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Monday, January 30, 2006

Scacco all'Iran in tre mosse

Accanto al riconoscimento del voto palestinese, secondo Biagio De Giovanni, occorre ora «la solidarietà di tutto il mondo civilizzato con Israele, non la solidarietà pelosa e ambigua dell'Europa di questi anni, bensì la convinta scelta di difenderla con ogni mezzo, nessuno escluso...». Come «stringerci» dunque intorno a Israele, minacciato da Hamas alla guida dell'Anp e dall'Iran possibile potenza nucleare?

Senza sbraitare e minacciare, compiendo subito due atti semplici ma di immensa portata politica.
1) Il primo è l'adesione di Israele nell'Unione europea, come i radicali di Marco Pannella ed Emma Bonino sostengono da anni, accompagnandola a un piano Marshall per uno Stato palestinese e nella prospettiva di un processo d'integrazione regionale fra Israele, Palestina, Giordania, Libano (esteso poi a Iraq e Siria).

2) Il secondo è far entrare Israele nella Nato, integrandolo in tutto e per tutto al sistema di sicurezza occidentale. Già possiede tutti i requisiti per l'adesione all'Alleanza Atlantica: è una democrazia, a libero mercato, e pienamente in grado di contribuire efficacemente alla difesa comune, con il 10% del pil di spese militari, 167mila uomini e donne in armi e 358mila della riserva. L'idea di aprire a Israele le porte della Nato è di due analisti della Heritage Foundation, John Hulsman e Nile Gardiner. Essendo inaccettabile che l'Iran si doti dell'atomica, impraticabile l'opzione militare diretta agli impianti, e senza sbocchi i negoziati, sarebbe questo l'unico modo per convincere gli ayatollah che proseguire con i piani nucleari non gli conviene.

3) C'è però una terza, decisiva, opzione. Mentre la comunità internazionale è concentrata sulla questione nucleare, sfugge il vero nodo da tagliare: il regime. E' la linea Ledeen-Ottolenghi-Kagan. C'è qualcosa che gli ayatollah temono ancor più dell'uso della forza. Il timore che il mondo libero eserciti tutta la sua forza d'attrazione di libertà e democrazia sollevando il popolo iraniano contro i mullah oppressori. Le potenze democratiche dovrebbero cominciare a rivolgersi direttamente al popolo iraniano, a sostenere l'opposizione al regime, perché come spiegava giorni fa Emanuele Ottolenghi su il Riformista, la questione iraniana non è il nucleare in sé, ma la rivoluzione democratica, il rovesciamento della mullahcrazia:
«Ci sono due conti alla rovescia in corso a Teheran: uno, molto veloce, è quello della bomba; l'altro, molto lento, è quello della rivoluzione democratica. Il dilemma è semplice: quali politiche adottare per rallentare il primo e accelerare il secondo, di modo che l'Iran arrivi al rovesciamento del suo regime, prima che il regime arrivi a produrre la bomba?»

A sostegno di questa tesi anche un editoriale del neocon Robert Kagan sul Washington Post, per il quale l'azione militare mirata agli impianti iraniani è la meno peggio di una serie di cattive opzioni, ma i costi superano i benefici.
«The Pentagon can hit facilities it can see with relative confidence. But much of Iran's program is underground, and some of it we don't know about. Even if a strike set back Iran's plans, we would not know by how much. For all the price we would pay, we wouldn't even know what we'd achieved. And we would pay a price. President Mahmoud Ahmadinejad and the mullahs would declare victory, as Saddam Hussein did in 1998, and probably would gain some sympathy and admiration from the Muslim world and beyond... Then there is the prospect of Iranian retaliation: terrorist attacks, military activity in Iraq, attempts to close off the Persian Gulf shipping lanes and disrupt oil supplies. Unless we were prepared to escalate, ultimately to the point of taking down the regime, we could end up in worse shape than when we began.»
Né la diplomazia sembra una via migliore, con l'Iran determinato a dotarsi del nucleare e disposto a sopportare sanzioni economiche:
«If so, even bigger carrots will not persuade it to forgo a program it considers vital to its interests».
Occorre una nuova strategia. «La nostra giustificata fissazione di impedire all'Iran di dotarsi della bomba ci ha in qualche modo impedito di perseguire un più fondamentale obiettivo: il cambiamento politico in Iran... Dobbiamo cominciare a sostenere il cambiamento democratico e liberale per il popolo iraniano».

Nessuno vuole vedere l'Iran con la bomba, ma dipende anche da chi è al potere. Non ci spaventano Francia e Gran Bretagna, India o Israele, perché siamo portati a credere che governi democratici non la useranno. Se l'Iran fosse governato anche da «un imperfetto governo democratico» saremmo molto meno preoccupati. Potrebbero decidere di smantellare i programmi volontariamente, come Ucraina o Sud Africa, ma anche se non volessero, un Iran liberale e democratico sarebbe «meno paranoico per la sua sicurezza».

«L'amministrazione Bush, nonostante la sua dottrina di democratizzazione, non ha ancora provato ad applicarla in quel posto dove ideali e interessi strategici coincidono più chiaramente. E' stato fatto poco» per il cambiamento politico in Iran. Si può cominciare a «comunicare direttamente con la popolazione iraniana filo-occidentale, tramite radio, internet e altri media; organizzare sostegno internazionale per sindacati e gruppi per i diritti umani; provvedere all'appoggio coperto di coloro che volessero farne uso; imporre sanzioni sufficienti a togliere al regime il sostegno delle elite economiche».

Certo, i mullah potranno reprimere con la violenza i gruppi dissidenti, ma il popolo iraniano non starebbe peggio di adesso. La strategia del regime change in Iran ha il vantaggio di essere «interamente compatibile con gli sforzi diplomatici per rallentare il programma nucleare». Non è detto che si abbiano risultati in breve tempo così da impedire all'Iran di acquisire la bomba, è un rischio che dobbiamo prenderci. «Ma se questa o la prossima amministrazione decide che è troppo pericoloso aspettare il cambiamento politico, allora la risposta sarà un'invasione, non solo un bombardamento aereo e missilistico», per porre fine con certezza al proramma nucleare non c'è che abbattere il regime. «Se è davvero intollerabile un Iran nucleare, c'è solo l'opzione militare.

«La risposta non militare consiste solo nel regime change. Ed è in questa che dovremmo investire le nostre energie, la nostra diplomazia, la nostra intelligence e le nostre risorse economiche. Sì, il tempo stringe, e in parte perché così tanti anni sono già stati sprecati. Ma meglio cominciare ora che tardare di più».

5 comments:

Anonymous said...

Israele nella Comunità Europea, con tutta la buona volontà, non mi pare possibile. Lo stesso Israele mi pare che non a caso non abbia mai fatto richiesta. Ho amici in Israele (Yael Latzer, professoressa alla Haifa University), e mi dicono che, semplicemente, non si fidano. Più realistico e produttivo invece l'ingresso di Israele nella NATO.

Anonymous said...

come sempre lucido e acuto. soprattutto perchè riconosci una verità - che noi diciamo da 6 mesi (distruggere gli impianti nucleari è estremamente difficile - che a qualcuno può sembrare scomoda.

Per quanto riguarda invece la proposta di "rivolgerci" direttamente al popolo iraniano, mi permetto di sottolineare che micheal ledeen - con tutto il rispetto del caso - è dal 1984 che ci avverte di un imminente crollo del regime grazie all'opposizione interna.

JimMomo said...

Non è colpa di Ledeen se le forze di opposizione non vengono sostenute con l'obiettivo di un cambio di regime.

Anonymous said...

jim: ledeen spiegava che la rivoluzione democratica fosse imminente in iran. non è che suggeriva di sostenere la democrazia (anche perchè con il suo pedegree, in questo senso, non è che potesse essere molto credibile).

Concludo: siamo tutti per la democrazia nel mondo. io compreso, ma non dobbiamo illuderci che gli iraniani ci corrano incontro subito. ecco tutto.

Anonymous said...

Jim procurati il Corriere della Sera di oggi, 31 gennaio, pagina 15: mezza An e mezza casa delle libertà fa outing sullo spinello:-)