Ciò che affascina, intriga, e allo stesso tempo inquieta, della figura umana e politica di Francesco Cossiga è la sua frequentazione con il lato oscuro del potere. E come ne sia uscito piuttosto malconcio, provato dai turbamenti dell'anima, ma tutto sommato a testa alta. Non solo in momenti delicatissimi per la sopravvivenza della Repubblica si è trovato ai vertici dei cosiddetti "ministeri della forza" - sottosegretario alla difesa con delega a sovrintendere "Gladio", di cui si definì «l'unico referente politico»; ministro dell'Interno nel culmine degli anni di piombo (rapimento Moro), che affrontò con estrema durezza - ma ha sempre creduto nella nobiltà anche di quell'aspetto disincantato della politica che il più delle volte implica la responsabilità del "lavoro sporco".
C'è un angolo buio, infatti, che sfugge, almeno per un primo momento, al controllo democratico dell'informazione e dell'opinione pubblica e che ha a che fare con la sicurezza più elementare di uno Stato, con tutte le misure da mettere in atto - anche segretamente - per assicurarne la sua stessa sopravvivenza. E' una inevitabile zona d'ombra - cui neanche la democrazia può sfuggire, se non vuole esporsi disarmata agli attacchi dei suoi nemici - dove è labile il confine tra la democrazia e il suo contrario, e dove il male e il bene si confondono. E chi opera in quelle zone incerte si ritrova solo con la propria coscienza; è il solo a sapere, o a illudersi di sapere, se sta esercitando i suoi poteri per o contro la democrazia e le sue istituzioni, mentre dall'esterno gli altri - per cultura o per convenienza - sospettano e spesso si convincono dei peggiori teoremi. Cossiga ha veleggiato per questi perigliosi flutti, toccato con mano il potere allo stato puro, con i suoi pesi e la sua tragicità, pagando per intero, innanzitutto nella propria intima coscienza, il prezzo di scelte drammatiche e impopolari.
Una tragicità che non può capire chi coltiva un'idea semplicistica, moralistica, infantile della democrazia, dalla quale è portato a considerare tali zone come luoghi in cui vengono necessariamente orditi complotti e trame inconfessabili. E' molto più rassicurante in effetti credere in un potere che tutto sa e controlla, dispone, per poterlo accusare di ogni nefandezza, piuttosto che fare i conti con una realtà molto più complessa, nella quale magari chi detiene per un certo periodo quel potere brancola nel buio, non riesce a calcolare tutte le variabili ed è esposto ad ogni tempesta, dovendo dare ai suoi cittadini l'impressione del contrario. Più rassicurante, da un certo punto di vista, credere che Cossiga e la Dc non abbiano voluto salvare Moro, piuttosto che rassegnarsi all'idea che non abbiano potuto.
Moro, "Gladio", le stragi e gli anni di piombo. Esperienze che segnarono Cossiga nel profondo e da cui uscì con l'immagine indelebile del cattivo per antonomasia, il Kossiga delle leggi emergenziali, dei misteri d'Italia, dei servizi deviati, amico degli "amerikani" e della perfida Albione. Insomma, il volto "sporco" del regime. C'è ancora chi sotto sotto non ha smesso di considerarlo un "golpista" mancato. Un'immagine ingiusta, alimentata dalla sua ostentata vicinanza agli apparati di sicurezza, ma in modo decisivo da veri e propri miti. Ma Cossiga non ha rinnegato se stesso, non si è dato allo scaricabarile, e suo malgrado ha imparato a convivere con quell'immagine («non rinnego niente. Anzi mi tengo, sia chiaro, la kappa con la quale veniva effigiato il mio nome sui muri di tutt'Italia»). Un peso che si è aggiunto a quello già tremendo delle responsabilità che si è dovuto assumere nello svolgimento delle sue funzioni di sottosegretario prima, ministro poi e infine presidente, dando prova di un senso dello Stato inconcepibile per personaggi modesti come Moro.
Non c'era la pazzia, né la depressione, dietro le sue "picconate" alla Prima Repubblica. Alla consapevolezza dell'esigenza di rinnovamento del sistema politico dopo la caduta del Muro di Berlino si aggiungeva una lucidissima sofferenza interiore e un forte spirito di rivalsa nei confronti di una classe politica di ignavi, che nel momento delle accuse e dei veleni non aveva saputo fare quadrato, lo aveva lasciato solo, e alla fine persino accerchiato, come se certe scomode verità, o silenzi, non fossero frutto di una ragion di Stato condivisa ma attribuibili unicamente a Kossiga, l'"anima nera" della Repubblica. Concluso il suo settennato ha cominciato a giocare con quell'immagine di "cattivo", a togliersi i "sassolini dalle scarpe", come colui che non ha più nulla da perdere in termini di immagine e che non deve più alcun riguardo ai tanti mediocri che hanno abitato insieme a lui il mondo della politica. E' diventato il "picconatore" irriverente che abbiamo apprezzato e di cui questo Paese avrebbe avuto ancora bisogno. Ma da quella sua irriverenza e dalle sue provocazioni non ha mai cessato di trapelare un pizzico di malinconia, la malinconia di chi in fondo sa di rimanere incompreso.
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Wednesday, August 18, 2010
Sunday, June 10, 2007
Patetiche e marginali le manifestazioni anti-Bush
Non più di 10-15 mila al corteo "No War", dove "Prodi = Bush". In piazza del Popolo 50, 100, 200. Questo l'ordine di grandezza dei presenti al «presidio» per "L'altra America", convocati da tre partiti di governo: Rifondazione comunista, Comunisti italiani, Verdi.
Se un dato politico si può trarre dalle manifestazioni di ieri contro Bush è che pur essendo fenomeno diffuso l'antiamericanismo nel nostro paese, rispetto a qualche anno fa oggi la quantità di italiani che ritengono di scendere in piazza per la "pace", contro la politica americana, si è assottigliata fino all'irrilevanza. Una triste marginalità ben descritta da questo articolo di Aldo Cazzullo.
«Alle tre e mezzo c'era più folla intorno al presidente emerito che sotto il palco», ironizza Luca Telese su il Giornale, che si riferisce al gelato "americano" preso proprio a piazza del Popolo dall'ex presidente Cossiga, che in mattinata dalle finistre del suo appartamento in Prati aveva esposto ben cinque bandiere: americana, britannica, israeliana, italiana, sarda.
Anche Pannella insiste con la sua versione di "Altra America", che si riconosce in Lincoln, Martin Luther King e Ike Eisenhower. Nomi che secondo il leader radicale dovrebbero far riflettere Bush. Avevamo già invitato Pannella, invece, a riflettere e a leggere un po' di stampa in lingua inglese.
Per quanto riguarda il bilancio politico della visita del presidente Bush in Italia e dei suoi incontri con Napolitano e Prodi, Maurizio Molinari osserva che «a prevalere sono stati i dossier che consentono ai due leader di operare in sintonia e in tempi stretti» (clima, interdipendenza globale, Kosovo e Libano), mentre sono rimasti «sullo sfondo i dissensi su Afghanistan, Iraq, Abu Omar e Calipari».
«Un nuovo inizio», lo ha definito Molinari, nei rapporti tra Prodi e Bush, «apparso convinto dell'esistenza di un'agenda compatibile con il governo italiano nel lungo termine».
Simile la lettura di Augusto Minzolini: «Il primo comandamento della diplomazia prevede che quando non si è d'accordo su un argomento, è meglio accantonarlo». E' quello che hanno fatto Bush e Prodi. Obiettivo della diplomazia Usa era «attutire», «rammendare». E «con George W. che in queste commedie è un vero mattatore».
Il rapporto tra Bush e Prodi «non è quello della pacca sulle spalle, ma la classica amicizia che secondo il protocollo diplomatico debbono dimostrare i capi di governo di due Paesi alleati, specie se hanno litigato da poco». Un'«amicizia diplomatica», appunto, mentre quella che unisce Bush e Berlusconi è «vera, personale, non fosse altro perché i due si piacciono. Parlano lo stesso linguaggio e quasi sempre la pensano allo stesso modo».
Ma il sigillo che ha colto l'aspetto più rilevante dei buoni rapporti ostentati sia da Bush che da Prodi l'ha messo Mario Sechi: «Ogni volta che George Bush gli dava una pacca sulla spalla, Romano Prodi perdeva voti dalla tasca della giacca», sfotte. E, aggiungiamo noi, gli si vedeva bene una ruga di paura sul viso. «Dopo le urne, anche le piazze, care al centrosinistra, si sono svuotate», osserva Sechi, mettendo il dito proprio là dove più duole alla classe dirigente della sinistra italiana, «in larghissima parte figlia del Sessantotto», che può «abbandonare perfino il controllo delle istituzioni, ma non può permettersi di perdere quel consenso popolare che le ha consentito di perpetuarsi, credere di essere nel giusto e perseverare nei propri errori».
Se un dato politico si può trarre dalle manifestazioni di ieri contro Bush è che pur essendo fenomeno diffuso l'antiamericanismo nel nostro paese, rispetto a qualche anno fa oggi la quantità di italiani che ritengono di scendere in piazza per la "pace", contro la politica americana, si è assottigliata fino all'irrilevanza. Una triste marginalità ben descritta da questo articolo di Aldo Cazzullo.
«Alle tre e mezzo c'era più folla intorno al presidente emerito che sotto il palco», ironizza Luca Telese su il Giornale, che si riferisce al gelato "americano" preso proprio a piazza del Popolo dall'ex presidente Cossiga, che in mattinata dalle finistre del suo appartamento in Prati aveva esposto ben cinque bandiere: americana, britannica, israeliana, italiana, sarda.
Anche Pannella insiste con la sua versione di "Altra America", che si riconosce in Lincoln, Martin Luther King e Ike Eisenhower. Nomi che secondo il leader radicale dovrebbero far riflettere Bush. Avevamo già invitato Pannella, invece, a riflettere e a leggere un po' di stampa in lingua inglese.
Per quanto riguarda il bilancio politico della visita del presidente Bush in Italia e dei suoi incontri con Napolitano e Prodi, Maurizio Molinari osserva che «a prevalere sono stati i dossier che consentono ai due leader di operare in sintonia e in tempi stretti» (clima, interdipendenza globale, Kosovo e Libano), mentre sono rimasti «sullo sfondo i dissensi su Afghanistan, Iraq, Abu Omar e Calipari».
«Un nuovo inizio», lo ha definito Molinari, nei rapporti tra Prodi e Bush, «apparso convinto dell'esistenza di un'agenda compatibile con il governo italiano nel lungo termine».
Simile la lettura di Augusto Minzolini: «Il primo comandamento della diplomazia prevede che quando non si è d'accordo su un argomento, è meglio accantonarlo». E' quello che hanno fatto Bush e Prodi. Obiettivo della diplomazia Usa era «attutire», «rammendare». E «con George W. che in queste commedie è un vero mattatore».
Il rapporto tra Bush e Prodi «non è quello della pacca sulle spalle, ma la classica amicizia che secondo il protocollo diplomatico debbono dimostrare i capi di governo di due Paesi alleati, specie se hanno litigato da poco». Un'«amicizia diplomatica», appunto, mentre quella che unisce Bush e Berlusconi è «vera, personale, non fosse altro perché i due si piacciono. Parlano lo stesso linguaggio e quasi sempre la pensano allo stesso modo».
Ma il sigillo che ha colto l'aspetto più rilevante dei buoni rapporti ostentati sia da Bush che da Prodi l'ha messo Mario Sechi: «Ogni volta che George Bush gli dava una pacca sulla spalla, Romano Prodi perdeva voti dalla tasca della giacca», sfotte. E, aggiungiamo noi, gli si vedeva bene una ruga di paura sul viso. «Dopo le urne, anche le piazze, care al centrosinistra, si sono svuotate», osserva Sechi, mettendo il dito proprio là dove più duole alla classe dirigente della sinistra italiana, «in larghissima parte figlia del Sessantotto», che può «abbandonare perfino il controllo delle istituzioni, ma non può permettersi di perdere quel consenso popolare che le ha consentito di perpetuarsi, credere di essere nel giusto e perseverare nei propri errori».
Monday, April 09, 2007
Dal Campidoglio a San Pietro
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Riconciliazione nazionale. L'abbraccio tra Cossiga e Sofri. La pace tra lo Stato e la Lotta Continua. Quasi come se avessero solo scherzato. In vecchiaia i nemici di una volta cementano una strana solidarietà, basata sulla condivisione di terribili segreti, gelosamente custoditi. Mica vorrete che il paese si dimentichi di loro?

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