Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur
Fine dei giochi, secondo schiaffone all'Italia in tre giorni... Il "liberale" ed "europeista" Macron ha deciso di nazionalizzare STX piuttosto che farla guidare a Fincantieri. Europa? Mercato? Belle parole, poi c'è l'interesse nazionale... "Il nostro obiettivo è difendere gli interessi strategici della Francia", ha spiegato il ministro dell'economia francese Bruno Le Maire. Non si tratta di cattiveria, ma all'Eliseo evidentemente non si fidano del nostro sistema-Paese. Oppure, sarà colpa del "protezionista" Trump??
Già come Italia non contavamo molto, ma dal 2011, dalla chiamata dello straniero e dai governi di inetti che sono seguiti, ci hanno azzerati completamente, ci stanno massacrando, ma i nostri governi non l'hanno ancora capito e continuano a parlarsi addosso.
O forse l'hanno capito un paio di giorni fa, e sono ancora storditi. Martedì all'Eliseo si sono incontrati i due principali rivali sul futuro della Libia, al-Serraj e Haftar, invitati dal presidente francese Macron, che ha preso in mano le redini del processo dopo aver probabilmente ricevuto via libera da Trump e da Putin (invitati anch'essi a Parigi in rapida successione). Blitz Macron, Italia fuori dai giochi. "Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur". La storia di come ci siamo di fatto auto-esclusi è ancora da scrivere. Ma si può azzardare qualche ipotesi... Indecisi a tutto, timidi, siamo andati in crisi con al Sisi cadendo nella trappola Regeni, troppi complessi - che Macron non ha avuto - nel parlare con i "cattivoni" Trump e Putin... eccetera...
E ora il presidente francese annuncia anche gli hotspot in Libia (idea poi parzialmente smentita: non subito), di cui si discute, anzi si chiacchiera da anni in Italia ovviamente senza concludere nulla. Mentre il governo italiano si occupava di migranti come una qualsiasi ONG, Macron ha semplicemente fatto politica. Non è un nostro "nemico", fa gli interessi francesi mentre noi quasi ci vergogniamo di averne.
Non provino nemmeno Gentiloni, Alfano e Renzi: non c'è modo per ridimensionare gli schiaffoni presi da Macron. Possono solo tacere e, se possibile, sparire. Per tentare di parare il colpo ora sono pronti a inviare le navi della marina militare in Libia... Dopo che per anni hanno detto che non si poteva e ridicolizzato chi lo proponeva. Pagliacci!
Sarà chiaro adesso cosa significa EnMarche! Il primo cadavere su cui Macron è passato sopra marciando, cantando la Marsigliese e sventolando la bandiera francese, non quella europea, è quello dell'Italia. Macron ha effettivamente "salvato l'Europa", intesa come burocrazia europea, ma si sta muovendo come se l'Ue non esistesse, agisce senza nemmeno avvertirla. E ha ragione: l'Europa sui temi e le crisi internazionali non esiste. Non esiste un interesse europeo. Esistono interessi francesi, tedeschi, italiani (sebbene non ce ne curiamo). Tutti legittimi.
Thursday, July 27, 2017
Tuesday, July 25, 2017
Il dilemma russo in Siria: Iran o Stati Uniti?
Pubblicato su formiche
Il ritorno dell’America nel gioco siriano pone la Russia di fronte a un dilemma sul partner principale con il quale discutere e determinare il futuro della Siria: l’Iran, com’è stato fino ad oggi, o gli Stati Uniti?
La decisione dell’amministrazione Trump, rivelata nei giorni scorsi dal Washington Post, di porre termine al programma segreto della Cia di sostegno militare ai ribelli anti-Assad "moderati", voluto e preparato da Obama (e dall’ex segretario di Stato Hillary Clinton), tra il 2012 e 2013, non è una mossa imprevista. Non solo indiscrezioni in tal senso erano già uscite tra febbraio e aprile, ma anche in campagna elettorale Trump lo aveva lasciato intendere accusando la sua avversaria e l’allora presidente Obama di aiutare i terroristi in Siria. E non segna il definitivo successo della strategia russa, come il Washington Post, uno dei giornaloni Usa impegnati nella campagna anti-Trump, lascia dire al solito funzionario anonimo ("Putin won in Syria"). Anzi, nonostante le vittorie militari contro l’Isis e il puntellamento del regime di Assad, sul piano diplomatico il coinvolgimento russo in Siria è più vicino al pantano che al successo. Proveremo a spiegare perché.
Ma innanzitutto, qualche precisazione sul programma della Cia di cui stiamo parlando. Delle due l’una: o serviva a sostenere gruppi di ribelli "moderati", e allora era militarmente irrilevante e, dunque, poco più che simbolica la sua cancellazione; o ad essere "segretamente" armati e addestrati erano anche gruppi ben più radicali, e allora era qualcosa di imbarazzante la cui chiusura era d’obbligo. L’esistenza di questo programma è divenuta di dominio pubblico un paio d’anni fa, quando è emerso che i 500 milioni di dollari stanziati erano serviti in realtà a formare circa 60 miliziani ritenuti sufficientemente "moderati", ridotti a cinque perché nel frattempo gli altri si erano uniti ai gruppi jihadisti (Isis compreso).
Ad ammettere il fallimento del programma, che prevedeva l’addestramento di 15 mila combattenti in tre anni, il generale Lloyd J. Austin, comandante del Centcom, il comando militare americano delle operazioni in Siria e Iraq, di fronte alla Commissione Forze armate del Senato. L’insuccesso del programma si spiega anche con i paletti posti dal presidente Obama, che non voleva rischiare di armare gruppi jihadisti (saggiamente), né di essere trascinato in un conflitto con la Russia, né di irritare gli iraniani compromettendo l’accordo sul nucleare. Ai ribelli anti-Assad infatti si chiedeva di limitarsi a combattere l’Isis, in pratica di non essere "ribelli". E questo ha probabilmente portato molti di essi a unirsi alle milizie islamiste. Come può la chiusura di un programma ritenuto fino a ieri un fiasco, già morto e sepolto, diventare improvvisamente un "errore strategico" o un "regalo a Putin"? Forse perché a chiuderlo formalmente è il presidente Trump?
In realtà, il "game changer", il punto di svolta in Siria potrebbe rivelarsi il primo cessate-il-fuoco – sebbene molto parziale, limitato all’angolo sud-occidentale del paese – a firma Usa-Russia, scaturito dal primo faccia-a-faccia Trump-Putin a margine del G20 di Amburgo lo scorso 7 luglio. Il ministro degli affari esteri russo Lavrov ha poi spiegato che Russia, Stati Uniti e Giordania istituiranno ad Amman un centro per coordinare tutti i dettagli. Ancora prima, però, le "quattro zone di de-escalation" approvate ad Astana lo scorso maggio da Russia, Turchia e Iran erano state discusse durante una telefonata tra il presidente russo Putin e il presidente americano Trump, quindi in pratica pre-approvate da Washington. Insomma, se sul lato Ucraina nessun "disgelo", è sulla crisi siriana che Usa e Russia sembrano compiere progressi dimostrando di parlarsi e di voler cooperare dove possibile. Se da una parte gli Stati Uniti entrano in qualche modo nello schema guidato dal Cremlino, che con il processo di Astana ha soppiantato i colloqui di Ginevra, dall’altra proprio il ritorno dell’America nel dossier siriano, che Putin non ha potuto impedire, rende fragile il processo di Astana. Tant’è vero che l’ultimo round di negoziati in Kazakhistan, alla vigilia dell’incontro Trump-Putin, non ha registrato progressi sulle "de-escalation zone".
Nonostante l’Isis sia vicino alla sconfitta e il regime di Assad ad una insperata sopravvivenza, il mosaico russo è lungi dall’essere completato e rischia ancora di frantumarsi, proprio per il ruolo guida nel processo politico che Mosca ha assunto su più tavoli, bilaterali e multilaterali, dove siedono potenze ostili tra di loro con interessi divergenti e spesso inconciliabili. Da una parte ha investito molto nel processo di Astana, in una transizione politica in Siria capace di preservare l’influenza di ciascuna delle potenze coinvolte - Russia, Iran e Turchia - nelle aree ritenute vitali per i propri interessi nazionali. Ma per riuscire deve portare Teheran e Ankara a raggiungere un compromesso. Non facile, perché gli iraniani considerano prioritaria la sconfitta di ogni gruppo ribelle rispetto all’inizio di una transizione politica, mentre i turchi puntano ad usare proprio i ribelli e i territori da loro controllati come risorsa nei futuri colloqui politici.
Dall’altra, ha siglato con gli Usa l’accordo sul cessate-il-fuoco nel sud-ovest del paese per scongiurare il rischio di una escalation con Washington e i suoi alleati. Non va dimenticato infatti che in Siria i russi si trovano pur sempre circondati da alleati dell’America: i curdi a nord, ma soprattutto Israele e Giordania a sud. Se con il cessate-il-fuoco gli Stati Uniti hanno di fatto riconosciuto il ruolo guida della Russia nel processo di pace in Siria, dal canto loro i russi – se pensiamo anche alla "deconfliction zone" che circonda la base Usa di al Tanf al confine con l’Iraq – hanno mostrato la volontà di riconoscere agli americani una zona di influenza nel sud della Siria, decisiva per la partita che Washington intende giocare per contenere Teheran, nonché di mantenere buoni rapporti con Israele, preoccupato della presenza di milizie iraniane ai suoi confini.
Non dimentichiamo qual era la posizione americana in Siria al termine della presidenza Obama: inesistente. Ora gli Stati Uniti sono rientrati in gioco. L’amministrazione Trump ha impresso una svolta decisiva alle operazioni anti-Isis, stringendo ancora di più la collaborazione con le Forze democratiche siriane (SDF), dominate dalle milizie curde siriane delle YPG, per liberare Raqqa. Anche al prezzo di far irritare, e non poco, il presidente turco Erdogan, che li considera terroristi. E infatti l’artiglieria turca ha preso a martellare le postazioni delle YPG nell’enclave di Afrin. Ha riconosciuto un dato di fatto, ovvero che la fuoriuscita di Assad non è la priorità, ma ha anche chiarito di considerarla inevitabile nel medio-lungo termine e dimostrato di non tollerare che il regime siriano oltrepassi la "linea rossa" dell’uso di armi chimiche. E infine, sta trasformando la Siria in un fronte di contenimento dell’Iran, di intesa con gli alleati arabi sunniti e Israele.
Lungi da una vittoria piena di Mosca, la safe zone riconosciuta agli Stati Uniti nel sud della Siria sembra un primo passo verso il riconoscimento di diverse zone di influenza tra potenze regionali e globali, un po’ come avvenne nel ‘45 in Germania e a Berlino. Dunque, la difficilissima composizione di tutti gli interessi in gioco, spesso divergenti, tra attori ostili, rende il successo dell’iniziativa russa tutt’altro che scontato e il rischio pantano più vicino di quanto possa apparire.
Proprio il ritorno americano, con cui Putin ha dovuto fare i conti, rende più difficile, forse impossibile, il pieno successo della cooperazione con l’Iran, che fino a ieri, fino all’insediamento di Trump alla Casa Bianca, era stata il pilastro della politica russa in Siria. I tre principali obiettivi di Teheran in Siria, infatti – mantenere al potere Assad e l’integrità territoriale del paese, garantirsi un collegamento terrestre con Hezbollah in Libano – confliggono apertamente con gli interessi dell’America e dei suoi alleati. La divisione del paese in zone di influenza per preservare gli interessi di tutti gli attori coinvolti contraddice il principio dell’integrità territoriale siriana. Il premier israeliano Netanyahu si è detto contrario al cessate-il-fuoco nel sud-ovest del paese, perché sebbene tenga le milizie iraniane lontane dai suoi confini, tuttavia rischia di rendere permanente la presenza militare iraniana in Siria. E infatti, come hanno fatto notare gli esponenti di Hezbollah dopo l’annuncio della tregua, la distanza dalle alture del Golan non gli impedisce di lanciare attacchi contro Israele, visto che i missili in loro possesso sono in grado di colpire il territorio israeliano dalla Siria senza bisogno di una presenza fisica nelle zone di confine.
Ciò che invece infastidisce Hezbollah (e Teheran) del cessate-il-fuoco siglato da Trump e Putin, è che di fatto riconosce una presenza militare americana sul terreno in Siria. Sarà una coincidenza, ma proprio all'indomani dell'accordo sono spuntate due nuove basi Usa a cavallo del confine siro-giordano, una in Giordania e l'altra nel deserto siriano. E nelle scorse settimane forze americane hanno bombardato alcune milizie pro-Assad sostenute dall'Iran mentre avanzavano verso la base Usa di al Tanf, al confine tra Siria, Iraq e Giordania. Al Congresso il segretario alla difesa James Mattis ha spiegato che si è trattato di semplice autodifesa, a protezione dei militari americani che si trovano in quella zona. La missione in Siria è mirata esclusivamente a combattere l'Isis, ha ripetuto. Peccato che, guarda caso, l'avamposto di al Tanf si trovi esattamente sulla via di collegamento terrestre tra l'Iran e il Libano, passando per Iraq e Siria.
Per ora la Russia non ha alcuna intenzione di esercitare pressioni su Hezbollah, che con migliaia di combattenti schierati in Siria gioca un ruolo di fanteria ancora essenziale per i russi. Irritare Hezbollah significa irritare gli iraniani e rischiare di perdere Teheran nel processo di Astana.
Tuttavia, questi attriti sono ormai nelle cose con il ritorno degli Stati Uniti nel gioco siriano, che pone sempre di più la Russia di fronte al dilemma di dover decidere su chi puntare come partner principale con il quale discutere e determinare il futuro della Siria: l’Iran, com’è stato fino ad oggi, o gli Stati Uniti? E’ uno dei risultati delle mosse dell’amministrazione Trump, la cui nuova politica in Medio Oriente, come abbiamo scritto in altri articoli per Formiche, ha come obiettivo principale quello di isolare e contenere l’Iran e, quindi, in Siria, di allontanare Mosca da Teheran. "Esortiamo la Russia a cessare le sue attività destabilizzanti in Ucraina e altrove, il suo supporto a regimi ostili – come Siria e Iran – e ad unirsi invece alla comunità di nazioni responsabili nella nostra lotta contro nemici comuni e in difesa della civiltà". Ecco il vero test per Putin, nelle parole pronunciate dal presidente Trump a Varsavia.
Certo, le nuove sanzioni non aiutano l'amministrazione Trump. Putin potrebbe decidere che la cooperazione con gli Usa in Siria non vale il sacrificio delle partnership regionali con Iran e Turchia su cui molto ha investito negli ultimi anni.
Il ritorno dell’America nel gioco siriano pone la Russia di fronte a un dilemma sul partner principale con il quale discutere e determinare il futuro della Siria: l’Iran, com’è stato fino ad oggi, o gli Stati Uniti?
La decisione dell’amministrazione Trump, rivelata nei giorni scorsi dal Washington Post, di porre termine al programma segreto della Cia di sostegno militare ai ribelli anti-Assad "moderati", voluto e preparato da Obama (e dall’ex segretario di Stato Hillary Clinton), tra il 2012 e 2013, non è una mossa imprevista. Non solo indiscrezioni in tal senso erano già uscite tra febbraio e aprile, ma anche in campagna elettorale Trump lo aveva lasciato intendere accusando la sua avversaria e l’allora presidente Obama di aiutare i terroristi in Siria. E non segna il definitivo successo della strategia russa, come il Washington Post, uno dei giornaloni Usa impegnati nella campagna anti-Trump, lascia dire al solito funzionario anonimo ("Putin won in Syria"). Anzi, nonostante le vittorie militari contro l’Isis e il puntellamento del regime di Assad, sul piano diplomatico il coinvolgimento russo in Siria è più vicino al pantano che al successo. Proveremo a spiegare perché.
Ma innanzitutto, qualche precisazione sul programma della Cia di cui stiamo parlando. Delle due l’una: o serviva a sostenere gruppi di ribelli "moderati", e allora era militarmente irrilevante e, dunque, poco più che simbolica la sua cancellazione; o ad essere "segretamente" armati e addestrati erano anche gruppi ben più radicali, e allora era qualcosa di imbarazzante la cui chiusura era d’obbligo. L’esistenza di questo programma è divenuta di dominio pubblico un paio d’anni fa, quando è emerso che i 500 milioni di dollari stanziati erano serviti in realtà a formare circa 60 miliziani ritenuti sufficientemente "moderati", ridotti a cinque perché nel frattempo gli altri si erano uniti ai gruppi jihadisti (Isis compreso).
Ad ammettere il fallimento del programma, che prevedeva l’addestramento di 15 mila combattenti in tre anni, il generale Lloyd J. Austin, comandante del Centcom, il comando militare americano delle operazioni in Siria e Iraq, di fronte alla Commissione Forze armate del Senato. L’insuccesso del programma si spiega anche con i paletti posti dal presidente Obama, che non voleva rischiare di armare gruppi jihadisti (saggiamente), né di essere trascinato in un conflitto con la Russia, né di irritare gli iraniani compromettendo l’accordo sul nucleare. Ai ribelli anti-Assad infatti si chiedeva di limitarsi a combattere l’Isis, in pratica di non essere "ribelli". E questo ha probabilmente portato molti di essi a unirsi alle milizie islamiste. Come può la chiusura di un programma ritenuto fino a ieri un fiasco, già morto e sepolto, diventare improvvisamente un "errore strategico" o un "regalo a Putin"? Forse perché a chiuderlo formalmente è il presidente Trump?
In realtà, il "game changer", il punto di svolta in Siria potrebbe rivelarsi il primo cessate-il-fuoco – sebbene molto parziale, limitato all’angolo sud-occidentale del paese – a firma Usa-Russia, scaturito dal primo faccia-a-faccia Trump-Putin a margine del G20 di Amburgo lo scorso 7 luglio. Il ministro degli affari esteri russo Lavrov ha poi spiegato che Russia, Stati Uniti e Giordania istituiranno ad Amman un centro per coordinare tutti i dettagli. Ancora prima, però, le "quattro zone di de-escalation" approvate ad Astana lo scorso maggio da Russia, Turchia e Iran erano state discusse durante una telefonata tra il presidente russo Putin e il presidente americano Trump, quindi in pratica pre-approvate da Washington. Insomma, se sul lato Ucraina nessun "disgelo", è sulla crisi siriana che Usa e Russia sembrano compiere progressi dimostrando di parlarsi e di voler cooperare dove possibile. Se da una parte gli Stati Uniti entrano in qualche modo nello schema guidato dal Cremlino, che con il processo di Astana ha soppiantato i colloqui di Ginevra, dall’altra proprio il ritorno dell’America nel dossier siriano, che Putin non ha potuto impedire, rende fragile il processo di Astana. Tant’è vero che l’ultimo round di negoziati in Kazakhistan, alla vigilia dell’incontro Trump-Putin, non ha registrato progressi sulle "de-escalation zone".
Nonostante l’Isis sia vicino alla sconfitta e il regime di Assad ad una insperata sopravvivenza, il mosaico russo è lungi dall’essere completato e rischia ancora di frantumarsi, proprio per il ruolo guida nel processo politico che Mosca ha assunto su più tavoli, bilaterali e multilaterali, dove siedono potenze ostili tra di loro con interessi divergenti e spesso inconciliabili. Da una parte ha investito molto nel processo di Astana, in una transizione politica in Siria capace di preservare l’influenza di ciascuna delle potenze coinvolte - Russia, Iran e Turchia - nelle aree ritenute vitali per i propri interessi nazionali. Ma per riuscire deve portare Teheran e Ankara a raggiungere un compromesso. Non facile, perché gli iraniani considerano prioritaria la sconfitta di ogni gruppo ribelle rispetto all’inizio di una transizione politica, mentre i turchi puntano ad usare proprio i ribelli e i territori da loro controllati come risorsa nei futuri colloqui politici.
Dall’altra, ha siglato con gli Usa l’accordo sul cessate-il-fuoco nel sud-ovest del paese per scongiurare il rischio di una escalation con Washington e i suoi alleati. Non va dimenticato infatti che in Siria i russi si trovano pur sempre circondati da alleati dell’America: i curdi a nord, ma soprattutto Israele e Giordania a sud. Se con il cessate-il-fuoco gli Stati Uniti hanno di fatto riconosciuto il ruolo guida della Russia nel processo di pace in Siria, dal canto loro i russi – se pensiamo anche alla "deconfliction zone" che circonda la base Usa di al Tanf al confine con l’Iraq – hanno mostrato la volontà di riconoscere agli americani una zona di influenza nel sud della Siria, decisiva per la partita che Washington intende giocare per contenere Teheran, nonché di mantenere buoni rapporti con Israele, preoccupato della presenza di milizie iraniane ai suoi confini.
Non dimentichiamo qual era la posizione americana in Siria al termine della presidenza Obama: inesistente. Ora gli Stati Uniti sono rientrati in gioco. L’amministrazione Trump ha impresso una svolta decisiva alle operazioni anti-Isis, stringendo ancora di più la collaborazione con le Forze democratiche siriane (SDF), dominate dalle milizie curde siriane delle YPG, per liberare Raqqa. Anche al prezzo di far irritare, e non poco, il presidente turco Erdogan, che li considera terroristi. E infatti l’artiglieria turca ha preso a martellare le postazioni delle YPG nell’enclave di Afrin. Ha riconosciuto un dato di fatto, ovvero che la fuoriuscita di Assad non è la priorità, ma ha anche chiarito di considerarla inevitabile nel medio-lungo termine e dimostrato di non tollerare che il regime siriano oltrepassi la "linea rossa" dell’uso di armi chimiche. E infine, sta trasformando la Siria in un fronte di contenimento dell’Iran, di intesa con gli alleati arabi sunniti e Israele.
Lungi da una vittoria piena di Mosca, la safe zone riconosciuta agli Stati Uniti nel sud della Siria sembra un primo passo verso il riconoscimento di diverse zone di influenza tra potenze regionali e globali, un po’ come avvenne nel ‘45 in Germania e a Berlino. Dunque, la difficilissima composizione di tutti gli interessi in gioco, spesso divergenti, tra attori ostili, rende il successo dell’iniziativa russa tutt’altro che scontato e il rischio pantano più vicino di quanto possa apparire.
Proprio il ritorno americano, con cui Putin ha dovuto fare i conti, rende più difficile, forse impossibile, il pieno successo della cooperazione con l’Iran, che fino a ieri, fino all’insediamento di Trump alla Casa Bianca, era stata il pilastro della politica russa in Siria. I tre principali obiettivi di Teheran in Siria, infatti – mantenere al potere Assad e l’integrità territoriale del paese, garantirsi un collegamento terrestre con Hezbollah in Libano – confliggono apertamente con gli interessi dell’America e dei suoi alleati. La divisione del paese in zone di influenza per preservare gli interessi di tutti gli attori coinvolti contraddice il principio dell’integrità territoriale siriana. Il premier israeliano Netanyahu si è detto contrario al cessate-il-fuoco nel sud-ovest del paese, perché sebbene tenga le milizie iraniane lontane dai suoi confini, tuttavia rischia di rendere permanente la presenza militare iraniana in Siria. E infatti, come hanno fatto notare gli esponenti di Hezbollah dopo l’annuncio della tregua, la distanza dalle alture del Golan non gli impedisce di lanciare attacchi contro Israele, visto che i missili in loro possesso sono in grado di colpire il territorio israeliano dalla Siria senza bisogno di una presenza fisica nelle zone di confine.
Ciò che invece infastidisce Hezbollah (e Teheran) del cessate-il-fuoco siglato da Trump e Putin, è che di fatto riconosce una presenza militare americana sul terreno in Siria. Sarà una coincidenza, ma proprio all'indomani dell'accordo sono spuntate due nuove basi Usa a cavallo del confine siro-giordano, una in Giordania e l'altra nel deserto siriano. E nelle scorse settimane forze americane hanno bombardato alcune milizie pro-Assad sostenute dall'Iran mentre avanzavano verso la base Usa di al Tanf, al confine tra Siria, Iraq e Giordania. Al Congresso il segretario alla difesa James Mattis ha spiegato che si è trattato di semplice autodifesa, a protezione dei militari americani che si trovano in quella zona. La missione in Siria è mirata esclusivamente a combattere l'Isis, ha ripetuto. Peccato che, guarda caso, l'avamposto di al Tanf si trovi esattamente sulla via di collegamento terrestre tra l'Iran e il Libano, passando per Iraq e Siria.
Per ora la Russia non ha alcuna intenzione di esercitare pressioni su Hezbollah, che con migliaia di combattenti schierati in Siria gioca un ruolo di fanteria ancora essenziale per i russi. Irritare Hezbollah significa irritare gli iraniani e rischiare di perdere Teheran nel processo di Astana.
Tuttavia, questi attriti sono ormai nelle cose con il ritorno degli Stati Uniti nel gioco siriano, che pone sempre di più la Russia di fronte al dilemma di dover decidere su chi puntare come partner principale con il quale discutere e determinare il futuro della Siria: l’Iran, com’è stato fino ad oggi, o gli Stati Uniti? E’ uno dei risultati delle mosse dell’amministrazione Trump, la cui nuova politica in Medio Oriente, come abbiamo scritto in altri articoli per Formiche, ha come obiettivo principale quello di isolare e contenere l’Iran e, quindi, in Siria, di allontanare Mosca da Teheran. "Esortiamo la Russia a cessare le sue attività destabilizzanti in Ucraina e altrove, il suo supporto a regimi ostili – come Siria e Iran – e ad unirsi invece alla comunità di nazioni responsabili nella nostra lotta contro nemici comuni e in difesa della civiltà". Ecco il vero test per Putin, nelle parole pronunciate dal presidente Trump a Varsavia.
Certo, le nuove sanzioni non aiutano l'amministrazione Trump. Putin potrebbe decidere che la cooperazione con gli Usa in Siria non vale il sacrificio delle partnership regionali con Iran e Turchia su cui molto ha investito negli ultimi anni.
Saturday, July 22, 2017
Acqua pubblica, no acqua
Da una parte vi e ci sta bene! Volevate il trasporto pubblico? Non avete alcun trasporto. Volevate l'acqua pubblica?? Manca anche l'acqua. E' un diritto, dicevate, ma siccome l'avete voluta pubblica e a gestirla sono quindi i politici, oggi è un po' meno diritto... rischia di diventare un diritto vuoto, prosciugato, come molti altri diritti fasulli in Italia.
Stanno per chiudere l'acqua a Roma, in Italia abbiamo acquedotti così fatiscenti e bucati che se ne disperde in media il 50%, ma il presidente della Regione Lazio Zingaretti non trova di meglio che prendersela con Trump per l'uscita degli Stati Uniti dall'accordo di Parigi sul clima... Lo scaricabarile arriva fino alla Casa Bianca, fino a che punto ci facciamo prendere per il culo?
Stanno per chiudere l'acqua a Roma, in Italia abbiamo acquedotti così fatiscenti e bucati che se ne disperde in media il 50%, ma il presidente della Regione Lazio Zingaretti non trova di meglio che prendersela con Trump per l'uscita degli Stati Uniti dall'accordo di Parigi sul clima... Lo scaricabarile arriva fino alla Casa Bianca, fino a che punto ci facciamo prendere per il culo?
Friday, July 21, 2017
Senza pudore
Per anni i migranti (non aventi diritto ad alcun asilo) ce li siamo andati a prendere davanti alle coste libiche in barba a qualsiasi regola e buon senso, praticamente un'invasione autoinflitta. Ora pretendiamo che se li accollino quota parte anche gli altri paesi europei e siccome si rifiutano, in nome dell'interesse nazionale ma anche soprattutto europeo, li minacciamo con la "proposta Bonino-Soros" dei 200mila visti... Poi non lamentiamoci dei luoghi comuni sugli italiani eh!
La pretesa italiana di "relocation" anche dei migranti illegali che si è messa in casa da sola è surreale. È contro ogni regola, logica e interesse non solo nazionale ma della stessa Unione europea che rischia la disgregazione. E anziché coltivare buoni rapporti con i Paesi dell'Est, per non subire troppo l'asse franco-tedesco, rompiamo... Resteremo i valletti di Parigi e Berlino.
Che poi, il direttore dell'INPS un po' di pudore dovrebbe averlo a sbandierare che i contributi di oggi servono a pagare le pensioni di oggi. Sappiamo tutti che è così, non solo per i contributi degli stranieri. Ma saperlo è un conto, che il direttore dell'INPS quasi se ne vanti... soprattutto nei confronti di lavoratori stranieri che probabilmente non vedranno mai una pensione, è come vantarsi di una rapina... Bella considerazione degli immigrati che hanno questi professorini...
La pretesa italiana di "relocation" anche dei migranti illegali che si è messa in casa da sola è surreale. È contro ogni regola, logica e interesse non solo nazionale ma della stessa Unione europea che rischia la disgregazione. E anziché coltivare buoni rapporti con i Paesi dell'Est, per non subire troppo l'asse franco-tedesco, rompiamo... Resteremo i valletti di Parigi e Berlino.
Che poi, il direttore dell'INPS un po' di pudore dovrebbe averlo a sbandierare che i contributi di oggi servono a pagare le pensioni di oggi. Sappiamo tutti che è così, non solo per i contributi degli stranieri. Ma saperlo è un conto, che il direttore dell'INPS quasi se ne vanti... soprattutto nei confronti di lavoratori stranieri che probabilmente non vedranno mai una pensione, è come vantarsi di una rapina... Bella considerazione degli immigrati che hanno questi professorini...
Thursday, July 20, 2017
Contro Trump rischio indagini a strascico
Le basi del diritto penale: un procuratore, e a maggior ragione un procuratore speciale, dovrebbe partire da un sospetto o un probabile crimine e arrivare al colpevole, trovando le prove... Nel caso di Mueller, l'impressione è che l'inchiesta Russiagate si stia trasformando: partire dal "colpevole", Trump, e setacciare a strascico le sue attività finché non si trova qualsiasi cosa, anche se non ha nulla a che fare con la Russia e le elezioni, per incastrarlo. Come la chiamereste?
Come spiega Andrew C. McCarthy, l'inchiesta condotta da Mueller si sta "allargando" un po' troppo mentre dovrebbero esserci dei paletti...
Come spiega Andrew C. McCarthy, l'inchiesta condotta da Mueller si sta "allargando" un po' troppo mentre dovrebbero esserci dei paletti...
Monday, July 17, 2017
La centralità della Polonia e la difesa dell'Occidente
Pubblicato su formiche
Nel suo discorso a Varsavia Trump ha centrato la questione della nostra epoca: l'Occidente ha la *volontà* di sopravvivere? Non è una questione di capacità e di risorse, ma di volontà… E sembra suggerire che noi europei quella volontà di difenderlo l'abbiamo persa…
Del discorso di Trump a Varsavia i mainstream media hanno snobbato sia i contenuti che il paese scelto: la Polonia. Grave errore di comprensione e di analisi. Non solo, infatti, come ha ricordato lo stesso presidente Usa, la Polonia è "il cuore geografico dell'Europa e, più importante, nel popolo polacco vediamo l'anima dell'Europa", ma è anche una delle economie più vivaci dell'Unione europea, con una previsione di crescita del Pil superiore al 3% sia nel 2017 che nel 2018. Ed è tra i pochi membri Nato a soddisfare il parametro di spesa militare del 2% rispetto al Pil.
Distratti e pigri i mainstream media, di certo a Mosca e a Berlino non è passato inosservato il messaggio che l'amministrazione Trump ha voluto mandare scegliendo Varsavia per un discorso sulla difesa dell'Occidente e i suoi valori di libertà e democrazia.
Nel XVII secolo la Confederazione polacco-lituana fu un fondamentale argine all'espansione ottomana in Europa ed ebbe un ruolo decisivo nel respingere i turchi alle porte di Vienna. La Polonia moderna è stretta tra la Germania e la Russia, il popolo polacco ha subito invasioni e dominazioni da entrambe, ma ha resistito orgogliosamente agli spaventosi totalitarismi del Novecento, nazismo e comunismo. Oggi è nazionalista e saldamente occidentale, in prima linea sulla crisi ucraina, e Washington ha voluto far capire che punta proprio sulla Polonia per contenere Russia e Germania.
Due esempi concreti. Proprio a Varsavia Trump ha annunciato l'accordo per la vendita alla Polonia di otto batterie del sistema missilistico americano Patriot, una chiara risposta ai missili Iskander schierati dalla Russia a Kaliningrad. E ha inoltre affermato l'impegno americano "ad assicurare alla Polonia e ai suoi vicini l'accesso a fonti alternative di energia in modo che non siano mai più ostaggio di un singolo fornitore". Gas liquido a Varsavia e carbone a Kiev. Il messaggio a Putin è chiaro: è finita l'era Obama, durante la quale dalla Siria all'Ucraina il Cremlino ha goduto di una libertà d'azione senza precedenti sia in Medio Oriente che alle porte dell'Europa, tornando centrale su tutti i principali dossier. L'America è tornata, è determinata a difendere i suoi alleati in Europa orientale e non permetterà a Mosca altri blitz come quello che ha portato all'annessione della Crimea e alla crisi ucraina, una situazione che resterà sospesa per molto tempo ancora e che fa tremare Estonia e Lettonia. E non intende lasciare campo libero alla Russia nemmeno nel mercato energetico che interessa i suoi alleati.
Ma il messaggio è diretto anche agli altri alleati europei dell'America: falso che Trump sia la marionetta di Putin. A Varsavia il presidente americano ha chiarito che vede i russi come avversari aggressivi, non come partner o alleati: "Esortiamo la Russia a cessare le sue attività destabilizzanti in Ucraina e altrove, il suo supporto a regimi ostili - come Siria e Iran - e ad unirsi invece alla comunità di nazioni responsabili nella nostra lotta contro nemici comuni e in difesa della civiltà". Come sempre, i russi sono pronti a intascare qualsiasi "carota" gli venga offerta come incentivo iniziale, salvo poi continuare a provocare i danni maggiori possibili, finché non percepiscono di aver urtato contro un vero muro. L'amministrazione Trump sta sviluppando un nuovo approccio con il Cremlino: vuole verificare i margini per una cooperazione, per esempio in Siria, ma al tempo stesso sta tirando su quel muro. Il primo faccia a faccia Trump-Putin, la sua durata e il suo esito, non scontati, dimostrano, come scrivevamo su Formiche dopo il raid americano sulla Siria, che il confronto è duro ma che Washington e Mosca hanno ripreso a parlarsi e lo fanno a tutto campo.
Falso, inoltre, che l'amministrazione Trump voglia liquidare la Nato o che non gli importi granché. Al contrario, per rilanciarla chiede agli alleati il giusto contributo (come fa la Polonia) e una ridefinizione della missione dell'Alleanza.
Il merito del presidente Trump è proprio quello di aver centrato la questione della nostra epoca: l'Occidente ha la volontà di sopravvivere? Non è una questione di capacità e di risorse, ma di volontà... E sembra suggerire che noi europei quella volontà di difenderlo l’abbiamo persa...
Nel suo discorso a Varsavia Trump ha centrato la questione della nostra epoca: l'Occidente ha la *volontà* di sopravvivere? Non è una questione di capacità e di risorse, ma di volontà… E sembra suggerire che noi europei quella volontà di difenderlo l'abbiamo persa…
Del discorso di Trump a Varsavia i mainstream media hanno snobbato sia i contenuti che il paese scelto: la Polonia. Grave errore di comprensione e di analisi. Non solo, infatti, come ha ricordato lo stesso presidente Usa, la Polonia è "il cuore geografico dell'Europa e, più importante, nel popolo polacco vediamo l'anima dell'Europa", ma è anche una delle economie più vivaci dell'Unione europea, con una previsione di crescita del Pil superiore al 3% sia nel 2017 che nel 2018. Ed è tra i pochi membri Nato a soddisfare il parametro di spesa militare del 2% rispetto al Pil.
Distratti e pigri i mainstream media, di certo a Mosca e a Berlino non è passato inosservato il messaggio che l'amministrazione Trump ha voluto mandare scegliendo Varsavia per un discorso sulla difesa dell'Occidente e i suoi valori di libertà e democrazia.
Nel XVII secolo la Confederazione polacco-lituana fu un fondamentale argine all'espansione ottomana in Europa ed ebbe un ruolo decisivo nel respingere i turchi alle porte di Vienna. La Polonia moderna è stretta tra la Germania e la Russia, il popolo polacco ha subito invasioni e dominazioni da entrambe, ma ha resistito orgogliosamente agli spaventosi totalitarismi del Novecento, nazismo e comunismo. Oggi è nazionalista e saldamente occidentale, in prima linea sulla crisi ucraina, e Washington ha voluto far capire che punta proprio sulla Polonia per contenere Russia e Germania.
Due esempi concreti. Proprio a Varsavia Trump ha annunciato l'accordo per la vendita alla Polonia di otto batterie del sistema missilistico americano Patriot, una chiara risposta ai missili Iskander schierati dalla Russia a Kaliningrad. E ha inoltre affermato l'impegno americano "ad assicurare alla Polonia e ai suoi vicini l'accesso a fonti alternative di energia in modo che non siano mai più ostaggio di un singolo fornitore". Gas liquido a Varsavia e carbone a Kiev. Il messaggio a Putin è chiaro: è finita l'era Obama, durante la quale dalla Siria all'Ucraina il Cremlino ha goduto di una libertà d'azione senza precedenti sia in Medio Oriente che alle porte dell'Europa, tornando centrale su tutti i principali dossier. L'America è tornata, è determinata a difendere i suoi alleati in Europa orientale e non permetterà a Mosca altri blitz come quello che ha portato all'annessione della Crimea e alla crisi ucraina, una situazione che resterà sospesa per molto tempo ancora e che fa tremare Estonia e Lettonia. E non intende lasciare campo libero alla Russia nemmeno nel mercato energetico che interessa i suoi alleati.
Ma il messaggio è diretto anche agli altri alleati europei dell'America: falso che Trump sia la marionetta di Putin. A Varsavia il presidente americano ha chiarito che vede i russi come avversari aggressivi, non come partner o alleati: "Esortiamo la Russia a cessare le sue attività destabilizzanti in Ucraina e altrove, il suo supporto a regimi ostili - come Siria e Iran - e ad unirsi invece alla comunità di nazioni responsabili nella nostra lotta contro nemici comuni e in difesa della civiltà". Come sempre, i russi sono pronti a intascare qualsiasi "carota" gli venga offerta come incentivo iniziale, salvo poi continuare a provocare i danni maggiori possibili, finché non percepiscono di aver urtato contro un vero muro. L'amministrazione Trump sta sviluppando un nuovo approccio con il Cremlino: vuole verificare i margini per una cooperazione, per esempio in Siria, ma al tempo stesso sta tirando su quel muro. Il primo faccia a faccia Trump-Putin, la sua durata e il suo esito, non scontati, dimostrano, come scrivevamo su Formiche dopo il raid americano sulla Siria, che il confronto è duro ma che Washington e Mosca hanno ripreso a parlarsi e lo fanno a tutto campo.
Falso, inoltre, che l'amministrazione Trump voglia liquidare la Nato o che non gli importi granché. Al contrario, per rilanciarla chiede agli alleati il giusto contributo (come fa la Polonia) e una ridefinizione della missione dell'Alleanza.
"Gli americani sanno che una forte alleanza di nazioni libere, sovrane e indipendenti è la migliore difesa per le nostre libertà e per i nostri interessi. Per questo motivo la mia amministrazione ha chiesto che tutti i membri della Nato soddisfino definitivamente il proprio obbligo finanziario in modo pieno e giusto".Lo storico Victor Davis Hanson ha definito l’"anti-Cairo" il discorso di Trump a Varsavia, cioè l'antitesi del discorso che pochi mesi dopo il suo insediamento Obama pronunciò nella capitale egiziana, un tentativo di appeasement con il mondo arabo e islamico basato su una sorta di "autodafè" dell'Occidente. Il messaggio "anti-Cairo" di Trump, invece, è che "solo un Occidente forte, organizzato - convinto del suo passato e sicuro del suo attuale successo - riuscirà a dissuadere i suoi nemici, attrarre i neutrali e mantenere gli amici. Che solo lui abbia avuto il coraggio di esprimere l'ovvio, e che sia stato criticato per questo, ci ricorda come il rimedio alla nostra malattia occidentale sia visto come il problema e non la cura", conclude VDH.
Il merito del presidente Trump è proprio quello di aver centrato la questione della nostra epoca: l'Occidente ha la volontà di sopravvivere? Non è una questione di capacità e di risorse, ma di volontà... E sembra suggerire che noi europei quella volontà di difenderlo l’abbiamo persa...
"Dobbiamo ricordare che la nostra difesa non è solo un impegno di denaro, è un impegno di volontà. Perché, come ci ricorda l'esperienza polacca, la difesa dell'Ovest si basa in ultima analisi non solo sui mezzi, ma anche sulla volontà del suo popolo di prevalere e di avere successo e ottenere ciò che si deve avere. La questione fondamentale del nostro tempo è se l'Occidente abbia la volontà di sopravvivere. Abbiamo la fiducia nei nostri valori per difenderli a qualsiasi costo? Abbiamo abbastanza rispetto per i nostri cittadini per proteggere le nostre frontiere? Abbiamo il desiderio e il coraggio di preservare la nostra civiltà di fronte a coloro che vogliono rovesciarla e distruggerla?".
Sunday, July 16, 2017
Dal G20 di Amburgo agli abbracci Trump-Macron sugli Champs-Elysees
Pubblicato su formiche
Dal G20 di Amburgo (una sconfitta casalinga per la Merkel) agli abbracci Trump-Macron sugli Champs-Elysees (manovre di accerchiamento della Germania?), passando per il discorso di Trump a Varsavia in difesa dell'Occidente, snobbato dai media, e l'incontro con Putin, che hanno seppellito i falsi miti su Trump
Con il presidente americano Trump ai Campi Elisi, Parigi, invitato dal presidente francese Macron alle celebrazioni del 14 luglio per la presa della Bastiglia, si chiudono dieci giorni densi di avvenimenti sulla scena internazionale. E si moltiplicano gli indizi che ci inducono a intravedere tempi non facili per la locomotiva tedesca, e quindi per la macchinista, la cancelliera Angela Merkel. Le manovre di accerchiamento sono cominciate, vedremo se assumeranno le sembianze di un vero e proprio assedio a Berlino perché si decida a modificare le sue politiche europee e commerciali.
Forte della sua ambizione e di una solida maggioranza parlamentare, Macron è determinato a riequilibrare il motore franco-tedesco prima che vada fuori giri. Ed è pronto a giocare di sponda con Trump, sfidando persino l'impopolarità del presidente Usa, invitato a cena sulla Tour Eiffel e alle celebrazioni del 14 luglio (con i militari americani ad aprire la parata ai Campi Elisi). Serve luce verde da Washington inoltre per i suoi sogni di "grandeur": la guida della difesa europea e la supremazia francese nel Mediterraneo. Per Londra è addirittura una necessità rivolgersi al di là dell'Atlantico e cercare nell'Anglosfera una prospettiva post-Brexit.
Macron è una buona carta anche per gli Stati Uniti, che hanno sempre sostenuto il progetto europeo, ma non sono contenti della piega germano-centrica che sta prendendo. L'Ue serve a garantire stabilità e benessere agli europei. Gli attuali squilibri, accentuati dalle politiche e dal primato di Berlino, potrebbero non essere sostenibili nel medio periodo e rischiano di compromettere sia stabilità che benessere dell'Europa, indebolendo l'Occidente. Una Germania europea, non un'Europa tedesca avevano in mente gli americani quando hanno sostenuto la riunificazione nel contesto dell'integrazione europea.
Poi c'è la Russia, che preme ai confini orientali dell'Europa. A difesa dei paesi dell'Est, un mercato prezioso per Berlino, non ci sono certo le truppe della cancelliera, ma la Nato, ovvero l'arsenale americano. E nel pieno della crisi con Mosca per l'Ucraina, nonostante il regime di sanzioni, con le sue scelte di politica energetica, tra cui il raddoppio del gasdotto North Stream, la Germania (e l'Ue con essa) ha accresciuto anziché ridurre la dipendenza dal gas russo. Una prospettiva che non può far piacere a Washington.
Ma facciamo un passo indietro. Il G20 di Amburgo si prestava come palcoscenico ideale per l'esordio sulla scena internazionale della "nuova leader del mondo libero" (e liberal), la cancelliera tedesca Angela Merkel. Tuttavia, già alla vigilia si era compreso che qualcosa non tornava, se per far apparire isolata l'America di Trump sul clima aveva dovuto ostentare l'appoggio di Russia e Cina, non esattamente due fari del liberalismo (e ovviamente Putin e Xi non si sono lasciati pregare...), ma soprattutto se la cancelliera, che così meticolosamente in questi mesi ha coltivato il ruolo di Berlino come alfiere del libero commercio e della globalizzazione contro le minacce protezionistiche trumpiane, si era trovata sulla scrivania la seguente storia di copertina dell'Economist: "Il problema tedesco. Perché il surplus commerciale della Germania fa male all'economia mondiale". Ma come, l'organo "ufficiale" dell'intellighentzia "global", dell'ordine economico liberale, che rilancia la stessa identica critica sollevata dall'amministrazione Trump all'indirizzo di Berlino?
Se poi, a leggere la dichiarazione finale del G20 di Amburgo, sulla falsa riga di quella sottoscritta a Taormina, gli echi trumpiani sembrano addirittura dare il tono all'intero documento, non è esagerato parlare di una brutta sconfitta casalinga per la Merkel.
Né i leader del G7 riuniti a Taormina, né quelli del G20 ad Amburgo vedono più la globalizzazione come un fenomeno dalle magnifiche sorti e progressive, anzi ammettono che non tutti ci hanno guadagnato, ci sono dei "perdenti", dei "dimenticati" – quei dimenticati che hanno portato Trump alla Casa Bianca – e riconoscono che "rimangono delle sfide per realizzare una globalizzazione inclusiva, corretta e sostenibile", servono politiche di aggiustamento per mitigarne gli effetti distorsivi.
Ribadito l'impegno per il libero commercio e a "tenere i mercati aperti", tuttavia di fronte "alle pratiche commerciali scorrette" si riconosce "l'uso di strumenti legittimi di difesa commerciale". Strumenti che come abbiamo già scritto per Formiche non fanno solo parte dell'arsenale negoziale del presidente americano, ma sempre più sono invocati anche dai principali soci del club Ue – Francia, Italia e la stessa Germania – per rispondere alle "scorrettezze" cinesi. Nero su bianco, nel documento troviamo le doglianze americane ed europee nei confronti di Pechino sia sul tema dell'acciaio, per la sua eccessiva capacità produttiva, che per il dumping sul costo del lavoro, essendo il mercato cinese ancora lontanissimo dai nostri standard sociali, ambientali e di diritti umani.
A ben vedere nemmeno sul clima la cancelliera tedesca può contare un punto inequivocabilmente a suo favore. Ammesso e non concesso di poter isolare gli Stati Uniti su un tema come il clima, che certo non è alla base dei rapporti transatlantici, l'accordo di Parigi viene sì definito "irreversibile", ma nella dichiarazione si legge anche che verrà applicato "con differenziate responsabilità e rispettive capacità, alla luce delle diverse circostanze nazionali". Insomma, una sorta di "liberi tutti", ognuno lo interpreti come vuole... E il presidente turco Erdogan ha già fatto sapere che se non arriva il bonifico dai paesi ricchi la Turchia è anch'essa pronta a uscire dall'accordo.
Sull'immigrazione infine, viene confermato l'approccio già uscito da Taormina: i leader del G20 sottolineano "il diritto sovrano degli stati di controllare e difendere i propri confini e perseguire politiche nel proprio interesse nazionale e per la propria sicurezza nazionale".
Dichiarazione del G20 a parte, a rubare la scena alla Merkel sono stati il discorso di Trump in Polonia e il primo faccia a faccia tra il presidente americano e quello russo, dal quale (doveva durare mezz'ora, senza un'agenda prefissata, ma è durato due ore) è scaturito il primo cessate-il-fuoco a firma Usa-Russia in Siria, sebbene parziale. Certo, le cronache della stampa mainstream vi hanno raccontato altro, ma è comprensibile: il discorso di Varsavia e il primo confronto Trump-Putin hanno contraddetto la narrazione del giornalista collettivo sul nuovo inquilino della Casa Bianca in almeno due aspetti fondamentali. Trump non è il "puppet" di Putin. E l'America di Trump è tutt'altro che isolazionista. "America First" non significa "America alone", come hanno spiegato di recente sul WSJ i consiglieri del presidente McMaster e Cohn. Semmai, vuol dire che l'America è tornata.
Dal G20 di Amburgo (una sconfitta casalinga per la Merkel) agli abbracci Trump-Macron sugli Champs-Elysees (manovre di accerchiamento della Germania?), passando per il discorso di Trump a Varsavia in difesa dell'Occidente, snobbato dai media, e l'incontro con Putin, che hanno seppellito i falsi miti su Trump
Con il presidente americano Trump ai Campi Elisi, Parigi, invitato dal presidente francese Macron alle celebrazioni del 14 luglio per la presa della Bastiglia, si chiudono dieci giorni densi di avvenimenti sulla scena internazionale. E si moltiplicano gli indizi che ci inducono a intravedere tempi non facili per la locomotiva tedesca, e quindi per la macchinista, la cancelliera Angela Merkel. Le manovre di accerchiamento sono cominciate, vedremo se assumeranno le sembianze di un vero e proprio assedio a Berlino perché si decida a modificare le sue politiche europee e commerciali.
Forte della sua ambizione e di una solida maggioranza parlamentare, Macron è determinato a riequilibrare il motore franco-tedesco prima che vada fuori giri. Ed è pronto a giocare di sponda con Trump, sfidando persino l'impopolarità del presidente Usa, invitato a cena sulla Tour Eiffel e alle celebrazioni del 14 luglio (con i militari americani ad aprire la parata ai Campi Elisi). Serve luce verde da Washington inoltre per i suoi sogni di "grandeur": la guida della difesa europea e la supremazia francese nel Mediterraneo. Per Londra è addirittura una necessità rivolgersi al di là dell'Atlantico e cercare nell'Anglosfera una prospettiva post-Brexit.
Macron è una buona carta anche per gli Stati Uniti, che hanno sempre sostenuto il progetto europeo, ma non sono contenti della piega germano-centrica che sta prendendo. L'Ue serve a garantire stabilità e benessere agli europei. Gli attuali squilibri, accentuati dalle politiche e dal primato di Berlino, potrebbero non essere sostenibili nel medio periodo e rischiano di compromettere sia stabilità che benessere dell'Europa, indebolendo l'Occidente. Una Germania europea, non un'Europa tedesca avevano in mente gli americani quando hanno sostenuto la riunificazione nel contesto dell'integrazione europea.
Poi c'è la Russia, che preme ai confini orientali dell'Europa. A difesa dei paesi dell'Est, un mercato prezioso per Berlino, non ci sono certo le truppe della cancelliera, ma la Nato, ovvero l'arsenale americano. E nel pieno della crisi con Mosca per l'Ucraina, nonostante il regime di sanzioni, con le sue scelte di politica energetica, tra cui il raddoppio del gasdotto North Stream, la Germania (e l'Ue con essa) ha accresciuto anziché ridurre la dipendenza dal gas russo. Una prospettiva che non può far piacere a Washington.
Ma facciamo un passo indietro. Il G20 di Amburgo si prestava come palcoscenico ideale per l'esordio sulla scena internazionale della "nuova leader del mondo libero" (e liberal), la cancelliera tedesca Angela Merkel. Tuttavia, già alla vigilia si era compreso che qualcosa non tornava, se per far apparire isolata l'America di Trump sul clima aveva dovuto ostentare l'appoggio di Russia e Cina, non esattamente due fari del liberalismo (e ovviamente Putin e Xi non si sono lasciati pregare...), ma soprattutto se la cancelliera, che così meticolosamente in questi mesi ha coltivato il ruolo di Berlino come alfiere del libero commercio e della globalizzazione contro le minacce protezionistiche trumpiane, si era trovata sulla scrivania la seguente storia di copertina dell'Economist: "Il problema tedesco. Perché il surplus commerciale della Germania fa male all'economia mondiale". Ma come, l'organo "ufficiale" dell'intellighentzia "global", dell'ordine economico liberale, che rilancia la stessa identica critica sollevata dall'amministrazione Trump all'indirizzo di Berlino?
Se poi, a leggere la dichiarazione finale del G20 di Amburgo, sulla falsa riga di quella sottoscritta a Taormina, gli echi trumpiani sembrano addirittura dare il tono all'intero documento, non è esagerato parlare di una brutta sconfitta casalinga per la Merkel.
Né i leader del G7 riuniti a Taormina, né quelli del G20 ad Amburgo vedono più la globalizzazione come un fenomeno dalle magnifiche sorti e progressive, anzi ammettono che non tutti ci hanno guadagnato, ci sono dei "perdenti", dei "dimenticati" – quei dimenticati che hanno portato Trump alla Casa Bianca – e riconoscono che "rimangono delle sfide per realizzare una globalizzazione inclusiva, corretta e sostenibile", servono politiche di aggiustamento per mitigarne gli effetti distorsivi.
Ribadito l'impegno per il libero commercio e a "tenere i mercati aperti", tuttavia di fronte "alle pratiche commerciali scorrette" si riconosce "l'uso di strumenti legittimi di difesa commerciale". Strumenti che come abbiamo già scritto per Formiche non fanno solo parte dell'arsenale negoziale del presidente americano, ma sempre più sono invocati anche dai principali soci del club Ue – Francia, Italia e la stessa Germania – per rispondere alle "scorrettezze" cinesi. Nero su bianco, nel documento troviamo le doglianze americane ed europee nei confronti di Pechino sia sul tema dell'acciaio, per la sua eccessiva capacità produttiva, che per il dumping sul costo del lavoro, essendo il mercato cinese ancora lontanissimo dai nostri standard sociali, ambientali e di diritti umani.
A ben vedere nemmeno sul clima la cancelliera tedesca può contare un punto inequivocabilmente a suo favore. Ammesso e non concesso di poter isolare gli Stati Uniti su un tema come il clima, che certo non è alla base dei rapporti transatlantici, l'accordo di Parigi viene sì definito "irreversibile", ma nella dichiarazione si legge anche che verrà applicato "con differenziate responsabilità e rispettive capacità, alla luce delle diverse circostanze nazionali". Insomma, una sorta di "liberi tutti", ognuno lo interpreti come vuole... E il presidente turco Erdogan ha già fatto sapere che se non arriva il bonifico dai paesi ricchi la Turchia è anch'essa pronta a uscire dall'accordo.
Sull'immigrazione infine, viene confermato l'approccio già uscito da Taormina: i leader del G20 sottolineano "il diritto sovrano degli stati di controllare e difendere i propri confini e perseguire politiche nel proprio interesse nazionale e per la propria sicurezza nazionale".
Dichiarazione del G20 a parte, a rubare la scena alla Merkel sono stati il discorso di Trump in Polonia e il primo faccia a faccia tra il presidente americano e quello russo, dal quale (doveva durare mezz'ora, senza un'agenda prefissata, ma è durato due ore) è scaturito il primo cessate-il-fuoco a firma Usa-Russia in Siria, sebbene parziale. Certo, le cronache della stampa mainstream vi hanno raccontato altro, ma è comprensibile: il discorso di Varsavia e il primo confronto Trump-Putin hanno contraddetto la narrazione del giornalista collettivo sul nuovo inquilino della Casa Bianca in almeno due aspetti fondamentali. Trump non è il "puppet" di Putin. E l'America di Trump è tutt'altro che isolazionista. "America First" non significa "America alone", come hanno spiegato di recente sul WSJ i consiglieri del presidente McMaster e Cohn. Semmai, vuol dire che l'America è tornata.
Thursday, July 06, 2017
L'Italia è un pericolo per sé, per gli altri e per l'Europa
Fallimentare il vertice di Tallinn per il governo italiano, ma sui siti della stampa mainstream la notizia è già affossata. In soccorso arriva la scoperta del Cern...
Il problema non è che l'Europa nega "solidarietà" all'Italia, ma che l'Italia insista con politiche dannose per sé, per gli altri e per l'Ue.
La chiusura dei partner europei all'Italia sulla crisi dei migranti è nel loro interesse nazionale, pensano molti, ma in realtà questo è uno dei pochi casi in cui interesse nazionale ed europeo coincidono. Condividere la dissennata politica dei governi italiani sui migranti sarebbe suicida per l'Ue, porterebbe alla disgregazione. È l'Italia che ahimé non riesce a fare né i propri interessi nazionali né quelli dell'Europa e nemmeno se ne rende conto...
Il problema non è che l'Europa nega "solidarietà" all'Italia, ma che l'Italia insista con politiche dannose per sé, per gli altri e per l'Ue.
La chiusura dei partner europei all'Italia sulla crisi dei migranti è nel loro interesse nazionale, pensano molti, ma in realtà questo è uno dei pochi casi in cui interesse nazionale ed europeo coincidono. Condividere la dissennata politica dei governi italiani sui migranti sarebbe suicida per l'Ue, porterebbe alla disgregazione. È l'Italia che ahimé non riesce a fare né i propri interessi nazionali né quelli dell'Europa e nemmeno se ne rende conto...
Wednesday, July 05, 2017
Il risveglio dell'Arabia Saudita: perché ora e come cambierà (forse) il Regno
Pubblicato su formiche
Cosa c'è dietro le recenti mosse di
Riad, dalla rottura con il Qatar all'ascesa del nuovo principe
ereditario Mohammed bin Salman
L'Arabia Saudita è storicamente uno
degli attori più cauti nel teatro mediorientale e che più ha
resistito alle sirene della modernità dalla sua fondazione nel 1932.
Da qualche tempo, tuttavia, sembra aver sostituito la sua proverbiale
cautela, quasi immobilismo, con un attivismo senza precedenti e non
privo di rischi, da cui trapela un senso di urgenza. In tre
settimane, i sauditi hanno concertato con altre nazioni arabe
l'isolamento del vicino Qatar, posto le basi per nuovi rapporti con
Israele, strigliato il Pakistan, alzato il livello del loro confronto
con l'Iran e portato avanti una guerra verbale con la Turchia di
Erdogan. Nel frattempo, continuano a bombardare lo Yemen a sostegno
dei loro alleati locali nella guerra civile che dilania il Paese.
Dopo l'ondata delle cosiddette primavere arabe nel 2011 Riad ha
elevato il proprio grado di allarme per la minaccia sovversiva
dell'islam politico radicale. La storica ambivalenza saudita nei
confronti dell'estremismo e del terrorismo islamista, sulla base
delle affinità con il wahabismo, sembra lasciare il posto alla
ragion di Stato, dal momento che i piani di califfato di
organizzazioni quali Al Qaeda e Isis, e l'ideologia politica dei
Fratelli musulmani, che puntano a rovesciare i regimi arabi,
rappresentano una minaccia esistenziale per le monarchie del Golfo.
Il recente attivismo saudita non è
rivolto solo all'estero ma anche all'interno del Regno. Un altro
segnale che l'Arabia Saudita si sta avviando verso un'epoca di grandi
cambiamenti è la recente decisione di Re Salman di cambiare la linea
di successione in favore del figlio 31enne Mohammed bin Salman,
ministro della difesa, al posto del nipote Mohammed bin Nayef,
potente ministro dell'interno che per un decennio ha condotto una
lotta spietata contro il terrorismo e il dissenso politico, ma
indebolito dal tentativo di assassinio subito nel 2009 per mano di al
Qaeda. Non solo un grande salto generazionale, soprattutto una decisa
rottura con la tradizione, che vuole la linea di successione saudita
passare non di padre in figlio ma da un fratello all'altro, di solito
non meno che settantenni, dei numerosi figli del fondatore del Regno,
Abdulaziz Ibn Saud. E il Concilio Reale, in cui sono rappresentate
tutte le discendenze, avrebbe approvato il passaggio a grande
maggioranza, 31 a 3.
Ma cosa c'è dietro questo improvviso
attivismo saudita? La paura, secondo uno dei maggiori studiosi di
politica estera americani, Walter Russell Mead. Per anni proprio la
paura ha reso i sauditi cauti, anche perché fiduciosi nella
protezione americana. Ma con Obama è iniziata a Riad "l'età
dell'insicurezza". L'apertura della precedente amministrazione
Usa all'Iran – e la sua intenzione di ignorare l'approccio
aggressivo di Teheran nella regione pur di non compromettere
l'accordo sul nucleare – ha lasciato nei sauditi la sensazione del
tradimento e dell'isolamento. Con l'egemonia iraniana che si
espandeva in Iraq, Siria e Libano, i sauditi hanno concluso che la
loro sicurezza non era più considerata a Washington come parte
dell'interesse nazionale americano. Con la sua svolta
l'amministrazione Trump sta cercando di rassicurare i sauditi che la
politica filo-iraniana è finita, ma il senso di insicurezza è ormai
profondo a Riad, perché la politica estera americana è diventata
meno prevedibile e più incostante. In una parola, inaffidabile, per
chi ha fondato la sua strategia di sicurezza nazionale sulla
stabilità dell'alleanza con gli Stati Uniti.
Poi c'è il tema del petrolio. Con le
sue enormi riserve, l'Arabia Saudita ha sempre usato la sua posizione
di forza per mantenere il più possibile la stabilità dei prezzi
rispetto ai tentativi di produttori più aggressivi che avevano
interesse ad alzarli. Un ruolo particolarmente apprezzato a
Washington. L'interesse saudita era quello di impegnare i suoi
clienti nel lungo termine ed evitare che gli investimenti prendessero
la via di fonti energetiche alternative. Ma la "shale
revolution" sta cambiando gli equilibri e Washington e Riad non
hanno più interessi così allineati nel mercato petrolifero. Gli
estrattori americani, che possono rapidamente aumentare o diminuire
la produzione al variare dei prezzi, rappresentano una sfida al ruolo
dell'Arabia Saudita come produttore leader. Inoltre, i progressi
nell'efficienza energetica e le fonti alternative stanno spostando la
curva di domanda di lungo termine degli idrocarburi.
La combinazione tra petrolio meno
redditizio e pressione demografica mette a rischio il fragile
contratto sociale del Regno basato sui proventi petroliferi: Riad
teme che l'oro nero non basti più a sostenere il benessere dei suoi
sempre più numerosi (e giovani) sudditi. Insomma, temendo di non
poter più contare solo sul petrolio per la propria ricchezza e
fidarsi ciecamente di Washington per la propria sicurezza, i sauditi
si stanno assumendo dei rischi. L'età e il profilo riformatore del
nuovo erede al trono, Mohammed bin Salman, sono il segno
dell'accelerazione impressa alla vita politica e sociale del Regno.
Il giovane Salman crede che le risposte a queste sfide siano una
politica estera assertiva, nel contrapporre all'espansionismo
iraniano un fronte sunnita compatto e determinato, e un piano di
riforme interne per emanciparsi dalla dipendenza dal petrolio. Come
ministro della difesa è stato l'architetto della campagna militare
nello Yemen contro i ribelli Houthi sostenuti dall'Iran e uno dei
sostenitori della linea dura nei confronti del Qatar.
Il principe ereditario non è stato
istruito all'estero, è popolare tra i giovani sauditi che chiedono
più opportunità economiche e meno restrizioni sociali. Il giovane
principe Salman è l'artefice di "Vision 2030", il più
ampio e ambizioso programma di riforme mai proposto per diversificare
l'economia saudita ed espandere il ruolo dell'impresa privata. Al
centro del piano l'aumento della quota privata dell'economia dal 40
al 65% entro il 2030 e la riduzione della dipendenza del governo dai
proventi del petrolio, ora al 70%. Tra le misure, la parziale
privatizzazione della compagnia petrolifera statale Aramco e una
maggiore partecipazione delle donne alla forza-lavoro (il diritto
alla guida sarebbe solo l'inizio). In un paese dove il 45% della
popolazione, di 32 milioni, ha meno di 25 anni sarebbe una spinta
decisiva alla crescita economica. Ma il nuovo erede al trono è anche
un convinto sostenitore di cambiamenti culturali: concerti dal vivo
vengono autorizzati e cinema aperti per la prima volta nel Regno. Il
che ha già innescato scontri con il potente establishment religioso
wahabita. Per gli standard sauditi un programma rivoluzionario, che
implica anche un certo grado di separazione tra politica e religione.
Tutto questo, osserva WRM, indica che
l'attuale turbolenza nel Golfo sia destinata a durare. Per riportare
la stabilità l'amministrazione Trump "dovrebbe pensare ai
problemi economici e di sicurezza dell'Arabia Saudita nel loro
complesso, e in modo creativo a come questa alleanza, un pilastro
della stabilità del Medio Oriente dalla Seconda Guerra Mondiale,
possa essere rinnovata". Un'Arabia Saudita moderata e prospera
rafforzerebbe la stabilità nel mondo arabo e sarebbe quindi
nell'interesse nazionale degli Stati Uniti.
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Tuesday, July 04, 2017
Perché gli Stati Uniti di Trump preferiscono l'Arabia Saudita all'Iran
Pubblicato su formiche
Perché gli Stati Uniti hanno preferito tornare all'alleanza con i sauditi anziché continuare sulla strada dell'apertura a Teheran tracciata da Obama
Perché gli Stati Uniti hanno preferito tornare all'alleanza con i sauditi anziché continuare sulla strada dell'apertura a Teheran tracciata da Obama
Nelle analisi sul Medio Oriente un
fattore abusato, e spesso addirittura fuorviante, è quello dello
storico conflitto tra sunniti e sciiti. Come prova anche la crisi tra
il Qatar e gli altri Paesi del Golfo, interessi economici e
geopolitici pesano spesso di più e, come vedremo, il mondo sunnita è
a sua volta diviso molto più di quanto si pensi.
Su Formiche abbiamo già parlato della
svolta a 180 gradi impressa dall'amministrazione Trump alla politica
americana in Medio Oriente rispetto agli otto anni di presidenza
Obama. Dal non disturbare l'Iran nei suoi disegni egemonici al
ritorno al fianco dei tradizionali alleati nella regione, Israele e i
Paesi arabi sunniti, per contenere e isolare il regime degli
ayatollah.
L'ex presidente Obama ha pensato che
facendo uscire Teheran dal suo isolamento, con un accordo sul
nucleare che prevedesse il progressivo alleggerimento delle sanzioni
occidentali, di fatto riconoscendo il suo status di potenza
regionale, l'Iran potesse trasformarsi in un fattore di stabilità e
gli Stati Uniti avrebbero potuto finalmente ridurre il loro
dispendioso impegno in Medio Oriente. Per non pregiudicare quella
storica intesa, Obama ha chiuso più di un occhio sull'endemico ruolo
destabilizzante degli iraniani nella regione, persino accettando che
fosse travolta la sua "linea rossa" sull'uso di armi
chimiche in Siria da parte del regime di Assad.
Ma l'idea che i problemi del Medio
Oriente si potessero risolvere riammettendo Teheran nel gioco tra le
potenze regionali si è rivelata una pericolosa illusione, come
dimostra il passato e presente comportamento degli iraniani. Al
contrario, il tentativo di "appeasement" ha incoraggiato
Teheran a perseguire con maggiore spregiudicatezza i suoi disegni
egemonici, dall'Iraq e la Siria allo Yemen, passando per il Libano. E
come una scintilla nella polveriera ha infiammato le tensioni
regionali: i tradizionali alleati arabi sunniti, sentendosi traditi
da Washington e spaventati, hanno reagito anche flirtando con i
gruppi jihadisti in Siria in funzione anti-iraniana. Una tentazione
in cui è caduta persino la Turchia di Erdogan, un paese Nato.
La realtà è che non ci sono partner
ideali in Medio Oriente. Nessun regime nella regione ha interessi,
tanto meno valori, identici a quelli americani e occidentali.
Premesso che gli Stati Uniti (e l'Occidente) non possono permettersi
di non avere una politica in Medio Oriente, e che la disastrosa
situazione ereditata nella regione non offre molte altre scelte, si
tratta di scegliere tra il male e il peggio. E allora perché, in
questo conflitto per procura in corso tra l'Arabia Saudita e i suoi
alleati sunniti del Golfo da una parte e l'Iran sciita e alcuni
alleati (come il regime di Assad e Hezbollah in Siria, gli Houthi in
Yemen) dall'altra, gli Stati Uniti hanno preferito tornare
all'alleanza con i primi anziché continuare sulla strada
dell'apertura a Teheran tracciata da Obama?
L'aspetto decisivo è che al contrario
degli iraniani, i sauditi fino ad oggi hanno dimostrato di accettare
di muoversi all'interno di un ordine caratterizzato dalla leadership
americana, mentre Teheran intende sfidarla e sostituirsi ad essa,
esportare la rivoluzione khomeinista ed estirpare Israele dalle mappe
del Medio Oriente. Per il regime degli ayatollah il terrorismo è
parte integrante dell'arte del governo e della sua politica estera.
Fu il primo in Libano, negli anni '80, a sperimentare con successo le
missioni suicide, facendo scuola dai gruppi palestinesi fino ad Al
Qaeda e all'Isis. E quando c'è un nemico comune da abbattere anche
il dissidio con i sunniti passa in secondo piano. Noto il sostegno
iraniano ad Hamas (movimento sunnita della Fratellanza musulmana)
contro Israele. Così come il permesso concesso ad Al Qaeda di
attraversare il territorio iraniano come strategica via di
collegamento tra l'Afghanistan, a est, e l'Iraq, a ovest. Tra gli
stati, l'Iran è ancora oggi il principale sponsor del terrorismo al
mondo.
L'obiezione è che anche l'Arabia
Saudita è un regime dispotico la cui religione ufficiale è una
delle versioni più fondamentaliste dell'islam, il wahabismo (che a
suon di petrodollari i sauditi si sforzano di diffondere, anche in
Europa, attraverso moschee e scuole coraniche), e che la loro
condotta nei confronti dell'estremismo e del terrorismo islamista
presenta ancora troppe ambiguità. Nonostante tutte le sei monarchie
del Golfo abbiano sottoscritto nel 2014 la Dichiarazione di Jeddah,
in cui si impegnano a non tollerare finanziamenti ai gruppi
terroristici e a "ripudiare la loro ideologia d'odio", ci
sono ancora delle omissioni nelle liste delle organizzazioni bandite
e nel perseguire i finanziatori privati sul loro territorio.
Tuttavia, dal 2003 al 2006 la monarchia
saudita ha combattuto duramente per sedare una ribellione interna di
Al Qaeda e dopo l'ondata delle cosiddette primavere arabe nel 2011 ha
elevato il proprio grado di allarme per la minaccia sovversiva
dell'islam radicale, mentre il Qatar offriva il suo generoso sostegno
ai movimenti politici e militari della Fratellanza musulmana (tra cui
Morsi in Egitto e Hamas a Gaza) in tutto il mondo arabo, nel
tentativo di sfidare l'ordine esistente. Ed è proprio questo uno dei
motivi fondamentali della rottura con Doha.
Oltre al conflitto con gli sciiti,
infatti, c'è uno scontro per l'identità e la leadership politica
dell'islam sunnita che vede Arabia Saudita e Qatar su fronti
contrapposti. Entrambe le famiglie regnanti si ritengono i veri
discendenti del fondatore del wahabismo, quindi dal punto di vista
dottrinario si richiamano alle origini dell'islam, ma con intenzioni
e implicazioni molto diverse dal punto di vista politico. Per i
sauditi il vero islam, la versione wahabita, si deve rafforzare e
diffondere preservando le realtà statuali arabe formatesi negli
ultimi cento anni, mentre per i Fratelli musulmani (di cui fa parte
anche il partito di Erdogan) che i qatarini sostengono è necessario
abbattere i regimi esistenti per unificare le nazioni arabe sotto la
stessa guida islamica.
Questo spiega l'ambivalenza di Riad.
Dal punto di vista strettamente teologico l'Isis, Al Qaeda e la
galassia dei gruppi jihadisti si richiamano evidentemente al
wahabismo saudita, ma dal punto di vista dell'ideologia politica,
derivata dai Fratelli musulmani, rappresentano una minaccia
esistenziale per il Regno dei Saud, dal momento che puntano a una
qualche forma di califfato, di unificazione della "umma",
la comunità musulmana sunnita, e muovono guerra all'Occidente, non
solo agli sciiti.
Negli ultimi anni sembra però che a
Riad la ragion di Stato stia prevalendo sulle affinità religiose. Se
moschee e centri culturali sia del wahabismo saudita che dei Fratelli
musulmani, in competizione tra loro, pullulano anche in Europa ed è
un nostro problema limitare, anzi respingere, sia gli uni che gli
altri, in quanto portatori di una versione dell'islam incompatibile
con i valori occidentali, dal punto di vista geopolitico i recenti
sviluppi inducono a propendere verso l'alleanza con i sauditi. Le
monarchie del Golfo durante il summit di Riad con il presidente Trump
hanno risposto positivamente alla richiesta americana di fare di più
per sradicare l'estremismo e il terrorismo islamista.
Le ultime mosse suggeriscono anche che
il Regno, uno dei regimi più dispotici e retrivi del mondo islamico,
sia alla vigilia di una stagione di profondi cambiamenti,
socio-economici e culturali, che potrebbero far entrare il paese
nella modernità, fino ad oggi respinta, spingendo gli altri paesi
arabi sunniti a seguire lo stesso percorso. E in tal senso va letta
la recente decisione di Re Salman di cambiare la linea di successione
in favore del figlio 31enne Mohammed bin Salman, giovane e
riformatore, sostenitore del piano di riforme "Vision 2030"
per diversificare l'economia saudita, ma anche di cambiamenti
culturali, che implicano un certo grado di separazione tra politica e
religione. Vedremo alla prova dei fatti il riformismo saudita, ma
finora quello iraniano incarnato dal presidente Rouhani, che aveva
suscitato forse eccessive aspettative nelle capitali occidentali, si
è rivelato inconsistente, solo retorico e cosmetico.
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Monday, July 03, 2017
Italia isolata in Europa sull'emergenza migranti
Hanno ragione Francia, Spagna e Austria, che non sono certo governate da
pericolosi estremisti... E torto l'Italia, che
sull'emergenza migranti, per lo più autoinflitta, non rispetta leggi e
regole, e soprattutto i suoi cittadini
Praticamente, ieri sera al vertice di Parigi sull'emergenza migranti, Francia Germania e Italia hanno adottato il "piano Zuccaro" sulla condotta delle ong. Le prove dovevano essere proprio convincenti...
Se tra i punti dell'intesa sul protocollo di condotta delle ong c'è 1) il divieto di entrare in acque libiche; 2) il divieto di spegnere i trasponder a bordo; e 3) il divieto di lanciare segnali luminosi verso la costa libica, vuol dire che al momento un numero non irrilevante delle navi delle ong fanno esattamente queste tre cose: entrano in acque libiche, spengono i trasponder e lanciano segnali luminosi ai trafficanti. E questo non è soccorso...
Prima, anzi fino a ieri, non c'era nemmeno un'emergenza, era un fenomeno ineluttabile a cui abituarsi, vi dicevano. D'un tratto, nell'arco di un weekend, il fenomeno è diventato "ingestibile", tanto da dover chiudere i porti... E il problema è l'Europa? Qualcosa non torna...
L'emergenza migranti (come il debito pubblico e la nostra interminabile crisi economica) è per lo più autoinflitta, abbiamo incoraggiato il business per anni. Più siamo andati a prenderli vicino alle coste libiche, meno rischi, meno costi, più margini di profitto per i trafficanti, più vittime in mare. Non ci voleva un genio per capirlo... Chiunque dotato di buon senso e onestà intellettuale non può che concludere che le politiche dei governi italiani e l'attività delle ong hanno di fatto incoraggiato il fenomeno (nient'affatto ineludibile, almeno non in queste forme - tratta di essere umani - e in questi numeri), lo hanno reso meno rischioso e più redditizio per i trafficanti, più mortale per i migranti. Anche il New York Times è xenofobo e razzista??
Certo, la crisi generata dal caos libico (grazie Obama, Clinton, Sarkozy, Cameron), ma è stata aggravata dalle politiche dissennate dei governi Letta e Renzi. Profughi una estrema minoranza, sulle nostre coste arrivano da sempre migranti economici, che spesso non fuggono nemmeno da una condizione di miseria assoluta: leggere queste scomode verità. Di quelli nessuno in Europa ne voleva e ne vuole sapere. Abbiamo ancora la nostra sovranità, i nostri confini e gli strumenti per farli rispettare. È una questione di volontà politica nostra, non di chiedere permessi o aiuti a Bruxelles. Tirare in ballo - ora - l'Ue serve solo a cercare di coprire le responsabilità di chi c'è e di chi c'era al governo...
La realtà è che si sono finalmente accorti che la politica dell'accoglienza è alla lunga insostenibile, che sull'immigrazione senza limiti hanno perso consensi (referendum e amministrative), e ora che le politiche sono dietro l'angolo, et voilà, il "blocco" non è più xenofobo, razzista, disumano. Però per giustificare il cambio di linea prendono come alibi presunte inadempienze dell'Ue. Cialtroni. Ipocriti. Codardi.
E' un gioco delle parti. La relocation riguarda i rifugiati, un'estrema minoranza di quanti arrivano in Italia. Al di là delle pacche sulle spalle, la posizione dell'Ue è chiara da tempo (ed è la più ovvia): identificazione e rimpatri (e aiuti in Africa). Se poi il governo italiano vuole accogliere tutti, problemi suoi. Al massimo uno sconticino sul deficit. Il governo italiano lo sa bene, ma continua a lamentarsi con l'Ue che "non ci aiuta" per giustificare all'opinione pubblica la crisi e il cambio di linea. Poi ci sarebbe il tema Libia, ma l'Ue non esiste (per una soluzione bussare a Washington e Mosca), ogni nazione fa i suoi interessi. Anche questa non è una novità...
Il presidente francese Macron ha il merito di aver detto le cose come stanno, mentre dagli altri solo ipocrisia. "La Francia deve fare la sua parte sull'asilo di persone che vogliono rifugio. Poi c'è il problema dei migranti economici, e questo non è un tema nuovo: l'80% dei migranti che arrivano in Italia sono migranti economici (dati Viminale, ndr). Non dobbiamo confondere". E questa è la vera posizione di tutti i paesi. Solo in Italia si è voluto confondere, per confondere i cittadini, e giustificare un'accoglienza indiscriminata. Ora arriva il conto, politico ed economico.
Praticamente, ieri sera al vertice di Parigi sull'emergenza migranti, Francia Germania e Italia hanno adottato il "piano Zuccaro" sulla condotta delle ong. Le prove dovevano essere proprio convincenti...
Se tra i punti dell'intesa sul protocollo di condotta delle ong c'è 1) il divieto di entrare in acque libiche; 2) il divieto di spegnere i trasponder a bordo; e 3) il divieto di lanciare segnali luminosi verso la costa libica, vuol dire che al momento un numero non irrilevante delle navi delle ong fanno esattamente queste tre cose: entrano in acque libiche, spengono i trasponder e lanciano segnali luminosi ai trafficanti. E questo non è soccorso...
Prima, anzi fino a ieri, non c'era nemmeno un'emergenza, era un fenomeno ineluttabile a cui abituarsi, vi dicevano. D'un tratto, nell'arco di un weekend, il fenomeno è diventato "ingestibile", tanto da dover chiudere i porti... E il problema è l'Europa? Qualcosa non torna...
L'emergenza migranti (come il debito pubblico e la nostra interminabile crisi economica) è per lo più autoinflitta, abbiamo incoraggiato il business per anni. Più siamo andati a prenderli vicino alle coste libiche, meno rischi, meno costi, più margini di profitto per i trafficanti, più vittime in mare. Non ci voleva un genio per capirlo... Chiunque dotato di buon senso e onestà intellettuale non può che concludere che le politiche dei governi italiani e l'attività delle ong hanno di fatto incoraggiato il fenomeno (nient'affatto ineludibile, almeno non in queste forme - tratta di essere umani - e in questi numeri), lo hanno reso meno rischioso e più redditizio per i trafficanti, più mortale per i migranti. Anche il New York Times è xenofobo e razzista??
Certo, la crisi generata dal caos libico (grazie Obama, Clinton, Sarkozy, Cameron), ma è stata aggravata dalle politiche dissennate dei governi Letta e Renzi. Profughi una estrema minoranza, sulle nostre coste arrivano da sempre migranti economici, che spesso non fuggono nemmeno da una condizione di miseria assoluta: leggere queste scomode verità. Di quelli nessuno in Europa ne voleva e ne vuole sapere. Abbiamo ancora la nostra sovranità, i nostri confini e gli strumenti per farli rispettare. È una questione di volontà politica nostra, non di chiedere permessi o aiuti a Bruxelles. Tirare in ballo - ora - l'Ue serve solo a cercare di coprire le responsabilità di chi c'è e di chi c'era al governo...
La realtà è che si sono finalmente accorti che la politica dell'accoglienza è alla lunga insostenibile, che sull'immigrazione senza limiti hanno perso consensi (referendum e amministrative), e ora che le politiche sono dietro l'angolo, et voilà, il "blocco" non è più xenofobo, razzista, disumano. Però per giustificare il cambio di linea prendono come alibi presunte inadempienze dell'Ue. Cialtroni. Ipocriti. Codardi.
E' un gioco delle parti. La relocation riguarda i rifugiati, un'estrema minoranza di quanti arrivano in Italia. Al di là delle pacche sulle spalle, la posizione dell'Ue è chiara da tempo (ed è la più ovvia): identificazione e rimpatri (e aiuti in Africa). Se poi il governo italiano vuole accogliere tutti, problemi suoi. Al massimo uno sconticino sul deficit. Il governo italiano lo sa bene, ma continua a lamentarsi con l'Ue che "non ci aiuta" per giustificare all'opinione pubblica la crisi e il cambio di linea. Poi ci sarebbe il tema Libia, ma l'Ue non esiste (per una soluzione bussare a Washington e Mosca), ogni nazione fa i suoi interessi. Anche questa non è una novità...
Il presidente francese Macron ha il merito di aver detto le cose come stanno, mentre dagli altri solo ipocrisia. "La Francia deve fare la sua parte sull'asilo di persone che vogliono rifugio. Poi c'è il problema dei migranti economici, e questo non è un tema nuovo: l'80% dei migranti che arrivano in Italia sono migranti economici (dati Viminale, ndr). Non dobbiamo confondere". E questa è la vera posizione di tutti i paesi. Solo in Italia si è voluto confondere, per confondere i cittadini, e giustificare un'accoglienza indiscriminata. Ora arriva il conto, politico ed economico.
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