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Thursday, January 05, 2006

Nel corpo malato della democrazia italiana...

Pannella chiarisce, in un'intervista di oggi a il Giornale, il senso di un passaggio della conversazione settimanale di domenica scorsa, male interpretato ieri da Il Foglio, dedicato al caso della pubblicazione di intercettazioni telefoniche sui giornali. Premessa necessaria: in fatto di garantismo, difesa a ogni costo della legalità e dello stato di diritto, i radicali possono essere presi a modello.

Oggi viviamo in uno Stato in cui «le leggi e le regole sono costantemente violate... che da partitocratico è diventato oligarchico e dove la lotta politica è senza regole fino a coinvolgere le fazioni della magistratura»; in cui «nulla è segreto al livello dei vertici oligarchici, che spesso trattano fra di loro su come comporre i loro conflitti»; in cui «mai un magistrato è stato punito per la violazione del segreto istruttorio, perché - va detto - è il magistrato che consente al giornalista di pubblicare verbali secretati». Ecco, in una situazione come questa, ben vengano le intercettazioni che rivelano al grande pubblico «spezzoni di vita» del potere.

«Nel corpo malato della democrazia italiana, il fatto che queste carte, che altrimenti sarebbero limitate a una stretta oligarchia di cento o duecento persone, vengano conosciute da dieci milioni di italiani lo ritengo sicuramente un anticorpo, qualcosa che toglie potere alle oligarchie. Oggi ci sono delle realtà che ufficialmente sono riservate a quelle cento o duecento tra vestali e chierici che poi si ricattano e si accordano. Allora, da liberale quale sono, ritengo che non sia un male che questo genere di segreti non siano più tali. Premesso che questo è il regime dell'illegalità, in cui nessuna regola è rispettata, nemmeno quelle che riguardano il presidente della Repubblica o i presidenti delle Camere, allora dico: ben venga qualcosa che era destinato solo alle mens avvelenate di pochi eletti e che invece arriva in casa di tutti... Non parlo di garantismo. Dico che così si produce più diritto, più informazione, più conoscenza di se e del proprio tempo. Soprattutto se l'alternativa è che quelle informazioni se le amministrino cinque magistrati, cinque pentiti e cinque giornalisti come è avvenuto con Tortora».

Cosa rimane, dunque, della «questione morale»? Niente di morale, ma tutta politica. D'altronde vediamo un malaffare della politica, una cattiva amministrazione, un mal governo che quand'anche non costituiscano reato vanno denunciati come «cose pessime» per la nostra vita civile. E' quello che Pannella e i radicali hanno fatto per vent'anni da Radio Radicale, «... abbiamo parlato di cooperative rosse e bianche, dei bilanci truffaldini dello Stato, delle spartizioni di stampo mafioso. Non le condannavamo mica moralmente, le condannavamo politicamente in nome di un'altra etica politica. Ora dovrebbe essere più chiaro che quelli della "diversità morale" non erano affatto tali ma erano espressione di una unità antropologica che continua e sta ormai andando in putrefazione. In questo panorama, c'era solo una "piccola etnia", quella radicale, che non viveva secondo conformità antropologica di ladri e truffatori ma seguendo una laica ricerca di maggiori verità e di soluzioni dei grandi problemi sociali secondo diritto e libertà».

Da una parte una politica in grado di affrontare i grandi problemi sociali creando occasioni e conquiste di diritto e libertà, dall'altra una politica che è spartizione partitocratica e oligarchica del potere. Il giudizio su «quelli della diversità morale» non è morale, ma politico: chiediamoci cosa produce di conveniente per tutti l'uso spregiudicato che i Ds fanno del denaro che si trovano ad amministrare. Dalle coop agli enti pubblici, dai comuni alle università, tutti noi prima o dopo abbiamo avuto una qualche esperienza di quel particolare modo dei Ds di creare reti di clientele e meccanismi di fidelizzazione grazie all'elargizione di consulenze, appalti, posti di lavoro. Le cooperative in questo caso, rosse o bianche, vengono usate dai partiti per costituire un blocco sociale-politico di riferimento, per trarne un rafforzamento sul piano finanziario cui dovrebbe corrispondere un rafforzamento sul piano politico. Sappiamo, per esempio, come amministrano i Veltroni e i Bassolino, quali siano i criteri con cui vengono distribuite le risorse all'interno delle università. Sappiamo chi scrive le leggi sul finanziamento pubblico dei partiti. Nulla di illegale, forse, ma tanti casi politici del più vasto caso Italia.

La pennellata sulla leadership Ds la dà con cognizione di causa Andrea Romano su La Stampa, per il quale «...quella leadership si è seduta sul vuoto delle idee e delle rappresentazioni culturali nelle quali si era formata. Che sono rimaste quelle berlingueriane, soprattutto presso il suo pubblico di riferimento. A quel pubblico [ecco l'errore che si paga oggi] non si è mai voluto spiegare con chiarezza che la propria funzione politica stava intanto cambiando - e in meglio! - ed esso ha continuato a vedere la propria leadership con le lenti deformanti della diversità morale».

Nel marasma generale non ci è sfuggito che quel trombone della prima Repubblica che risponde al nome di Giuliano Amato non ha perso occasione per propinarci la rilettura della storia politica che lo ha visto protagonista. Questa volta vedendone i difetti però con il tono distaccato di chi già si è assolto. Così leggiamo che alla «sana laicità» ratzingeriana si aggiunge l'enunciazione del «buon capitalismo» delle cooperative. Amato ci racconta in tono critico la storia di «un'industria nata debole e cresciuta sotto l'ombrello del protezionismo di Stato» di cui lui e Prodi sono stati i principali protagonisti. Qual è la differenza con allora? Oggi l'industria «va aiutata e non assistita, promossa e non appoggiata sottobanco». Puzza ancora di fregatura, caro Amato.

Come puzza di fregatura l'intervento di Prodi sul caso Fassino ieri su La Stampa. Certo che tra politica e affari ci vogliono confini e regole, ma come ha notato Pannella, «Prodi enuncia un principio giusto che poi non si principia mai». Il suo, come ha scritto Macaluso, «più che un articolo, era un sermone», un'enunciazione generica e a buon mercato che ribadiva la falsa teoria della diversità morale della sinistra.

1 comment:

Anonymous said...

"Un principio che non si principia mai". Eh Eh...
Sulla "questione morale" ho postato su http://lapulcedivoltaire.blogosfere.it
Paolo di Lautreamont