Davvero eccessiva la reazione del presidente croato Stipe Mesic al recente discorso di Napolitano in occasione della "Giornata del Ricordo delle Foibe e dell'Esodo": si è detto «costernato» dalle parole del Presidente italiano, «nelle quali è impossibile non intravedere elementi di aperto razzismo, revisionismo storico e revanscismo politico».
Un nazionalista, Mesic, ma rileggendo bene il discorso di Napolitano comprendiamo quale possa essere stato il motivo di tale risentimento. A un certo punto Napolitano parla di un «moto di odio e di furia sanguinaria e di un disegno annessionistico slavo che prevalse nel Trattato di pace del 1947 e che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica» e, poco dopo, di un'Italia «umiliata e mutilata nella sua regione orientale».
«Moto di odio», «furia sanguinaria» e «disegno annessionistico» vi furono, ma al di là del merito collegarli al Trattato di pace del '47 e definire zone che oggi appartengono alla Croazia come quella «regione orientale» di cui l'Italia è stata «mutilata» somiglia molto a voler rimettere in discussione i confini. Intendiamoci, regioni come l'Istria e la Dalmazia non possono a cuor leggero, tout cour, dirsi «italiane» o «croate», ma se oggi ufficialmente sono croate definirle italiane assume l'inequivocabile valore politico di volerne rimettere in discussione lo status e non può che dar luogo a un incidente diplomatico.
Un altro scivolone, che spiega l'accusa di «razzismo», è l'uso da parte del Presidente del termine «slavo», sicuramente inappropriato nell'individuare la responsabilità della pulizia etnica delle foibe e dell'esodo. Per evitare di pronunciare il nome dei protagonisti di quel «moto di odio», di quella «furia sanguinaria» e di quel «disegno annessionistico» - i comunisti di Tito - il Capo dello Stato ha attribuito quel disegno genericamente agli slavi (termine che indica non un popolo ma una razza), non a un'ideologia politica, il comunismo, né semmai al nazionalismo jugoslavo.