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Monday, August 09, 2010

Una Repubblica fondata sul doppiopesismo

Non più solo i giornali di centrodestra. Ormai l'inchiesta del Giornale sulla casa di Montecarlo lasciata in eredità ad An e in cui ora abita in affitto il "cognato" di Fini, dopo essere stata ceduta ad una società offshore con sede ai caraibi, viene rilanciata da tutti i media, dopo giorni di riluttanza (in altri casi viene adottata ben altra solerzia). Dopo la richiesta di spiegazioni da parte del Corriere, Fini - che non sentiva affatto di doverne dare - si è dovuto piegare, ma la sua nota in 8 punti non ha convinto nessuno. Anzi, appare a tratti "suicida". Fini fornisce una stima del valore dell'appartamento (450 milioni di lire) che risale a prima dell'adozione dell'euro, mentre è stato venduto nel 2008 e tutti sanno che i prezzi nel frattempo sono più che raddoppiati. Vorrebbe convincerci che 70mila euro in più rispetto a una valutazione in lire di 8 anni prima sono un affare? A Fini non risultano «proposte formali di acquisto». Forse formali no, ma tutti sanno che la proposta formale, cioè con tanto di anticipo, arriva di fatto a trattativa conclusa. Ancora più sospetto il ruolo di Giancarlo Tulliani che emerge dai chiarimenti di Fini: fa da "mediatore" per la vendita della casa di cui poi diventerà l'inquilino. «In 41 giorni - riassume dunque il Giornale - la Printemps (o chi vi si nasconde dietro) nasce ai Caraibi, si interessa dell'appartamento di Montecarlo, individua chissà come Giancarlo Tulliani come "mediatore", e quest'ultimo a sua volta informa Fini della proposta, che immaginiamo "formale"». Per non parlare dell'ultimo punto, l'affitto al "cognato" a sua insaputa, degno del miglior Scajola.

Non si tratterà di «soldi o beni pubblici», come si premura di precisare Fini nella sua nota, ma in questo modo dimostra di avere del partito un'idea "privatistica", piuttosto simile a quella che rimprovera a Berlusconi. L'aspetto più discutibile della vicenda non sta nell'aver favorito il "cognato". Stiamo parlando della vendita di un immobile a una società offshore a rischio riciclaggio e di almeno un milione di euro che manca rispetto al suo valore. Denaro che presumibilmente qualcuno, in qualche forma, evadendo il fisco, ha intascato, o fatto sparire nelle varie transazioni. Inoltre, Fini parte all'attacco: «Non ho l'abitudine di strillare contro i magistrati comunisti». Una manifesta falsità. Non li avrà definiti «comunisti», ma ricordiamo bene la sua reazione quando non più di quattro anni fa il suo ex portavoce, Salvo Sottile, fu coinvolto dell'inchiesta "Vallettopoli": gridò al complotto contro An e se la prese con i magistrati «fantasiosi», che «in un Paese normale avrebbero già cambiato mestiere», denunciando tra l'altro il «linciaggio mediatico» a mezzo intercettazioni.

Registriamo dunque che si chiama libertà di stampa, "bellezza", se oggetto degli attacchi dei giornali è Berlusconi, o qualcuno dei suoi ministri e sottosegretari, raggiunti a colpi di veline giudiziarie, verbali, intercettazioni, gossip, pentiti e teoremi vari; si chiama "dossieraggio", squadrismo, o «fabbrica del fango», se sono gli avversari del Cav. a incappare in qualche campagna di stampa negativa. E condivisibile o meno, la campagna del Giornale non è in combutta con qualche Procura, da cui certi quotidiani si fanno volentieri usare. Come fa notare oggi Feltri, «purtroppo ogni notizia dobbiamo sudarcela, perché a noi la magistratura non fa confidenze né ci regala verbali più o meno piccanti. Quel poco che abbiamo, di solito, lo procurano lavorando sodo e bene i nostri cronisti specializzati». Berlusconi è stato messo alla gogna per una telefonata con Saccà, mentre Fini non ha neanche dovuto smentire l'articolo di Bechis sulle sue pressioni sul dirigente Rai (quota An) Paglia per favorire Tulliani.

Per uno che si erge - dopo essere stato alleato del plurinquisito e rinviato a giudizio Berlusconi per 15 anni - a campione della legalità, della "questione morale", e secondo cui né Cesare né la moglie di Cesare dovrebbero essere nemmeno sfiorati da un sospetto, ce ne sarebbe di che riflettere. Ma non saremo certo noi a chiedere le dimissioni del presidente Fini per quelle che fino ad ora sono solo illazioni della stampa "nemica". Sappiamo di non poterci aspettare un comportamento coerente con l'intransigenza e gli standard "etici" che applica agli altri (basti ricordare il trattamento riservato, solo pochi giorni fa, dal suo neonato gruppo parlamentare al sottosegretario Caliendo, coinvolto nell'inchiesta più farlocca della storia su una fantomatica "P3").

Le dimissioni le chiederemmo piuttosto per il modo oltraggioso e anticostituzionale in cui Fini sta interpretando la sua carica. Mai nessun presidente della Camera aveva dato vita a propri gruppi parlamentari con lo scopo conclamato di "guerreggiare" contro il presidente del Consiglio. Non contento, Fini non si è limitato a promuovere il suo gruppo. Detta la linea da tenere sulle votazioni e le dichiarazioni da rilasciare, persino durante le sedute; indica i suoi capigruppo alla Camera e al Senato; contro la volontà dei gruppi di maggioranza dà il via libera a ordini del giorno funzionali al suo disegno politico. Non può essere sfiduciato, è vero, ma se i gruppi di maggioranza non si sentono più garantiti - a ragione, visto che cominciano a subire calendarizzazioni "di minoranza" - un problema politico esiste e dovrebbe essere sua sensibilità istituzionale prenderne atto. Provate un istante a immaginare cosa sarebbe accaduto se la presidente Iotti, o Napolitano, avessero costituito propri gruppi parlamentari distinti da quello del Pci-Pds. Inimmaginabile, non è vero?

Ma i custodi della Costituzione tacciono. Tutto è lecito quando si tratta di buttar giù Berlusconi e hanno trovato in Fini un promettente arnese, la Kerkaporta del Pdl, riprendendo una felice metafora di Giampaolo Rossi:
«In questi lunghi mesi di assedio alla cittadella berlusconiana, bombardata dai poteri forti, assaltata dalle macchinose torri d'assedio giudiziarie, aggredita dalle urla mediatiche dei mercenari dell'informazione, Gianfranco Fini è stato la Kerkaporta del Pdl: il varco attraverso il quale un esercito attaccante ormai demotivato, infiacchito dalla inaspettata resistenza degli assediati e ormai pronto a levare le tende, ha sperato improvvisamente di penetrare nel cuore della città. Fini ha rischiato di rappresentare la piccola tessera di casualità che spesso completa il mosaico della storia. Zweig racconta lo stupore del piccolo drappello di giannizzeri nel trovare la porta aperta che conduceva al centro di Bisanzio. Lo stesso stupore che ha accompagnato il tifo da stadio che l'intellighenzia progressista ha fatto in questi mesi per Gianfranco Fini e la sua improbabile armata di politici senza voti e intellettuali senza idee. In nessun paese normale un leader che si definisce di destra è così coccolato, corteggiato e adulato dalla sinistra, e solo questo dovrebbe far riflettere chi ha continuato, da destra, a pensare che la Kerkaporta finiana non esistesse. Il danno che Fini ha prodotto nel centrodestra in questi mesi è incalcolabile...»

2 comments:

Anonymous said...

bentornato.

a prescindere dallo "scandalo" odierno...uno scajola qualunque, lo si potrebbe liquidare...a prescindere dallo strappo dei finiani...tutto già visto, come scordare la lettera dei 50 redatta da bocchino circa un anno fa?!?...a prescindere pure dalla reticenza dei gazzettieri democratici e surrogati vari...quello che voglio evidenziare io, è il peccato originale di fini ovvero, quello di aver voluto ricoprire - almeno ufficialmente - un ruolo istituzionale in luogo di altro, politico.

vuoi fare politica ed interessarti del partito? beh, non fare il presidente della camera.

e soprattutto, non ricoprire - nemmeno tanto ufficiosamente - pure il ruolo di politico.

amen.

ciao.

io ero tzunami

Anonymous said...

piu che sul doppiopesismo sembrerebbe basata sul ladrocinio generalizzato.