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Wednesday, August 18, 2010

Cossiga e il lato oscuro del potere

Ciò che affascina, intriga, e allo stesso tempo inquieta, della figura umana e politica di Francesco Cossiga è la sua frequentazione con il lato oscuro del potere. E come ne sia uscito piuttosto malconcio, provato dai turbamenti dell'anima, ma tutto sommato a testa alta. Non solo in momenti delicatissimi per la sopravvivenza della Repubblica si è trovato ai vertici dei cosiddetti "ministeri della forza" - sottosegretario alla difesa con delega a sovrintendere "Gladio", di cui si definì «l'unico referente politico»; ministro dell'Interno nel culmine degli anni di piombo (rapimento Moro), che affrontò con estrema durezza - ma ha sempre creduto nella nobiltà anche di quell'aspetto disincantato della politica che il più delle volte implica la responsabilità del "lavoro sporco".

C'è un angolo buio, infatti, che sfugge, almeno per un primo momento, al controllo democratico dell'informazione e dell'opinione pubblica e che ha a che fare con la sicurezza più elementare di uno Stato, con tutte le misure da mettere in atto - anche segretamente - per assicurarne la sua stessa sopravvivenza. E' una inevitabile zona d'ombra - cui neanche la democrazia può sfuggire, se non vuole esporsi disarmata agli attacchi dei suoi nemici - dove è labile il confine tra la democrazia e il suo contrario, e dove il male e il bene si confondono. E chi opera in quelle zone incerte si ritrova solo con la propria coscienza; è il solo a sapere, o a illudersi di sapere, se sta esercitando i suoi poteri per o contro la democrazia e le sue istituzioni, mentre dall'esterno gli altri - per cultura o per convenienza - sospettano e spesso si convincono dei peggiori teoremi. Cossiga ha veleggiato per questi perigliosi flutti, toccato con mano il potere allo stato puro, con i suoi pesi e la sua tragicità, pagando per intero, innanzitutto nella propria intima coscienza, il prezzo di scelte drammatiche e impopolari.

Una tragicità che non può capire chi coltiva un'idea semplicistica, moralistica, infantile della democrazia, dalla quale è portato a considerare tali zone come luoghi in cui vengono necessariamente orditi complotti e trame inconfessabili. E' molto più rassicurante in effetti credere in un potere che tutto sa e controlla, dispone, per poterlo accusare di ogni nefandezza, piuttosto che fare i conti con una realtà molto più complessa, nella quale magari chi detiene per un certo periodo quel potere brancola nel buio, non riesce a calcolare tutte le variabili ed è esposto ad ogni tempesta, dovendo dare ai suoi cittadini l'impressione del contrario. Più rassicurante, da un certo punto di vista, credere che Cossiga e la Dc non abbiano voluto salvare Moro, piuttosto che rassegnarsi all'idea che non abbiano potuto.

Moro, "Gladio", le stragi e gli anni di piombo. Esperienze che segnarono Cossiga nel profondo e da cui uscì con l'immagine indelebile del cattivo per antonomasia, il Kossiga delle leggi emergenziali, dei misteri d'Italia, dei servizi deviati, amico degli "amerikani" e della perfida Albione. Insomma, il volto "sporco" del regime. C'è ancora chi sotto sotto non ha smesso di considerarlo un "golpista" mancato. Un'immagine ingiusta, alimentata dalla sua ostentata vicinanza agli apparati di sicurezza, ma in modo decisivo da veri e propri miti. Ma Cossiga non ha rinnegato se stesso, non si è dato allo scaricabarile, e suo malgrado ha imparato a convivere con quell'immagine («non rinnego niente. Anzi mi tengo, sia chiaro, la kappa con la quale veniva effigiato il mio nome sui muri di tutt'Italia»). Un peso che si è aggiunto a quello già tremendo delle responsabilità che si è dovuto assumere nello svolgimento delle sue funzioni di sottosegretario prima, ministro poi e infine presidente, dando prova di un senso dello Stato inconcepibile per personaggi modesti come Moro.

Non c'era la pazzia, né la depressione, dietro le sue "picconate" alla Prima Repubblica. Alla consapevolezza dell'esigenza di rinnovamento del sistema politico dopo la caduta del Muro di Berlino si aggiungeva una lucidissima sofferenza interiore e un forte spirito di rivalsa nei confronti di una classe politica di ignavi, che nel momento delle accuse e dei veleni non aveva saputo fare quadrato, lo aveva lasciato solo, e alla fine persino accerchiato, come se certe scomode verità, o silenzi, non fossero frutto di una ragion di Stato condivisa ma attribuibili unicamente a Kossiga, l'"anima nera" della Repubblica. Concluso il suo settennato ha cominciato a giocare con quell'immagine di "cattivo", a togliersi i "sassolini dalle scarpe", come colui che non ha più nulla da perdere in termini di immagine e che non deve più alcun riguardo ai tanti mediocri che hanno abitato insieme a lui il mondo della politica. E' diventato il "picconatore" irriverente che abbiamo apprezzato e di cui questo Paese avrebbe avuto ancora bisogno. Ma da quella sua irriverenza e dalle sue provocazioni non ha mai cessato di trapelare un pizzico di malinconia, la malinconia di chi in fondo sa di rimanere incompreso.

2 comments:

Anonymous said...

due cose: Moro personaggio modesto? ma se era il punto di riferimendo di Cossiga. L'unica sua colpa è di essere morto ammazzato mentre Cossiga è morto nel suo letto.
Secondo: Il picconatore non ha cominciato dopo il settennato a picconare, bensi 2 anni prima della fine del suo mandato. Difficilmente ho letto tanti errori in così poche righe.

Cachorro Quente said...

Vogliamo ricordare la sua simpatica irriverenza nel giostrare le esternazioni contraddittorie e allusive su argomenti leggeri e sbarazzini come il caso Giorgiana Masi (cito a memoria: "siamo in quattro a sapere la verità, in cinque contando il parlamentare di Rifondazione a cui l'ho rivelata perchè mi rompeva le scatole"), il tema delle infiltrazioni nei cortei studenteschi o la strage di Bologna ("Sarà stato l'esplosivo che hanno lasciato sul treno dei palestinesi". Oggi forse avrebbe parlato di rumeni).

Direi che la patologia mentale (grave e scarsamente controllata da una terapia farmacologica generosa, come suffragato da molte testimonianze) è l'unica giustificazione. Altro che la malinconia di chi in fondo sa di rimanere incompreso.