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Friday, January 06, 2006

Appunti per Malvino

Dirgli che nelle sue analisi riguardo i neocon si concentra troppo sul -con e rischia di trascurare il neo-. Chiarire cos'è -neo non è tempo sprecato.

Lo «stato d'animo» risentito verso il liberalismo («che, alla lunga, si è dimostrato indisposto a quell'autodisciplina di pensiero e di parola, a quell'accettazione delle convenzioni ereditate dalla Tradizione, a quelle forme socio-comunitarie di sostegno solidale che basavano, appunto, su quello spirito in qualche modo divinizzato della res publica che è la proiezione, pur diluita e scolorita, dell'etica di Stato») è comune e facilmente rintracciabile nella maggior parte delle culture politiche: tradizionaliste, d'ispirazione religiosa, progressiste, ambientaliste, eccetera eccetera. Si nutre dell'insopprimibile senso di sfiducia e di insicurezza della natura umana, che si manifesta, a livello sia personale che collettivo, anche nei confronti della democrazia formale. A esso si risponde, spesso istintivamente, con l'idea che spetti alla politica, quindi al potere, allo Stato, «dare un senso» alla vita civile e individuale dei cittadini, o per lo meno indicare, se non imporre, la via del bene pubblico e privato, costituendosi come fornitore di valori. Questo particolare «stato d'animo» spinge alla ricerca di un'etica pubblica che portata alle sue estreme conseguenze sistemiche si fa ideologia.

Sono molti, ormai la maggior parte (per fortuna), i modelli politici che accettano e riescono anzi a esaltare il liberalismo finché possono coniugarlo con la loro idea di bene pubblico, ma - dice bene Malvino - in questo si rivelano essere nient'altro che versioni «diluit[e] e scolorit[e] dell'etica di Stato». Associare però questo diffuso «stato d'animo», questa tentazione dalla quale nessuno di noi è in fondo immune, al pensiero neoconservatore, o più strettamente conservatore, significa ridurne la portata. Le riserve mentali, quindi inconsapevoli e sotto traccia, o meditate al liberalismo, da qualunque idea di bene traggano spunti, producono sempre una forma soft di Stato etico. Le forze politiche progressiste non perseguono forse una loro idea di bene obiettivo e di etica pubblica quando limitano l'autodeterminazione dell'individuo nel suo agire economico? Anche questo un caso di «liberalismo moderato»? Risponderei di sì.

Veniamo al -neo dei neocon. I neoconservatori, di certo la gran parte di coloro che con questa vaga etichetta possono essere definiti, provengono da un'adesione convinta alle lotte degli anni Sessanta e Settanta per i diritti civili. Del sessantotto quindi non hanno rifiutato la liberazione dei costumi e la messa in discussione di un ordine incapace di garantire a tutti, per esempio ai neri, gli stessi diritti e le stesse libertà. Hanno reagito, questo è anche uno «stato d'animo» che gli appartiene, questa la realtà che li ha «assaliti», all'ideologismo che si è pian piano propagato come una metastasi, nel corso di quegli anni, nel corpo della sinistra americana.

I neocon vedevano nei sessantottini non la decadenza dei costumi, ma al contrario il moralismo dei "figli del benessere" che, loro sì, accusavano la decadenza della società borghese e consumistica. Molti sessantottini, e credo ne sia persuaso anche Pannella, fraintendevano il significato e la natura di quelle lotte, vedendovi non tanto conquiste di diritto e libertà, ma nella contestazione dell'ordine costituito l'occasione di una rigenerazione morale e il preludio di nuove forme di organizzazione sociale. Anche loro erano alla ricerca di un «senso».

Sostengono i neocon, ma questo potrebbe essere materia del nostro studio, non che il loro distacco dalla sinistra liberal sia dovuto a un risentimento verso il liberalismo, bensì al "tradimento" da parte della sinistra americana del suo stesso liberalismo. Non è un caso che come paradigma di questo presunto "tradimento" sia stata presa la politica estera. La reazione isolazionista e pacifista alla guerra del Vietnam, la guerra arabo-israeliana del 1967 con il seguente isolamento internazionale di Israele, l'infatuazione terzomondista, la coesistenza con l'Urss, ma anche, sul fronte interno, la radicalizzazione, con il Black Power, del movimento dei neri. La sinistra americana, il Partito Democratico, non erano più quelli di Roosevelt e Truman, né di Kennedy. Erano ostaggi del radicalismo antagonista e della controcultura, che presentavano tratti spesso più illiberali della vecchia destra tradizionale. Il problema che i neocon intravedevano in questa nuova sinistra non era quindi la richiesta di ritiro dal Vietnam o della fine del razzismo, obiettivi condivisi, ma il timore che l'approccio ideologico del radicalismo potesse aprire le porte a un riordino illiberale della società.

Tornando allo «stato d'animo». Non è solo il conservatorismo a essere nella sua essenza anti-democratico. Ha uno sbocco potenzialmente anti-democratico voler individuare al di fuori della decisione democratica qualsiasi fonte d'autorità cui attingere per riempire di senso la democrazia formale, per porre in essere forme a sua tutela, per moderare i possibili esiti dell'autodeterminazione. Possiamo chiederci se sia mai realizzabile la totale deideologizzazione della politica. La cultura empirista e utilitarista tipica soprattutto del mondo anglosassone può senz'altro aiutare, ma temo che la tentazione di fare della politica, del potere, dello Stato, il tramite per riempire di senso e valori la nostra vita sia insopprimibile a meno di non ritenere realizzabile un assoluto liberale, che già suona come un ossimoro.

Scorgo a volte, persino nel nostro desiderio e nell'impeto di scovare per tempo gli sbocchi potenzialmente anti-democratici di certe culture politiche, di certi pensatori, di certi uomini politici, il tentativo in fondo di blindare, noi su di un piano senz'altro culturale, la democrazia, con ciò anche noi presupponendo, alle estreme conseguenze, la sua negazione, o comunque ponendo implicitamente una riserva nell'affidarci a essa.

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