minori entrate. Da finanziare con 11,4 miliardi, di cui solo 4,2 miliardi di minori spese e ben 7,2 miliardi di maggiori entrate.
Se si guarda all'indebitamento netto, come riporta il Sole24Ore oggi, il saldo delle entrate indica, sempre nel 2014, un aumento di tasse per 972 milioni di euro (ma al netto della Tasi, come vedremo tra breve) e il saldo delle spese un aumento della spesa pubblica di 2,6 miliardi. Anche qui le maggiori entrate quasi doppiano le minori spese (6,1 miliardi contro 3,6). Quindi, ancora una volta, esattamente come le tanto criticate manovre di Monti e Tremonti, anziché basarsi su coraggiosi tagli alla spesa, il rapporto appare fortemente sbilanciato sul lato delle entrate (anche se come vedremo non si tratta solo di tasse) nella misura di 2/3 delle coperture.
Ma qualche precisazione va fatta: bisogna considerare infatti che non tutte le maggiori entrate sono classificabili come aumenti di tasse, così come non tutte le minori entrate come veri e propri sgravi fiscali. Analizzando voce per voce, però, la sostanza non cambia. Le minori entrate definibili come sgravi fiscali sono pari a circa 4,3 miliardi, mentre quasi il doppio, 7,9 miliardi, sono definibili come vera e propria spesa pubblica. Si tratta dunque di una manovra che aumenta la spesa pubblica per un ammontare quasi doppio rispetto alle risorse liberate a favore di famiglie e imprese. Così come le coperture sono costituite da maggiori entrate per 7,2 miliardi (di cui tasse vere e proprie 2,8, esclusa però la Tasi), un importo quasi doppio rispetto ai reali risparmi di spesa di circa 3,8 miliardi.
Ma cerchiamo di capire quale sarà il saldo reale per i cittadini in termini di tasse. E' confermato l'incremento della detrazione Irpef sui redditi da lavoro dipendente (1,58 miliardi), a cui si aggiunge 1 miliardo trasferito dallo Stato ai Comuni per alleggerire la nuova Service Tax (in pratica l'ammontare della maggiorazione Tares, che verrà abolita), per un totale di 2,6 miliardi di sgravi fiscali. Non va molto meglio alle imprese: tra riduzione dei contributi Inail (1 miliardo), deduzioni Irap per i nuovi lavoratori a tempo indeterminato (36 milioni), restituzione del contributo Aspi (70 milioni), deducibilità dell'Imu sugli immobili strumentali fino al 20% (475 milioni) e blocco dell'aumento Iva per le cooperative sociali (130 milioni), gli sgravi fiscali nel 2014 ammontano a circa 1,7 miliardi.
A fronte di queste riduzioni, tuttavia, si contano aumenti di tasse per almeno 2,8 miliardi: l'incremento dell'imposta di bollo sul risparmio (940 milioni), la riduzione delle agevolazioni fiscali (500 milioni), il ritorno della tassazione Irpef sugli immobili sfitti o in comodato gratuito ai figli nello stesso Comune (500 milioni), il visto di conformità per le compensazioni sulle imposte dirette e Irap (460 milioni), la rivalutazione dei beni di impresa (300 milioni), il contributo di solidarietà dalle pensioni d'oro (21 milioni) e balzelli minori per 75 milioni circa. In questo calcolo non consideriamo i 2,6 miliardi da "svalutazione e perdite sui crediti ai fini Ires-Irap di banche, assicurazioni, altri intermediari finanziari", perché compensati dagli sgravi fiscali negli anni successivi.
A questi 2,8 miliardi di tasse in più, però, bisogna sommare il gettito della nuova Tasi (considerando che nel 2013 non pagheremo le due rate di Imu sulla prima casa), che nelle tabelle ufficiali contenute nel testo depositato al Senato si conferma a tutti gli effetti una Imu mascherata: per l'abolizione dell'Imu, infatti, viene messa a bilancio una perdita di gettito per i Comuni di 3,764 miliardi. Esattamente lo stesso gettito (3,764 miliardi) arriverà dalla Tasi (ad aliquota standard dell'1 per mille, quindi ancora suscettibile di maggiorazioni da parte dei Comuni). Ma con la Tasi aumenterà anche la tassazione sulle abitazioni diverse da quelle principali, per un gettito che stimiamo intorno ai 2 miliardi. Confedilizia, per esempio, ha stimato che tra abitazioni principali e secondarie l'aggravio della Tasi rispetto alla vecchia Imu si collocherà tra i 2,1 miliardi (ad aliquota standard dell'1 per mille) e i 7,5 miliardi (ad aliquota massima del 2,5 per mille).
Dipenderà dai Comuni, ma sommando tutti gli effetti finanziari di queste misure, possiamo già dire oggi che nel 2014, rispetto al 2013, gli italiani pagheranno più tasse (almeno 4,3 miliardi in più), e non meno tasse, e probabilmente qualcosina in più anche rispetto al 2012. Anche perché non va dimenticato l'aumento dell'aliquota Iva dal 21 al 22% scattato il primo ottobre: 3 miliardi in più rispetto al 2013 e 4 rispetto al 2012. Insomma, il premier Letta ha fatto bene a ricordare che «14 euro in più in busta paga non c'è scritto da nessuna parte nella manovra». In effetti, è improbabile che ci accorgeremo di un solo euro in più.
Come se non bastasse, sugli anni 2015-2016 incombe il rischio concreto di una doppia stangata: sulla prima casa, perché l'aliquota massima Tasi del 2,5 per mille vale solo per il 2014, mentre dal 2015 l'1 per mille standard potrà sommarsi all'aliquota massima della vecchia Imu (6 per mille), fino ad arrivare al 7 per mille. E sull'Irpef, dal momento che la legge di stabilità contiene una nuova pericolossissima "clausola di salvaguardia" (lo stesso diabolico meccanismo per cui dal primo ottobre è scattato l'ulteriore aumento Iva). Ebbene, se entro il 15 gennaio 2015 la spending review non darà i risultati sperati (e visti i precedenti, non c'è da essere troppo ottimisti), scatteranno tagli alle agevolazioni fiscali di 3 e 7 miliardi.
La massima irresponsabilità al governo: con queste tagliole automatiche si spostano in avanti nel tempo misure politicamente costose come l'aumento di una tassa, in modo che chiunque governi nel momento in cui scattano possa scaricare sui predecessori ogni responsabilità (esattamente come accaduto con l'aumento dell'Iva), al tempo stesso demotivando i governi dal realizzare quelle azioni virtuose, come i tagli alla spesa pubblica, che dovrebbero scongiurare la misura di salvaguardia. In pratica, con l'inganno delle "clausole di salvaguardia" i tagli alla spesa diventano un mero auspicio, mentre gli aumenti di tasse sono la decisione vera, ma rinviata nel tempo per non assumersene la responsabilità politica. Perché non invertire la logica? Se la spending review non produce i risultati sperati, siano tagli alla spesa a scattare in modo lineare, e non aumenti di aliquote e tagli alle agevolazioni fiscali.
Dunque, altro che modifiche purché "a saldi invariati", il problema di questa legge di stabilità sono proprio i saldi. E le "clausole di salvaguardia". Con questa manovra i ministri del Pdl che si proclamano "sentinelle anti-tasse" non hanno alternative: o si dimettono dal governo o si dimettono da sentinelle. Legittimo sostenere il governo Letta-Alfano a qualsiasi prezzo, qualsiasi cosa faccia (o non faccia), in nome della "stabilità". Ma è incontrovertibile che questa legge di stabilità non riduce le tasse, le aumenta. Basta esserne consapevoli e metterci la faccia.
Wednesday, October 23, 2013
Thursday, October 17, 2013
Manovra di galleggiamento
Anche su Notapolitica e L'Opinione
Non è certo la "svolta" che molti si aspettavano, tanto meno quello "shock fiscale" che molti invocano pur senza grandi speranze. E' una manovra di galleggiamento (del governo, soprattutto), dove la stabilità rischia di confondersi con l'immobilismo. La resistenza, purtroppo bipartisan, a procedere con decisione sul fronte dei tagli alla spesa pubblica ha impedito al governo di essere più coraggioso nella riduzione del carico fiscale su famiglie e imprese. Riduzione che di fatto, come vedremo numeri alla mano, è nella migliore delle ipotesi inconsistente, se non inesistente. Un calo della pressione fiscale di un punto percentuale nell'arco di tre anni, dal 44,2 al 43,3%, e una diminuzione davvero misera del cuneo fiscale (2,5 miliardi) sono davvero troppo poco per pensare di invertire il ciclo economico.
Da notare il doppio tentativo del governo di influenzare lo "spin" sulla manovra. Non si può escludere infatti che aver fatto filtrare le ipotesi dei tagli alla sanità e dell'aumento dell'aliquota sulle "rendite" finanziarie, per poi evitarli all'ultimo momento, avesse la funzione di far tirare un sospiro di sollievo sia a sinistra che a destra, predisponendo gli osservatori ad un accoglimento meno severo della legge di stabilità. Poi, l'accorgimento di presentare su base triennale l'ammontare dell'intervento sul cuneo fiscale, così da gonfiarne le cifre. Ma proviamo a triplicare anche altre grandezze di finanza pubblica: i 5 miliardi in tre anni di sgravi a favore dei lavoratori sono l'1% del gettito Irpef triennale (quasi 500 miliardi) e i 5,6 miliardi di sgravi alle imprese corrispondono ad 1/20 di quanto versano di sola Irap in tre anni. Nel 2014, in realtà, l'intervento sul cuneo fiscale vale appena 2,5 miliardi su una manovra di 11,5: il resto è per lo più una pioggia di nuove spese, come sempre.
Certo, politicamente il governo Letta sembra non aver offerto ai suoi nemici, a destra come a sinistra, il pretesto, la "pistola fumante", per cui farlo cadere. Ma nonostante questi tentativi di influenzare la copertura mediatica della manovra, la delusione è palpabile un po' in tutti gli attori politici e sociali, così come negli editoriali dei principali giornali, e vissuta con un certo imbarazzo persino tra gli "sponsor" del governo Letta e dai cantori della cosiddetta "stabilità". Davvero difficile per chiunque non riconoscere la pochezza e lo scarso coraggio di questa legge di stabilità.
Ma vediamo gli altri numeri. Il valore complessivo della manovra è di 11,6 miliardi nel 2014 (e 7,5 sia nel 2015 che nel 2016). Rispetto alla manovra del governo Monti c'è un leggero riequilibrio nelle coperture. Le maggiori entrate fiscali pesano sempre in modo eccessivo, ma in misura minore che in passato: 1,9 miliardi, anche se altri 300 milioni arrivano dalla rivalutazione delle attività delle imprese e 2,2 miliardi dalla revisione della tassazione delle svalutazioni e delle perdite su crediti degli intermediari finanziari. Dai tagli alla spesa corrente arrivano 3,5 miliardi (2,5 dal bilancio dello Stato e un miliardo dalle spese di funzionamento delle Regioni): si tratta comunque di meno dello 0,5% del totale della spesa pubblica e nel trienno solo del 2% in meno (16 miliardi). Da dismissioni e rivalutazioni di cespiti e partecipazioni arriveranno 500 milioni l'anno. I 3 miliardi restanti vengono definiti da Letta un «premio» per la chiusura della procedura di deficit eccessivo. Ci giochiamo, insomma, un minimo di flessibilità in più che ci viene concessa dall'Europa.
Ma le due manovre sono difficilmente comparabili: quella di Monti servì a correggere i conti pubblici, quella del governo Letta-Alfano serve a finanziare per 2/3 nuova spesa pubblica e solo per 1/3 riduzioni di imposte. Sono una miriade le voci finanziate: le missioni all'estero, il 5 per mille, la cassa integrazione in deroga, gli investimenti degli enti territoriali, la manutenzione straordinaria della rete autostradale, l'Anas e le Ferrovie, il Mose, il fondo per le politiche sociali, il fondo per lo sviluppo e la coesione, il fondo per le università, i fondi per le non autosufficienze, per i lavoratori socialmente utili e per la Social Card. E ancora aiuti all'editoria, agli autotrasportatori e agli agricoltori. Tra i tagli alla spesa solo limature, nessun intervento strutturale. Il nuovo "contributo di solidarietà" dalle pensioni d'oro dovrebbe valere una sessantina di milioni su un costo totale della platea individuata che si aggira sui 3,5 miliardi. La sola parte eccedente i 100 mila euro di questi redditi da pensione ci costa circa 857 milioni, quindi il contributo medio sarebbe del 7% della parte eccedente i 100 mila euro (gli 857 milioni) e nemmeno del 2% rispetto al costo complessivo degli assegni (i 3,5 miliardi).
Ma cerchiamo di capire quale sarà nel 2014 il saldo reale per i cittadini, in termini di tasse, rispetto all'annus horribilis che sta per finire, il 2013. L'aumento della detrazione Irpef sul lavoro dipendente vale 1,5 miliardi, una decina di euro in più al mese in busta paga per i redditi medio-bassi (picco di 172 euro l'anno per chi dichiara 15 mila euro). A cui però vanno subito sottratti 500 milioni di minori agevolazioni fiscali (detrazioni per spese sanitarie e istruzione di cui usufruiscono quasi tutte le famiglie), ben 900 milioni per l'incremento dell'imposta di bollo sulle attività finanziarie (la nuova "stangatina" sul risparmio), nonché il ritorno dell'Irpef sulle seconde case sfitte (questi ultimi due aumenti colpiscono una platea più ristretta di contribuenti ma sottraggono comunque potere d'acquisto).
Poi ci sono due certezze e due incognite. Prima certezza: resta l'aumento dell'Iva dal 21 al 22%, che per il governo sembra ormai un capitolo chiuso (4 miliardi l'anno, 3 in più rispetto al 2013). Seconda certezza: l'aumento delle accise su carburanti (75 milioni), alcolici (130 milioni), sigarette elettroniche (117 milioni), lubrificanti e tabacchi (50 milioni). E veniamo alle incognite. Quale sarà il gettito della nuova Tasi, l'imposta che dovrebbe sostituire l'Imu sulla prima casa? Per ora sappiamo che l'aliquota base prevista è dell'1 per mille, ma non è chiaro se, e fino a quanto, ai Comuni sarà permesso di aumentarla (il tetto massimo dovrebbe coincidere con quello della vecchia Imu). Nella legge di stabilità il governo ha trasferito ai Comuni un solo miliardo (invece di due, come ipotizzato) per coprire esenzioni e detrazioni volte ad alleggerire il peso della nuova imposta, ma se le aliquote finali della componente Tasi (tra quella base e i rialzi dei Comuni) si avvicinassero a quelle dell'Imu, ecco che potrebbero restare 2/3 miliardi in più da pagare rispetto al 2013 (Confcommercio stima 2,4 miliardi di euro in più dalla "Trise"). Un vero e proprio gioco delle tre carte. Si pagherà meno (forse) del 2012, quando era in vigore l'Imu sulla prima casa, ma certamente più di quest'anno in cui l'Imu è stata cancellata.
Seconda incognita: l'Iva. Resta infatti la minaccia di un ulteriore peggioramento di alcune aliquote come risultato della rimodulazione a cui sta lavorando il governo. Per non parlare della cancellazione della seconda rata dell'Imu per quest'anno, per cui ancora non sono note le coperture. Dunque, tutto sommato e tutto sottratto, si può affermare senza timore di smentite che nel 2014 pagheremo più tasse che nel 2013 e, forse, persino più che nel 2012 (lo scopriremo solo pagando la "Trise"). Non va molto meglio alle imprese, che si vedono concedere una riduzione di 40 milioni della componente Irap relativa al costo del lavoro e un taglio dei contributi sociali di un miliardo circa.
A questo punto vi starete chiedendo come si spiega il calo della pressione fiscale di un punto percentuale in tre anni sbandierato dal governo ieri sera, se le tasse dal 2014 potrebbero addirittura aumentare. Non va dimenticato che si tratta di una grandezza percentuale in rapporto al Pil e il punto in meno è una conseguenza delle previsioni di crescita (ottimistiche) inserite nel Def, e non di chissà quali tagli di tasse.
L'impianto di questa legge di stabilità risponde ad una logica di redistribuzione del reddito (di un reddito che non c'è), piuttosto che di riduzione del peso dello Stato, e quindi delle tasse. Una logica tipica dei governi di centrosinistra per come li abbiamo conosciuti sia nella Prima che nella Seconda Repubblica.
Non è certo la "svolta" che molti si aspettavano, tanto meno quello "shock fiscale" che molti invocano pur senza grandi speranze. E' una manovra di galleggiamento (del governo, soprattutto), dove la stabilità rischia di confondersi con l'immobilismo. La resistenza, purtroppo bipartisan, a procedere con decisione sul fronte dei tagli alla spesa pubblica ha impedito al governo di essere più coraggioso nella riduzione del carico fiscale su famiglie e imprese. Riduzione che di fatto, come vedremo numeri alla mano, è nella migliore delle ipotesi inconsistente, se non inesistente. Un calo della pressione fiscale di un punto percentuale nell'arco di tre anni, dal 44,2 al 43,3%, e una diminuzione davvero misera del cuneo fiscale (2,5 miliardi) sono davvero troppo poco per pensare di invertire il ciclo economico.
Da notare il doppio tentativo del governo di influenzare lo "spin" sulla manovra. Non si può escludere infatti che aver fatto filtrare le ipotesi dei tagli alla sanità e dell'aumento dell'aliquota sulle "rendite" finanziarie, per poi evitarli all'ultimo momento, avesse la funzione di far tirare un sospiro di sollievo sia a sinistra che a destra, predisponendo gli osservatori ad un accoglimento meno severo della legge di stabilità. Poi, l'accorgimento di presentare su base triennale l'ammontare dell'intervento sul cuneo fiscale, così da gonfiarne le cifre. Ma proviamo a triplicare anche altre grandezze di finanza pubblica: i 5 miliardi in tre anni di sgravi a favore dei lavoratori sono l'1% del gettito Irpef triennale (quasi 500 miliardi) e i 5,6 miliardi di sgravi alle imprese corrispondono ad 1/20 di quanto versano di sola Irap in tre anni. Nel 2014, in realtà, l'intervento sul cuneo fiscale vale appena 2,5 miliardi su una manovra di 11,5: il resto è per lo più una pioggia di nuove spese, come sempre.
Certo, politicamente il governo Letta sembra non aver offerto ai suoi nemici, a destra come a sinistra, il pretesto, la "pistola fumante", per cui farlo cadere. Ma nonostante questi tentativi di influenzare la copertura mediatica della manovra, la delusione è palpabile un po' in tutti gli attori politici e sociali, così come negli editoriali dei principali giornali, e vissuta con un certo imbarazzo persino tra gli "sponsor" del governo Letta e dai cantori della cosiddetta "stabilità". Davvero difficile per chiunque non riconoscere la pochezza e lo scarso coraggio di questa legge di stabilità.
Ma vediamo gli altri numeri. Il valore complessivo della manovra è di 11,6 miliardi nel 2014 (e 7,5 sia nel 2015 che nel 2016). Rispetto alla manovra del governo Monti c'è un leggero riequilibrio nelle coperture. Le maggiori entrate fiscali pesano sempre in modo eccessivo, ma in misura minore che in passato: 1,9 miliardi, anche se altri 300 milioni arrivano dalla rivalutazione delle attività delle imprese e 2,2 miliardi dalla revisione della tassazione delle svalutazioni e delle perdite su crediti degli intermediari finanziari. Dai tagli alla spesa corrente arrivano 3,5 miliardi (2,5 dal bilancio dello Stato e un miliardo dalle spese di funzionamento delle Regioni): si tratta comunque di meno dello 0,5% del totale della spesa pubblica e nel trienno solo del 2% in meno (16 miliardi). Da dismissioni e rivalutazioni di cespiti e partecipazioni arriveranno 500 milioni l'anno. I 3 miliardi restanti vengono definiti da Letta un «premio» per la chiusura della procedura di deficit eccessivo. Ci giochiamo, insomma, un minimo di flessibilità in più che ci viene concessa dall'Europa.
Ma le due manovre sono difficilmente comparabili: quella di Monti servì a correggere i conti pubblici, quella del governo Letta-Alfano serve a finanziare per 2/3 nuova spesa pubblica e solo per 1/3 riduzioni di imposte. Sono una miriade le voci finanziate: le missioni all'estero, il 5 per mille, la cassa integrazione in deroga, gli investimenti degli enti territoriali, la manutenzione straordinaria della rete autostradale, l'Anas e le Ferrovie, il Mose, il fondo per le politiche sociali, il fondo per lo sviluppo e la coesione, il fondo per le università, i fondi per le non autosufficienze, per i lavoratori socialmente utili e per la Social Card. E ancora aiuti all'editoria, agli autotrasportatori e agli agricoltori. Tra i tagli alla spesa solo limature, nessun intervento strutturale. Il nuovo "contributo di solidarietà" dalle pensioni d'oro dovrebbe valere una sessantina di milioni su un costo totale della platea individuata che si aggira sui 3,5 miliardi. La sola parte eccedente i 100 mila euro di questi redditi da pensione ci costa circa 857 milioni, quindi il contributo medio sarebbe del 7% della parte eccedente i 100 mila euro (gli 857 milioni) e nemmeno del 2% rispetto al costo complessivo degli assegni (i 3,5 miliardi).
Ma cerchiamo di capire quale sarà nel 2014 il saldo reale per i cittadini, in termini di tasse, rispetto all'annus horribilis che sta per finire, il 2013. L'aumento della detrazione Irpef sul lavoro dipendente vale 1,5 miliardi, una decina di euro in più al mese in busta paga per i redditi medio-bassi (picco di 172 euro l'anno per chi dichiara 15 mila euro). A cui però vanno subito sottratti 500 milioni di minori agevolazioni fiscali (detrazioni per spese sanitarie e istruzione di cui usufruiscono quasi tutte le famiglie), ben 900 milioni per l'incremento dell'imposta di bollo sulle attività finanziarie (la nuova "stangatina" sul risparmio), nonché il ritorno dell'Irpef sulle seconde case sfitte (questi ultimi due aumenti colpiscono una platea più ristretta di contribuenti ma sottraggono comunque potere d'acquisto).
Poi ci sono due certezze e due incognite. Prima certezza: resta l'aumento dell'Iva dal 21 al 22%, che per il governo sembra ormai un capitolo chiuso (4 miliardi l'anno, 3 in più rispetto al 2013). Seconda certezza: l'aumento delle accise su carburanti (75 milioni), alcolici (130 milioni), sigarette elettroniche (117 milioni), lubrificanti e tabacchi (50 milioni). E veniamo alle incognite. Quale sarà il gettito della nuova Tasi, l'imposta che dovrebbe sostituire l'Imu sulla prima casa? Per ora sappiamo che l'aliquota base prevista è dell'1 per mille, ma non è chiaro se, e fino a quanto, ai Comuni sarà permesso di aumentarla (il tetto massimo dovrebbe coincidere con quello della vecchia Imu). Nella legge di stabilità il governo ha trasferito ai Comuni un solo miliardo (invece di due, come ipotizzato) per coprire esenzioni e detrazioni volte ad alleggerire il peso della nuova imposta, ma se le aliquote finali della componente Tasi (tra quella base e i rialzi dei Comuni) si avvicinassero a quelle dell'Imu, ecco che potrebbero restare 2/3 miliardi in più da pagare rispetto al 2013 (Confcommercio stima 2,4 miliardi di euro in più dalla "Trise"). Un vero e proprio gioco delle tre carte. Si pagherà meno (forse) del 2012, quando era in vigore l'Imu sulla prima casa, ma certamente più di quest'anno in cui l'Imu è stata cancellata.
Seconda incognita: l'Iva. Resta infatti la minaccia di un ulteriore peggioramento di alcune aliquote come risultato della rimodulazione a cui sta lavorando il governo. Per non parlare della cancellazione della seconda rata dell'Imu per quest'anno, per cui ancora non sono note le coperture. Dunque, tutto sommato e tutto sottratto, si può affermare senza timore di smentite che nel 2014 pagheremo più tasse che nel 2013 e, forse, persino più che nel 2012 (lo scopriremo solo pagando la "Trise"). Non va molto meglio alle imprese, che si vedono concedere una riduzione di 40 milioni della componente Irap relativa al costo del lavoro e un taglio dei contributi sociali di un miliardo circa.
A questo punto vi starete chiedendo come si spiega il calo della pressione fiscale di un punto percentuale in tre anni sbandierato dal governo ieri sera, se le tasse dal 2014 potrebbero addirittura aumentare. Non va dimenticato che si tratta di una grandezza percentuale in rapporto al Pil e il punto in meno è una conseguenza delle previsioni di crescita (ottimistiche) inserite nel Def, e non di chissà quali tagli di tasse.
L'impianto di questa legge di stabilità risponde ad una logica di redistribuzione del reddito (di un reddito che non c'è), piuttosto che di riduzione del peso dello Stato, e quindi delle tasse. Una logica tipica dei governi di centrosinistra per come li abbiamo conosciuti sia nella Prima che nella Seconda Repubblica.
Wednesday, October 09, 2013
Una sinistra di inguaribili tassatori
Anche su Notapolitica e L'Opinione
L'emendamento al Decreto Imu presentato dai gruppi del Pd nelle Commissioni Bilancio e Finanze della Camera è rivelatore del rapporto malsano che la sinistra continua ad avere con le tasse. L'emendamento (poi ritirato, ma la sua ratio verrà ripescata nella Service Tax) riprendeva la proposta in tema di Imu avanzata dal Pd nell'ultima campagna elettorale, e cavalcata fino ad oggi dal viceministro Fassina: per rinviare l'aumento dell'Iva, basta far pagare l'Imu sulle prime case di "lusso", laddove però la soglia del lusso veniva piuttosto arbitrariamente fissata sui 750 euro di rendita catastale. Nonostante le abitazioni principali nelle categorie davvero di lusso (A/1, A/8 e A/9) non siano state mai esentate dal pagare l'Imu, e nessuno ha mai proposto di esentarle, per mesi il Pd è andato avanti con questa cantilena che bisognava tornare a far pagare l'Imu sulle prime case di lusso.
Considerando i forti squilibri degli attuali valori catastali, adottando la soglia dei 750 euro di rendita si rischia di esentare vecchi immobili di pregio nel pieno centro delle grandi città e stangare nuove abitazioni, ma di modeste qualità costruttive, nelle zone periferiche e semi-periferiche urbane, come dimostrato nell'ultima puntata di Report. Finalmente anche il Corriere si è preso il disturbo di andare a verificare di cosa stiamo parlando. E chissà perché solo ora e non prima del voto, quando invece preferiva accusare di demagogia la proposta di abolizione totale, ma questo è un altro tema. Oggi quindi scopriamo che per la stravagante concezione di "lusso" che hanno nel Pd 1/4 delle prime case in Italia andrebbero considerate tali, anche un monolocale A/2 di 36 metri quadri ubicato a Roma o a Milano, e un A/3 rispettivamente di 41 e 55 metri quadri. Siamo ricchi e non lo sapevamo!
Ciò che sappiamo per certo è che la sinistra continua a coltivare l'ossessione di punire i "ricchi". Peccato che sempre più spesso le capita di scambiare per "ricche" le famiglie del ceto medio. «Vede ricchi ovunque e spinge nelle braccia della destra una consistente fascia di italiani di ceto medio», ha correttamente osservato Dario Di Vico. Ma non è tanto l'ossessione di voler colpire la ricchezza a rendere antipatico il Pd, quanto i continui tentativi di spacciare per ricche le famiglie del ceto medio e tartassare anche quelle. Come si spiega? Forse i politici di sinistra sono talmente poveri da fissare la soglia della ricchezza molto in basso? Piuttosto, bisogna supporre che sia avvenuta una vera e propria mutazione sociologica e politologica della sinistra: essendo tra i politici di sinistra i veri ricchi e gli arricchiti di Stato, ed essendo ormai l'elettorato di riferimento pieno di vip milionari e benpensanti, alti burocrati e iper-garantiti (spesso inquilini di case degli enti a canone irrisorio) non si accorgono nemmeno di far piangere il ceto medio produttivo.
La sinistra - Pd e renziani compresi, a quanto pare - sembra condannata a sostenere una posizione economicamente e politicamente insostenibile sul tema delle tasse. Per fare cassa, ovvero per garantire servizi sociali e/o attuare politiche redistributive, occorrono grandi numeri, quindi bisogna tartassare anche il ceto medio, come dimostra la storia di questi decenni. Il che è tutt'altro che equo, ha effetti fortemente depressivi sull'economia e non serve nemmeno alle casse dello Stato. La dimostrazione l'abbiamo avuta proprio in questi giorni: invece di crescere, per effetto dei recenti aumenti delle aliquote, nei primi otto mesi del 2013 il gettito Iva è diminuito di ben 3,7 miliardi (il 5,2%, un calo tre volte superiore a quello del Pil). Non si vede quindi come l'ulteriore aumento dal 21 al 22% scattato dal primo ottobre possa produrre 4 miliardi in più di gettito. Abbiamo lasciato che scattasse perché, così ci è stato detto, non c'erano 4 miliardi di coperture per cancellarlo, né un solo miliardo per rinviarlo. Ma è ormai chiaro che quell'aumento non produrrà mai i 4 miliardi in più previsti, che semplicemente non sono mai esistiti, perché trattasi di mera finzione contabile che prescinde dalle più elementari leggi economiche. Anzi, contribuirà a far calare ancora di più il gettito Iva.
Se invece si vogliono colpire davvero i "ricchi", per dare un "segnale di equità", nella consapevolezza di raccogliere briciole rispetto ai problemi di bilancio, allora il risultato è che si incassa ancora meno, come hanno dimostrato il superbollo sulle auto di lusso (invece dei 168 milioni in più previsti, 140 milioni in meno di mancata Iva e imposte di bollo) e la tassa sulle barche (dei 120 milioni previsti, incassati solo 25 ma al prezzo di una contrazione di ricavi nel settore di 2,5 miliardi, con un mancato gettito calcolato in 900 milioni). Può apparire impopolare, ma per la ripresa dell'economia conta più un ricco che ordina uno yacht piuttosto che mille poveri che tornano ad acquistare un pacco di pasta De Cecco (e con questo, ovviamente, non intendo sostenere che le tasse bisogna ridurle solo ai ricchi). Può non piacere, ma è così che funziona l'economia: la sinistra e purtroppo certi ministri "tecnici" ancora non l'hanno capito. Né gli stolti sembrano in grado di comprendere che la sola minaccia di nuove tasse porta le famiglie a prevedere di spendere meno e risparmiare di più per poterle pagare, provocando l'effetto recessivo anche se poi l'aumento non si verifica.
L'emendamento al Decreto Imu presentato dai gruppi del Pd nelle Commissioni Bilancio e Finanze della Camera è rivelatore del rapporto malsano che la sinistra continua ad avere con le tasse. L'emendamento (poi ritirato, ma la sua ratio verrà ripescata nella Service Tax) riprendeva la proposta in tema di Imu avanzata dal Pd nell'ultima campagna elettorale, e cavalcata fino ad oggi dal viceministro Fassina: per rinviare l'aumento dell'Iva, basta far pagare l'Imu sulle prime case di "lusso", laddove però la soglia del lusso veniva piuttosto arbitrariamente fissata sui 750 euro di rendita catastale. Nonostante le abitazioni principali nelle categorie davvero di lusso (A/1, A/8 e A/9) non siano state mai esentate dal pagare l'Imu, e nessuno ha mai proposto di esentarle, per mesi il Pd è andato avanti con questa cantilena che bisognava tornare a far pagare l'Imu sulle prime case di lusso.
Considerando i forti squilibri degli attuali valori catastali, adottando la soglia dei 750 euro di rendita si rischia di esentare vecchi immobili di pregio nel pieno centro delle grandi città e stangare nuove abitazioni, ma di modeste qualità costruttive, nelle zone periferiche e semi-periferiche urbane, come dimostrato nell'ultima puntata di Report. Finalmente anche il Corriere si è preso il disturbo di andare a verificare di cosa stiamo parlando. E chissà perché solo ora e non prima del voto, quando invece preferiva accusare di demagogia la proposta di abolizione totale, ma questo è un altro tema. Oggi quindi scopriamo che per la stravagante concezione di "lusso" che hanno nel Pd 1/4 delle prime case in Italia andrebbero considerate tali, anche un monolocale A/2 di 36 metri quadri ubicato a Roma o a Milano, e un A/3 rispettivamente di 41 e 55 metri quadri. Siamo ricchi e non lo sapevamo!
Ciò che sappiamo per certo è che la sinistra continua a coltivare l'ossessione di punire i "ricchi". Peccato che sempre più spesso le capita di scambiare per "ricche" le famiglie del ceto medio. «Vede ricchi ovunque e spinge nelle braccia della destra una consistente fascia di italiani di ceto medio», ha correttamente osservato Dario Di Vico. Ma non è tanto l'ossessione di voler colpire la ricchezza a rendere antipatico il Pd, quanto i continui tentativi di spacciare per ricche le famiglie del ceto medio e tartassare anche quelle. Come si spiega? Forse i politici di sinistra sono talmente poveri da fissare la soglia della ricchezza molto in basso? Piuttosto, bisogna supporre che sia avvenuta una vera e propria mutazione sociologica e politologica della sinistra: essendo tra i politici di sinistra i veri ricchi e gli arricchiti di Stato, ed essendo ormai l'elettorato di riferimento pieno di vip milionari e benpensanti, alti burocrati e iper-garantiti (spesso inquilini di case degli enti a canone irrisorio) non si accorgono nemmeno di far piangere il ceto medio produttivo.
La sinistra - Pd e renziani compresi, a quanto pare - sembra condannata a sostenere una posizione economicamente e politicamente insostenibile sul tema delle tasse. Per fare cassa, ovvero per garantire servizi sociali e/o attuare politiche redistributive, occorrono grandi numeri, quindi bisogna tartassare anche il ceto medio, come dimostra la storia di questi decenni. Il che è tutt'altro che equo, ha effetti fortemente depressivi sull'economia e non serve nemmeno alle casse dello Stato. La dimostrazione l'abbiamo avuta proprio in questi giorni: invece di crescere, per effetto dei recenti aumenti delle aliquote, nei primi otto mesi del 2013 il gettito Iva è diminuito di ben 3,7 miliardi (il 5,2%, un calo tre volte superiore a quello del Pil). Non si vede quindi come l'ulteriore aumento dal 21 al 22% scattato dal primo ottobre possa produrre 4 miliardi in più di gettito. Abbiamo lasciato che scattasse perché, così ci è stato detto, non c'erano 4 miliardi di coperture per cancellarlo, né un solo miliardo per rinviarlo. Ma è ormai chiaro che quell'aumento non produrrà mai i 4 miliardi in più previsti, che semplicemente non sono mai esistiti, perché trattasi di mera finzione contabile che prescinde dalle più elementari leggi economiche. Anzi, contribuirà a far calare ancora di più il gettito Iva.
Se invece si vogliono colpire davvero i "ricchi", per dare un "segnale di equità", nella consapevolezza di raccogliere briciole rispetto ai problemi di bilancio, allora il risultato è che si incassa ancora meno, come hanno dimostrato il superbollo sulle auto di lusso (invece dei 168 milioni in più previsti, 140 milioni in meno di mancata Iva e imposte di bollo) e la tassa sulle barche (dei 120 milioni previsti, incassati solo 25 ma al prezzo di una contrazione di ricavi nel settore di 2,5 miliardi, con un mancato gettito calcolato in 900 milioni). Può apparire impopolare, ma per la ripresa dell'economia conta più un ricco che ordina uno yacht piuttosto che mille poveri che tornano ad acquistare un pacco di pasta De Cecco (e con questo, ovviamente, non intendo sostenere che le tasse bisogna ridurle solo ai ricchi). Può non piacere, ma è così che funziona l'economia: la sinistra e purtroppo certi ministri "tecnici" ancora non l'hanno capito. Né gli stolti sembrano in grado di comprendere che la sola minaccia di nuove tasse porta le famiglie a prevedere di spendere meno e risparmiare di più per poterle pagare, provocando l'effetto recessivo anche se poi l'aumento non si verifica.
Tuesday, October 08, 2013
Pacificazione non fa rima con deberlusconizzazione
Anche su Notapolitica e L'Opinione
Ciò che abbiamo previsto più volte nei mesi scorsi come effetto del perverso rapporto tra politica e magistratura sta cominciando a delinearsi. Non è tanto il fatto in sé dell'esclusione di Berlusconi dalle istituzioni, ma è il modo in cui sta avvenendo, il come è stato abbattuto, cioè per via giudiziaria, a generare un frutto amarissimo e gravido di conseguenze nefaste per la nostra democrazia.
Nessuno, né a sinistra né a destra, sembra preoccuparsene più di tanto. Non si tratta solo del cittadino e leader politico Berlusconi, il cui ciclo politico comunque si stava esaurendo. Il modo in cui viene fatto fuori è la questione politica all'ordine del giorno. Non la sua successione, né la nascita di un centrodestra "moderno" ed "europeo" (a proposito, perché, la sinistra lo è?). Alcuni si illudono, purtroppo, che una volta superata l'anomalia Berlusconi, una volta fatto fuori, tutto tornerà normale e le carriere politiche di tutti potranno proseguire indisturbate. Anzi, spezzato questo incantesimo, questo perverso equilibrio per cui berlusconiani e antiberlusconiani si sorreggono a vicenda, si potrà persino riformare la giustizia.
Sembra questa purtroppo anche l'illusione dei "diversamente berlusconiani". E cioè che la pacificazione, sotto i cui auspici era nato questo governo di "larghe intese", possa passare anche da questo, e cioè dalla "deberlusconizzazione" del centrodestra. Con un Pdl deberlusconizzato il Pd è disponibile a governare senza problemi, a deporre l'ascia di guerra e a fare le riforme. "The show must go on".
Ma il modo in cui è stato fatto fuori Berlusconi - la persecuzione per via giudiziaria dalla sua discesa in campo fino alla completa estromissione dalle istituzioni - rappresenta un monito, e allo stesso tempo un'ipoteca, su qualsiasi leadership futura. I futuri leader di centrodestra - in modo direttamente proporzionale al loro consenso e alla loro determinazione nel voler rompere lo status quo del paese - subiranno lo stesso trattamento. Detto in altre parole: non verranno demonizzati e perseguitati fintanto che appariranno "responsabili" (leggi subalterni e "conformati").
Questa non è una pacificazione, ma una resa culturale prim'ancora che politica. Significa arrendersi al fatto che saranno i magistrati, i giornali delle élite e la sinistra (proprio in questo ordine) a sceglierseli, a legittimarli, in modo che siano avversari da battere agilmente o al massimo da poter cooptare in un governo di coalizione. I molti applausi ricevuti dagli alfaniani in questi giorni, come due anni fa dai finiani, dovrebbero suonare come altrettanti campanelli d'allarme. Il guaio di operazioni come quella di Fini ieri, e probabilmente di Alfano oggi, è che pur essendo apprezzabile il proposito di andare politicamente oltre Berlusconi, mancano la forza, il coraggio, il "quid" di mostrarsi non subalterni alla sinistra e al pensiero mainstream. E non c'è da sorprendersi se poi gli elettori di centrodestra diffidano.
Come ha spiegato anche Galli Della Loggia domenica sul Corriere, Alfano non avrà futuro come leader del centrodestra, e non riuscirà a dar vita ad una destra "moderna" ed "europea", se, come Fini, non riuscirà a divincolarsi dalle lusinghe e dall'abbraccio ideologico della sinistra, ma ovviamente nemmeno una deriva "trogloditica" e "sovversiveggiante" può garantire un futuro al centrodestra.
Senza una leadership capace di rappresentare in modo vincente ciò che per loro Berlusconi ha rappresentato in questi vent'anni, gli elettori di centrodestra non dimenticheranno il Cav e non ci sarà una vera pacificazione nel paese, bensì una rancorizzazione permanente. Quella in corso, purtroppo, è una pacificazione per "deberlusconizzazione", per "damnatio memoriae" del nemico, dunque in realtà è una "neutralizzazione" del centrodestra, mentre in questa legislatura si sarebbe potuta/dovuta avviare una pacificazione con tutto ciò che Berlusconi ha rappresentato in questi anni per il suo elettorato. Questo è un paese a cui di fatto si vuole impedire di avere un centrodestra vincente. Al massimo, si tollera un centro subalterno, che la sinistra può a seconda delle circostanze usare come stampella o come oppositore di comodo, di "regime". Ciò significa che continuerà a non esserci alcun riconoscimento, alcuna legittimazione reciproca tra milioni di italiani di sinistra e milioni di italiani che di sinistra non si sentono. E' qualcosa che viene da prima di Berlusconi e che sopravviverà a Berlusconi, un odio profondo tra due Italie che continueranno a combattersi come nemiche anziché come avversarie.
Ciò che abbiamo previsto più volte nei mesi scorsi come effetto del perverso rapporto tra politica e magistratura sta cominciando a delinearsi. Non è tanto il fatto in sé dell'esclusione di Berlusconi dalle istituzioni, ma è il modo in cui sta avvenendo, il come è stato abbattuto, cioè per via giudiziaria, a generare un frutto amarissimo e gravido di conseguenze nefaste per la nostra democrazia.
Nessuno, né a sinistra né a destra, sembra preoccuparsene più di tanto. Non si tratta solo del cittadino e leader politico Berlusconi, il cui ciclo politico comunque si stava esaurendo. Il modo in cui viene fatto fuori è la questione politica all'ordine del giorno. Non la sua successione, né la nascita di un centrodestra "moderno" ed "europeo" (a proposito, perché, la sinistra lo è?). Alcuni si illudono, purtroppo, che una volta superata l'anomalia Berlusconi, una volta fatto fuori, tutto tornerà normale e le carriere politiche di tutti potranno proseguire indisturbate. Anzi, spezzato questo incantesimo, questo perverso equilibrio per cui berlusconiani e antiberlusconiani si sorreggono a vicenda, si potrà persino riformare la giustizia.
Sembra questa purtroppo anche l'illusione dei "diversamente berlusconiani". E cioè che la pacificazione, sotto i cui auspici era nato questo governo di "larghe intese", possa passare anche da questo, e cioè dalla "deberlusconizzazione" del centrodestra. Con un Pdl deberlusconizzato il Pd è disponibile a governare senza problemi, a deporre l'ascia di guerra e a fare le riforme. "The show must go on".
Ma il modo in cui è stato fatto fuori Berlusconi - la persecuzione per via giudiziaria dalla sua discesa in campo fino alla completa estromissione dalle istituzioni - rappresenta un monito, e allo stesso tempo un'ipoteca, su qualsiasi leadership futura. I futuri leader di centrodestra - in modo direttamente proporzionale al loro consenso e alla loro determinazione nel voler rompere lo status quo del paese - subiranno lo stesso trattamento. Detto in altre parole: non verranno demonizzati e perseguitati fintanto che appariranno "responsabili" (leggi subalterni e "conformati").
Questa non è una pacificazione, ma una resa culturale prim'ancora che politica. Significa arrendersi al fatto che saranno i magistrati, i giornali delle élite e la sinistra (proprio in questo ordine) a sceglierseli, a legittimarli, in modo che siano avversari da battere agilmente o al massimo da poter cooptare in un governo di coalizione. I molti applausi ricevuti dagli alfaniani in questi giorni, come due anni fa dai finiani, dovrebbero suonare come altrettanti campanelli d'allarme. Il guaio di operazioni come quella di Fini ieri, e probabilmente di Alfano oggi, è che pur essendo apprezzabile il proposito di andare politicamente oltre Berlusconi, mancano la forza, il coraggio, il "quid" di mostrarsi non subalterni alla sinistra e al pensiero mainstream. E non c'è da sorprendersi se poi gli elettori di centrodestra diffidano.
Come ha spiegato anche Galli Della Loggia domenica sul Corriere, Alfano non avrà futuro come leader del centrodestra, e non riuscirà a dar vita ad una destra "moderna" ed "europea", se, come Fini, non riuscirà a divincolarsi dalle lusinghe e dall'abbraccio ideologico della sinistra, ma ovviamente nemmeno una deriva "trogloditica" e "sovversiveggiante" può garantire un futuro al centrodestra.
Senza una leadership capace di rappresentare in modo vincente ciò che per loro Berlusconi ha rappresentato in questi vent'anni, gli elettori di centrodestra non dimenticheranno il Cav e non ci sarà una vera pacificazione nel paese, bensì una rancorizzazione permanente. Quella in corso, purtroppo, è una pacificazione per "deberlusconizzazione", per "damnatio memoriae" del nemico, dunque in realtà è una "neutralizzazione" del centrodestra, mentre in questa legislatura si sarebbe potuta/dovuta avviare una pacificazione con tutto ciò che Berlusconi ha rappresentato in questi anni per il suo elettorato. Questo è un paese a cui di fatto si vuole impedire di avere un centrodestra vincente. Al massimo, si tollera un centro subalterno, che la sinistra può a seconda delle circostanze usare come stampella o come oppositore di comodo, di "regime". Ciò significa che continuerà a non esserci alcun riconoscimento, alcuna legittimazione reciproca tra milioni di italiani di sinistra e milioni di italiani che di sinistra non si sentono. E' qualcosa che viene da prima di Berlusconi e che sopravviverà a Berlusconi, un odio profondo tra due Italie che continueranno a combattersi come nemiche anziché come avversarie.
Friday, October 04, 2013
Basta giornate della vergogna
Anche su L'Opinione
Mi scusi presidente Napolitano. Mi scusi signor Papa Francesco. Scusatemi signori ministri e signori direttori dei giornali più responsabili e pensosi d'Italia. Ma "vergogna" a chi? Quando si esclama "Vergogna!" è sottinteso che qualcuno debba vergognarsi, quindi sarebbe corretto precisare chi si dovrebbe vergognare. Invece non è chiaro a chi fosse rivolta la vostra indignazione, anche se una vaga idea purtroppo me la sono fatta. Ma io non mi vergogno, né come italiano né come europeo. Provo pietà, certo, per gli innocenti morti in mare a Lampedusa, ma nessun senso di colpa o responsabilità, né personale né collettivo.
E credo che noi in Italia abbiamo i media, i giornalisti, i politici, i presidenti, i papi più ipocriti di tutto il mondo, che in queste drammatiche situazioni non sanno fare altro che sfoggiare una retorica pelosa e vigliacche strumentalizzazioni, incapaci di guardare in faccia e chiamare i problemi con il loro nome.
Andrebbero bandite tutte le strumentalizzazioni, quelle di chi polemizza con gli avversari politici, ma anche di chi ne approfitta per partire all'attacco della legge Bossi-Fini, che davvero non c'entra nulla con quanto è capitato. E comunque, quanti oggi puntano l'indice contro quella legge sono gli stessi che non qualche anno fa, ma nei giorni scorsi non si sono recati a firmare il referendum per abolirla, impedendo che raggiungesse il numero di firme necessarie, dunque dovrebbero solo tacere.
Non è l'Italia, e nemmeno l'Europa a doversi vergognare, ma sono i nuovi mercanti di schiavi e i governi dell'Africa e del Medio Oriente che quando va bene condannano i loro popoli alla miseria, tra corruzione e malgoverno, quando va male calpestano i loro diritti, li violentano, li derubano e li massacrano in guerre fratricide. Su di loro ricade la vera responsabilità di questa e di altre tragedie, e del dramma dell'immigrazione in generale. E ormai da decenni non c'è più nemmeno l'alibi del colonialismo ad alleggerire le loro colpe. Quando il Papa si reca in visita nelle zone più povere della terra, oltre che abbracciare i bisognosi si ricordi di gridare "vergogna" all'indirizzo dei loro governanti.
Pur con tutte le contraddizioni e le difficoltà finanziarie al nostro interno accogliamo tutti a braccia aperte, tolleriamo culture e religioni diverse. Anche violente, e anche se non riceviamo lo stesso trattamento. Il diritto d'asilo è riconosciuto e praticato sia in Italia che in Europa. Soccorriamo ogni anno decine di migliaia di profughi, e altrettanti li aiutiamo da lontano con aiuti umanitari. Integriamo milioni di immigrati, permettendo loro di lavorare, e offrendo servizi molto costosi: sanità, istruzione, sussidi. Abbiamo le nostre regole. Migliorabili? Certo, ma umane e in linea con quelle degli altri paesi europei, reato di clandestinità compreso, e per durezza lontane anni luce da paesi civilissimi e da sempre apertissimi all'immigrazione come gli Stati Uniti. In Europa si potrebbe collaborare di più per gestire il fenomeno dell'immigrazione? E' vero, i paesi del centro e del nord Europa ci lasciano un po' troppo soli, ma nemmeno loro è la colpa della tragedia che piangiamo oggi al largo delle nostre coste.
Ne abbiamo abbastanza di queste giornate dell'ipocrisia e della vergogna. E' un'Italia, un'Europa, e un Occidente in generale in cui si cerca la pagliuzza nei nostri occhi e non si nota la trave negli occhi altrui. Ci vergogniamo di quello che siamo, di quello che facciamo, siamo sopraffatti dal senso di colpa per le fortune che ci siamo procurati con l'ingegno, la fatica e la civiltà. Questa è la causa più grande dei nostri mali di questi tempi, del nostro immobilismo. Questo è il malessere dell'anima che rischia di trascinare la civiltà occidentale sulla via del declino.
Mi scusi presidente Napolitano. Mi scusi signor Papa Francesco. Scusatemi signori ministri e signori direttori dei giornali più responsabili e pensosi d'Italia. Ma "vergogna" a chi? Quando si esclama "Vergogna!" è sottinteso che qualcuno debba vergognarsi, quindi sarebbe corretto precisare chi si dovrebbe vergognare. Invece non è chiaro a chi fosse rivolta la vostra indignazione, anche se una vaga idea purtroppo me la sono fatta. Ma io non mi vergogno, né come italiano né come europeo. Provo pietà, certo, per gli innocenti morti in mare a Lampedusa, ma nessun senso di colpa o responsabilità, né personale né collettivo.
E credo che noi in Italia abbiamo i media, i giornalisti, i politici, i presidenti, i papi più ipocriti di tutto il mondo, che in queste drammatiche situazioni non sanno fare altro che sfoggiare una retorica pelosa e vigliacche strumentalizzazioni, incapaci di guardare in faccia e chiamare i problemi con il loro nome.
Andrebbero bandite tutte le strumentalizzazioni, quelle di chi polemizza con gli avversari politici, ma anche di chi ne approfitta per partire all'attacco della legge Bossi-Fini, che davvero non c'entra nulla con quanto è capitato. E comunque, quanti oggi puntano l'indice contro quella legge sono gli stessi che non qualche anno fa, ma nei giorni scorsi non si sono recati a firmare il referendum per abolirla, impedendo che raggiungesse il numero di firme necessarie, dunque dovrebbero solo tacere.
Non è l'Italia, e nemmeno l'Europa a doversi vergognare, ma sono i nuovi mercanti di schiavi e i governi dell'Africa e del Medio Oriente che quando va bene condannano i loro popoli alla miseria, tra corruzione e malgoverno, quando va male calpestano i loro diritti, li violentano, li derubano e li massacrano in guerre fratricide. Su di loro ricade la vera responsabilità di questa e di altre tragedie, e del dramma dell'immigrazione in generale. E ormai da decenni non c'è più nemmeno l'alibi del colonialismo ad alleggerire le loro colpe. Quando il Papa si reca in visita nelle zone più povere della terra, oltre che abbracciare i bisognosi si ricordi di gridare "vergogna" all'indirizzo dei loro governanti.
Pur con tutte le contraddizioni e le difficoltà finanziarie al nostro interno accogliamo tutti a braccia aperte, tolleriamo culture e religioni diverse. Anche violente, e anche se non riceviamo lo stesso trattamento. Il diritto d'asilo è riconosciuto e praticato sia in Italia che in Europa. Soccorriamo ogni anno decine di migliaia di profughi, e altrettanti li aiutiamo da lontano con aiuti umanitari. Integriamo milioni di immigrati, permettendo loro di lavorare, e offrendo servizi molto costosi: sanità, istruzione, sussidi. Abbiamo le nostre regole. Migliorabili? Certo, ma umane e in linea con quelle degli altri paesi europei, reato di clandestinità compreso, e per durezza lontane anni luce da paesi civilissimi e da sempre apertissimi all'immigrazione come gli Stati Uniti. In Europa si potrebbe collaborare di più per gestire il fenomeno dell'immigrazione? E' vero, i paesi del centro e del nord Europa ci lasciano un po' troppo soli, ma nemmeno loro è la colpa della tragedia che piangiamo oggi al largo delle nostre coste.
Ne abbiamo abbastanza di queste giornate dell'ipocrisia e della vergogna. E' un'Italia, un'Europa, e un Occidente in generale in cui si cerca la pagliuzza nei nostri occhi e non si nota la trave negli occhi altrui. Ci vergogniamo di quello che siamo, di quello che facciamo, siamo sopraffatti dal senso di colpa per le fortune che ci siamo procurati con l'ingegno, la fatica e la civiltà. Questa è la causa più grande dei nostri mali di questi tempi, del nostro immobilismo. Questo è il malessere dell'anima che rischia di trascinare la civiltà occidentale sulla via del declino.
Thursday, October 03, 2013
Quei polli del Pdl finiranno tutti arrosto
Anche su Notapolitica e su L'Opinione
Ha vinto o perso ieri Berlusconi? E ha vinto Alfano? Intendiamoci, ormai Berlusconi non può più vincere. Sta per decadere da senatore, andrà ai servizi sociali o ai domiciliari e non tornerà più al governo. Forse sarà anche arrestato. Che aprendo la crisi avesse intenzione di salvarsi e scongiurare questi esiti è da escludere. E probabilmente aveva messo anche nel conto di non riuscire a far cadere Letta. Però, avendo contribuito alla nascita di un governo di pacificazione - e tutti ricordiamo la retorica di quei giorni nelle parole di Letta e nella commozione del presidente Napolitano - e ritrovandosi, invece, in un governo di "deberlusconizzazione" a tappe forzate, che sembra aver intenzionalmente vivacchiato per mesi (sia nelle scelte economiche che sulle riforme), in attesa della sua decadenza, persino anticipata, e della conseguente spaccatura del Pdl, Berlusconi non poteva non reagire in qualche modo. Avrebbe potuto anche rassegnarsi alla "deberlusconizzazione" del Parlamento, ma non a quella del suo partito.
Di errori ne ha commessi molti. Sentendosi forte, all'indomani del voto e dopo la figuraccia del Pd, ha accettato una lista di ministri che prefigurava già il piano di Letta e Alfano, una divisione tra "buoni" e "cattivi" del Pdl. Una squadra di ministri che coincideva guarda caso con i big presenti alla manifestazione "Italia popolare" al Teatro Olimpico, che già prima delle elezioni erano pronti ad abbandonarlo per Monti. E i quali, poi, devono aver pensato che fosse meglio entrare in Parlamento a bordo del "tram Berlusconi", che garantisce sempre buoni numeri, e rinviare l'operazione. Berlusconi avrebbe potuto giocare altre carte anche all'indomani della sentenza di condanna della Cassazione: sebbene comprensibile il suo stato d'animo, avrebbe potuto avviare con Napolitano una trattativa per ottenere non vie d'uscita che era del tutto irrealistico che potesse concedere (figuriamoci pretenderle dal Pd), ma un vero patto politico sulle riforme per il quale il presidente avrebbe potuto spendersi, e dal quale il Cav avrebbe potuto trarre una nuova legittimazione politica, nonostante la condanna e l'esclusione dal Parlamento. Non è detto che gli sarebbe stato concesso, ma certo un tentativo onorevole e più realistico.
Vedendosi nelle ultime settimane sempre più accerchiato e ferito, e avendo fiutato il doppio gioco dei suoi ministri, ha deciso di rompere l'assedio, di non accettare passivamente il ruolo di vittima sacrificale e almeno di fare chiarezza tra i suoi. E' vero che la "deberlusconizzazione" e la spaccatura del partito si sarebbero probabilmente verificate per inerzia, dopo la decadenza e l'esecuzione della sentenza Mediaset, e quindi era questa l'ultima finestra utile per tentare di salvare il salvabile, ma i fatti dimostrano che i tempi erano sbagliati. Nessuno era davvero pronto per una crisi del governo Letta, nemmeno Berlusconi. Figuriamoci il Paese, la stessa opinione pubblica di centrodestra, o i gruppi di "potere" e i partner internazionali. Probabilmente aspettando ancora qualche mese, osservando l'andamento dell'economia e facendo maturare la delusione per l'immobilismo e il minimalismo del governo, avrebbe fatto apparire meno "irresponsabile" la crisi, non legata alla sua decadenza (già avvenuta), e meno attraente la scissione governista di Alfano. Ma, appunto, forse questo tempo non c'era.
Ultimo errore: il sì al voto di fiducia una volta intrapresa così inequivocabilmente la via della crisi di governo. E' vero che Letta, Napolitano e il Pd speravano in un no, quindi nel sostegno incondizionato di un pezzo di Pdl finalmente deberlusconizzato e alfanizzato, e il Cav li ha spiazzati, almeno finché non si formeranno i gruppi scissionisti. E certo, a latte versato potrà sempre rivendicare l'ulteriore atto di "responsabilità" e l'estremo tentativo di tenere unito il Pdl. Ma il sì ha posto Berlusconi in un limbo di irrilevanza: non può far sentire il proprio peso dall'opposizione ed è chiaro a tutti che Letta ha ormai i numeri di Alfano per andare avanti, non ha più bisogno di quelli del "giaguaro". Ma soprattutto ha trasformato un possibile "25 luglio" in un "8 settembre", un "tutti a casa" nel suo partito, come osservato da Ferrara su Il Foglio. Ha perso l'ala governista, pronta comunque alla scissione (o a prendersi il partito), e il suo esercito anziché ridotto ma compatto è in rotta: quanti erano disposti a seguirlo si sono sentiti traditi, ora temono purghe interne (per ricucire Alfano ne chiederà l'esclusione da ruoli di rilievo) e comunque faranno fatica ad esporsi nuovamente. Ha quindi concesso ad Alfano una leva insperata, e forse decisiva, per prendersi il Pdl anziché andarsene da "traditore".
A proposito di Alfano. Svolta la funzione di "deberlusconizzare" la maggioranza diventa numericamente determinante per Letta, rischiando però di contare meno politicamente. Da una scelta come quella di dividersi da Berlusconi, o di marginalizzarlo nel suo partito, per sostenere un governo di coalizione (non più di "larghe intese") con il Pd non si può tornare indietro. Se lo si fa, si ammette di aver avuto torto e si sparisce. Dunque, da oggi per Alfano il governo Letta diventa l'unico orizzonte possibile e sarà molto difficile che riesca a porre con la necessaria forza delle priorità e condizioni programmatiche. Per esempio, nell'indifferenza generale ieri Saccomanni ha fatto sapere che la questione dell'aumento dell'Iva è chiusa. Cosa ha da dire Alfano? D'altronde, già in questi primi mesi i ministri del Pdl si sono comportati come se così fosse, facendo passare qualsiasi nefandezza fiscale, fino al pasticcio indecoroso che stava per essere varato per rinviare l'aumento dell'Iva. A conclusione dell'esperienza di governo, cosa sarebbe in grado di rivendicare come proprio specifico apporto agli occhi dell'elettorato di centrodestra? Ah, già, gli elettori, cerchiamo di non dimenticarceli, perché prima o poi si vota. E alla fine toccherà ad Alfano, sia che conquisti il Pdl sia che formalizzi la rottura, dimostrare le buone ragioni della propria scelta.
E' del tutto evidente che un futuro politico dopo Berlusconi esiste. E' legittimo, anzi auspicabile, che "falchi" e "colombe" si sforzino di darsi un futuro politico. Ma può esistere senza ciò che Berlusconi nel bene e nel male ha incarnato e rappresentato in questi vent'anni? Può esistere, senza un'idea fusionista di centrodestra, senza il bipolarismo, e sacrificando alcuni contenuti che nonostante le promesse non mantenute sono stati centrali (per esempio, tasse e giustizia)?
"Noi difenderemo sempre Berlusconi, ma il governo Letta è un'altra cosa", è un'ipocrisia o un'ingenuità (o entrambe). Significa restare al suo fianco sul piano personale, ma su quello politico accettare l'idea che la sua condanna ed esclusione della vita politica riguarda solo lui, che anche se è un'ingiustizia la vita continua, "the show must go on", quindi significa abbandonare la battaglia per una giustizia non politicizzata. Non può essere così se si vuole avere un futuro politico nel centrodestra dopo Berlusconi. Non si tratta di pretendere dal governo, dal Pd, o da Napolitano, di salvare Berlusconi. Ma bisogna avere la capacità, la volontà e la forza di porre la questione politicamente e non accontentarsi, come fa Cicchitto, di dire "saremo sempre garantisti e contro la magistratura politicizzata, ma scusate, ora serve stabilità e purtroppo sappiamo che il Pd la pensa diversamente", riducendola a mera testimonianza. Perché oggi ad essere sacrificato sull'altare della "stabilità" sarà il tema della giustizia, domani la questione fiscale, e dopodomani chissà, magari ci si sveglia ma sarà troppo tardi.
Dunque, a chi scrive sembra che da mesi nel Pdl, per garantirsi un futuro politico nel centrodestra, ci sia una gara a chi riesce a trafugare la salma politica di Berlusconi, a portarla dalla propria parte e ad esibirla nella propria teca, per poter rivendicare il titolo di successore. Quello che nessuno pare aver capito è che davvero la leadership di Berlusconi non è qualcosa che passa di mano per eredità. Si conquista sul campo incarnando ciò che lui ha rappresentato per l'elettorato di centrodestra. Al di fuori, sono tutti destinati all'irrilevanza. La nuova Dc a cui pensano gli alfaniani rappresenterebbe comunque solo una parte del popolo di centrodestra, non marginale ma minoritaria, sarebbe per la sinistra un avversario da battere agevolmente o, al massimo, da cooptare in un governo di coalizione qualora il Pd non veda alla propria sinistra numeri sufficienti e forze responsabili con cui governare. D'altra parte, il rischio che la nuova Forza Italia si riveli numericamente consistente ma politicamente marginale, perché mera ridotta post-berlusconiana, nostalgica e rancorosa, priva di vocazione maggioritaria, di governo ed europea, c'è tutto. In un partito può (forse deve) vigere la regola che l'ultima parola sul da farsi spetta al leader. Ma non può vigere la regola dell'ultimo che riesce a convincere l'anziano ed esausto leader, in un gioco interminabile di piroette.
Entrambe queste fazioni stanno più o meno inconsapevolmente lavorando ad una Terza (Prima?) Repubblica di cui il Pd è destinato ad essere perno centrale. Grazie alla probabile correzione in senso proporzionalista della legge elettorale (premio di maggioranza meno generoso), e alla nuova "conventio ad excludendum" delle estreme (post-berlusconiani, ex An, Lega e Grillo), il Pd potrà avvantaggiarsi delle divisioni nel centrodestra e restare sempre al governo, sia che l'elettorato si sposti a sinistra, ovviamente, sia che si sposti a destra (conservando la maggioranza relativa e aprendo al centro dei "presentabili").
Ha vinto o perso ieri Berlusconi? E ha vinto Alfano? Intendiamoci, ormai Berlusconi non può più vincere. Sta per decadere da senatore, andrà ai servizi sociali o ai domiciliari e non tornerà più al governo. Forse sarà anche arrestato. Che aprendo la crisi avesse intenzione di salvarsi e scongiurare questi esiti è da escludere. E probabilmente aveva messo anche nel conto di non riuscire a far cadere Letta. Però, avendo contribuito alla nascita di un governo di pacificazione - e tutti ricordiamo la retorica di quei giorni nelle parole di Letta e nella commozione del presidente Napolitano - e ritrovandosi, invece, in un governo di "deberlusconizzazione" a tappe forzate, che sembra aver intenzionalmente vivacchiato per mesi (sia nelle scelte economiche che sulle riforme), in attesa della sua decadenza, persino anticipata, e della conseguente spaccatura del Pdl, Berlusconi non poteva non reagire in qualche modo. Avrebbe potuto anche rassegnarsi alla "deberlusconizzazione" del Parlamento, ma non a quella del suo partito.
Di errori ne ha commessi molti. Sentendosi forte, all'indomani del voto e dopo la figuraccia del Pd, ha accettato una lista di ministri che prefigurava già il piano di Letta e Alfano, una divisione tra "buoni" e "cattivi" del Pdl. Una squadra di ministri che coincideva guarda caso con i big presenti alla manifestazione "Italia popolare" al Teatro Olimpico, che già prima delle elezioni erano pronti ad abbandonarlo per Monti. E i quali, poi, devono aver pensato che fosse meglio entrare in Parlamento a bordo del "tram Berlusconi", che garantisce sempre buoni numeri, e rinviare l'operazione. Berlusconi avrebbe potuto giocare altre carte anche all'indomani della sentenza di condanna della Cassazione: sebbene comprensibile il suo stato d'animo, avrebbe potuto avviare con Napolitano una trattativa per ottenere non vie d'uscita che era del tutto irrealistico che potesse concedere (figuriamoci pretenderle dal Pd), ma un vero patto politico sulle riforme per il quale il presidente avrebbe potuto spendersi, e dal quale il Cav avrebbe potuto trarre una nuova legittimazione politica, nonostante la condanna e l'esclusione dal Parlamento. Non è detto che gli sarebbe stato concesso, ma certo un tentativo onorevole e più realistico.
Vedendosi nelle ultime settimane sempre più accerchiato e ferito, e avendo fiutato il doppio gioco dei suoi ministri, ha deciso di rompere l'assedio, di non accettare passivamente il ruolo di vittima sacrificale e almeno di fare chiarezza tra i suoi. E' vero che la "deberlusconizzazione" e la spaccatura del partito si sarebbero probabilmente verificate per inerzia, dopo la decadenza e l'esecuzione della sentenza Mediaset, e quindi era questa l'ultima finestra utile per tentare di salvare il salvabile, ma i fatti dimostrano che i tempi erano sbagliati. Nessuno era davvero pronto per una crisi del governo Letta, nemmeno Berlusconi. Figuriamoci il Paese, la stessa opinione pubblica di centrodestra, o i gruppi di "potere" e i partner internazionali. Probabilmente aspettando ancora qualche mese, osservando l'andamento dell'economia e facendo maturare la delusione per l'immobilismo e il minimalismo del governo, avrebbe fatto apparire meno "irresponsabile" la crisi, non legata alla sua decadenza (già avvenuta), e meno attraente la scissione governista di Alfano. Ma, appunto, forse questo tempo non c'era.
Ultimo errore: il sì al voto di fiducia una volta intrapresa così inequivocabilmente la via della crisi di governo. E' vero che Letta, Napolitano e il Pd speravano in un no, quindi nel sostegno incondizionato di un pezzo di Pdl finalmente deberlusconizzato e alfanizzato, e il Cav li ha spiazzati, almeno finché non si formeranno i gruppi scissionisti. E certo, a latte versato potrà sempre rivendicare l'ulteriore atto di "responsabilità" e l'estremo tentativo di tenere unito il Pdl. Ma il sì ha posto Berlusconi in un limbo di irrilevanza: non può far sentire il proprio peso dall'opposizione ed è chiaro a tutti che Letta ha ormai i numeri di Alfano per andare avanti, non ha più bisogno di quelli del "giaguaro". Ma soprattutto ha trasformato un possibile "25 luglio" in un "8 settembre", un "tutti a casa" nel suo partito, come osservato da Ferrara su Il Foglio. Ha perso l'ala governista, pronta comunque alla scissione (o a prendersi il partito), e il suo esercito anziché ridotto ma compatto è in rotta: quanti erano disposti a seguirlo si sono sentiti traditi, ora temono purghe interne (per ricucire Alfano ne chiederà l'esclusione da ruoli di rilievo) e comunque faranno fatica ad esporsi nuovamente. Ha quindi concesso ad Alfano una leva insperata, e forse decisiva, per prendersi il Pdl anziché andarsene da "traditore".
A proposito di Alfano. Svolta la funzione di "deberlusconizzare" la maggioranza diventa numericamente determinante per Letta, rischiando però di contare meno politicamente. Da una scelta come quella di dividersi da Berlusconi, o di marginalizzarlo nel suo partito, per sostenere un governo di coalizione (non più di "larghe intese") con il Pd non si può tornare indietro. Se lo si fa, si ammette di aver avuto torto e si sparisce. Dunque, da oggi per Alfano il governo Letta diventa l'unico orizzonte possibile e sarà molto difficile che riesca a porre con la necessaria forza delle priorità e condizioni programmatiche. Per esempio, nell'indifferenza generale ieri Saccomanni ha fatto sapere che la questione dell'aumento dell'Iva è chiusa. Cosa ha da dire Alfano? D'altronde, già in questi primi mesi i ministri del Pdl si sono comportati come se così fosse, facendo passare qualsiasi nefandezza fiscale, fino al pasticcio indecoroso che stava per essere varato per rinviare l'aumento dell'Iva. A conclusione dell'esperienza di governo, cosa sarebbe in grado di rivendicare come proprio specifico apporto agli occhi dell'elettorato di centrodestra? Ah, già, gli elettori, cerchiamo di non dimenticarceli, perché prima o poi si vota. E alla fine toccherà ad Alfano, sia che conquisti il Pdl sia che formalizzi la rottura, dimostrare le buone ragioni della propria scelta.
E' del tutto evidente che un futuro politico dopo Berlusconi esiste. E' legittimo, anzi auspicabile, che "falchi" e "colombe" si sforzino di darsi un futuro politico. Ma può esistere senza ciò che Berlusconi nel bene e nel male ha incarnato e rappresentato in questi vent'anni? Può esistere, senza un'idea fusionista di centrodestra, senza il bipolarismo, e sacrificando alcuni contenuti che nonostante le promesse non mantenute sono stati centrali (per esempio, tasse e giustizia)?
"Noi difenderemo sempre Berlusconi, ma il governo Letta è un'altra cosa", è un'ipocrisia o un'ingenuità (o entrambe). Significa restare al suo fianco sul piano personale, ma su quello politico accettare l'idea che la sua condanna ed esclusione della vita politica riguarda solo lui, che anche se è un'ingiustizia la vita continua, "the show must go on", quindi significa abbandonare la battaglia per una giustizia non politicizzata. Non può essere così se si vuole avere un futuro politico nel centrodestra dopo Berlusconi. Non si tratta di pretendere dal governo, dal Pd, o da Napolitano, di salvare Berlusconi. Ma bisogna avere la capacità, la volontà e la forza di porre la questione politicamente e non accontentarsi, come fa Cicchitto, di dire "saremo sempre garantisti e contro la magistratura politicizzata, ma scusate, ora serve stabilità e purtroppo sappiamo che il Pd la pensa diversamente", riducendola a mera testimonianza. Perché oggi ad essere sacrificato sull'altare della "stabilità" sarà il tema della giustizia, domani la questione fiscale, e dopodomani chissà, magari ci si sveglia ma sarà troppo tardi.
Dunque, a chi scrive sembra che da mesi nel Pdl, per garantirsi un futuro politico nel centrodestra, ci sia una gara a chi riesce a trafugare la salma politica di Berlusconi, a portarla dalla propria parte e ad esibirla nella propria teca, per poter rivendicare il titolo di successore. Quello che nessuno pare aver capito è che davvero la leadership di Berlusconi non è qualcosa che passa di mano per eredità. Si conquista sul campo incarnando ciò che lui ha rappresentato per l'elettorato di centrodestra. Al di fuori, sono tutti destinati all'irrilevanza. La nuova Dc a cui pensano gli alfaniani rappresenterebbe comunque solo una parte del popolo di centrodestra, non marginale ma minoritaria, sarebbe per la sinistra un avversario da battere agevolmente o, al massimo, da cooptare in un governo di coalizione qualora il Pd non veda alla propria sinistra numeri sufficienti e forze responsabili con cui governare. D'altra parte, il rischio che la nuova Forza Italia si riveli numericamente consistente ma politicamente marginale, perché mera ridotta post-berlusconiana, nostalgica e rancorosa, priva di vocazione maggioritaria, di governo ed europea, c'è tutto. In un partito può (forse deve) vigere la regola che l'ultima parola sul da farsi spetta al leader. Ma non può vigere la regola dell'ultimo che riesce a convincere l'anziano ed esausto leader, in un gioco interminabile di piroette.
Entrambe queste fazioni stanno più o meno inconsapevolmente lavorando ad una Terza (Prima?) Repubblica di cui il Pd è destinato ad essere perno centrale. Grazie alla probabile correzione in senso proporzionalista della legge elettorale (premio di maggioranza meno generoso), e alla nuova "conventio ad excludendum" delle estreme (post-berlusconiani, ex An, Lega e Grillo), il Pd potrà avvantaggiarsi delle divisioni nel centrodestra e restare sempre al governo, sia che l'elettorato si sposti a sinistra, ovviamente, sia che si sposti a destra (conservando la maggioranza relativa e aprendo al centro dei "presentabili").
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