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Sunday, January 29, 2006

Massimo intervista Massimo

Massimo D'AlemaE così il nostro Massimo di Azioneparallela ha realizzato una bella intervista di quasi un'ora a Massimo D'Alema (qui in mp3, da non perdere), finita oggi anche sul Corriere della Sera. L'abbiamo ascoltata tutta e non è per amicizia che affermiamo che un Massimo non è stato all'altezza dell'altro Massimo. Intervista istruttiva.

E', in effetti, Massimo D'Alema attualmente l'ultimo e più autorevole erede del luogocomunismo. Il "nostro" Massimo ha cercato in tutti i modi di far affrontare con profondità d'analisi quasi filosofica all'intervistato i temi di attualità, ma quello, il Massimo col baffo, niente, tornava a bomba con i più consunti luoghi comuni del post-comunismo. Se c'è uno che sta nel «limbo post-comunista» descritto da Panebianco, beh, quello è proprio D'Alema, con cui mi capitò di parlare l'estate scorsa, la sera degli attentati di Londra, a una festa dell'Unità, quando praticamente mi confessò, dopo un comizio, di aver detto ciò che la gente voleva sentirsi dire.

«Hamas non è il nazismo»? Certo, se non gli permettiamo di diventarlo. L'unicità della shoah è un mito di rimozione. Convincendoci, per superare il trauma collettivo, dell'idea che sia un evento irripetibile rischiamo di non avvertire il peso della responsabilità delle nostre azioni, ma questo è un tema che ci porterebbe lontano. L'opinione che D'Alema mostra di avere sul conflitto israelo-palestinese è quella degli anni '70, dell'inizio degli '80, va'. In pratica tutto ruota intorno a Israele, e agli Stati Uniti, grandi, anzi unici burattinai. Israele è l'aggressore (da occupante o perché reagisce in modo sproporzionato al terrorismo palestinese) che ha reso il fondamentalismo e il terrorismo più forti. Sentendolo, è come se la decina di paesi arabi là intorno sparisse improvvisamente: nessuna responsabilità, nessun ruolo nell'arco degli ultimi decenni. Nessun dubbio su come la classe dirigente dell'Anp avrebbe potuto investire i miliardi di dollari ricevuti dall'Occidente da Oslo in poi per una popolazione di poche centinaia di migliaia di persone. Quel «popolo senza speranza» da chi, bisognerebbe chiedersi, è stato mantenuto scientemente senza speranze?

Politiche sbagliate invece di sostenere le anime democratiche della società palestinese hanno alimentato l'odio. L'Europa e l'Italia sono esempi evidenti, eppure si fa riferimento a Israele e Stati Uniti, i quali quanto meno dal 2001, hanno mostrato di aver compreso la lezione. In fondo, che male c'è a trattare con Hamas oggi, non mi sono forse recato in visita da Netanyahu da presidente del Consiglio? E' questa l'equivalenza, un Netanyahu vale Hamas. E non è, badate, relativismo, è prendere parte, la parte sbagliata. Inutile dilungarmi su questo, avrete capito l'approccio dalemiano alla questione palestinese.

Il "nostro" Massimo ha introdotto molti spunti interessanti sui temi della globalizzazione e dell'identità, che però l'altro Massimo non deve aver afferrato. Su ognuno di essi il riflesso di D'Alema è stato difensivo. Guai a guardare la globalizzazione con gli occhi dell'«ottimismo neoliberale». Piuttosto, con una sorta di giustificazione della ricerca e della difesa di un'identità come reazione a una globalizzazione il cui unico significato sarebbe quello dell'omologazione. Eppure, vediamo che tra i cosiddetti «globalizzatori», per D'Alema quelli che impongono la globalizzazione, c'è molta meno omologazione che tra i globalizzati, quelli che dovrebbero subirla. In termini di convivenza, certo difficile, tra le culture diverse, ma anche di diversificazione di ceti sociali e di distribuzione del reddito.

Da liberale che sente di doversi appropriare di uno spazio a sinistra lasciato vuoto dalla defunta socialdemocrazia, per Adinolfi «l'identità non è qualcosa che noi già abbiamo, ma che dobbiamo guardare come qualcosa che sta avanti a noi e non indietro, altrimenti il riflesso difensivo-regressivo [conservatore] rimane sempre quello prevalente». D'Alema, a corto di parole, risponde con quel riflesso identitario. A ogni input reagisce esprimendo preoccupazione per ciò che che finisce e non curiosità per ciò che inizia. E' psicologicamente rivolto all'indietro, davanti vede il buio. L'ansia di portarsi dietro i bagagli più che di studiarsi il viaggio. E allora vediamo D'Alema prendere le parti di un Pera soft, politically correct.

L'identità, concede, non è fissa, è un qualcosa in movimento, un fenomeno evolutivo, ma non dobbiamo farne tabula rasa. Non era questo, di tutta evidenza, ciò che sosteneva il "nostro" Massimo, ma che il nostro sguardo dev'essere volto avanti a noi, perché l'identità è qualcosa che alla fine costruiamo con le scelte di ogni giorno.

Sulla fede stesso ragionamento. Pur non riferendosi alla fede religiosa, ha mostrato la debolezza culturale di non uscire dal concetto di fede per descrivere colui che «ha una marcia in più». E anche qui il "nostro" Massimo ha "sanzionato".
Complimenti

3 comments:

Anonymous said...

il prossimo 22 febbraio molto probabilmente D'Alema sarà ospite dei rendez-vous di palazzo Farnese, dove dialogherà sulle relazioni transatrlantiche con Hubert Vedrine, ex ministro degli esteri francese. magari gli si potrebbe muovere qualche appunto di questi ...
Mixumb

Anonymous said...
This comment has been removed by a blog administrator.
JimMomo said...

Caro anonimo, hai lasciato un commento gratuitamente insultante che ho deciso di cancellare. E' la prima volta in 3 anni.

I commenti di critica, anche dura, sono bene accetti, ma non gli insulti gratuiti.