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Monday, July 25, 2016

Il Califfato di Erdogan con l'aiuto dell'Europa

Pubblicato su The Fielder

Il capo dell'Isis al-Baghdadi starà provando un pizzico di invidia per il presidente turco Erdogan, che sta riuscendo, lui sì, a metter su un vero Califfato, dentro la Nato e con un piede nell'Ue. Una battuta, ma non troppo... Considerando la rapidità con cui Erdogan, appena scampato al golpe, ha dato il via all'epurazione di massa cui assistiamo da giorni, è probabile che avesse pronte da tempo le liste di nomi da epurare e che i golpisti abbiano agito mossi dalla fretta e dalla disperazione, giocando il tutto per tutto nel tentativo di anticipare una purga comunque imminente.

A giochi fatti, e a denti stretti, il presidente Obama e i leader europei hanno espresso il loro sostegno al governo "democraticamente eletto", nonostante la deriva autoritaria e islamista nella Turchia di Erdogan fosse ormai chiara da anni. Si sono trincerati dietro un mero formalismo (dal momento che la democrazia non si esaurisce certo nel voto popolare), ma è stata la loro stessa incauta realpolitik a costringerli a tenersi buono (per l'accordo sui migranti e la guerra all'Isis) un partner imbarazzante e inaffidabile. La Turchia è altro, e guarda altrove, rispetto al Paese che nel dicembre 1999 il Consiglio europeo accettò come candidato all'adesione. La Turchia laica, kemalista, quasi democratica è morta e sepolta in poco più di dieci anni e proprio sotto lo sguardo benevolo dell'Europa.

Molti non se ne sono ancora accorti, o fingono di non accorgersene. La tesi continua a essere che in fondo è colpa nostra. Perché non abbiamo aperto le porte alla Turchia quando avremmo dovuto, li abbiamo "respinti", abbiamo fatto "i difficili" sui numerosi capitoli dei negoziati. Sarebbe quindi venuto meno un importante incentivo per proseguire sulla strada della democrazia e dello stato di diritto e ora rischiamo che la Turchia, delusa, rivolga altrove la propria attenzione geopolitica, alla Russia o all'Iran.

Dobbiamo smetterla con questa visione eurocentrica per cui "gli altri", Putin e adesso Erdogan, agiscono solo in reazione alla frustrazione delle loro presunte aspettative su di noi, e non secondo loro ambizioni geopolitiche. Giuste o sbagliate, agiscono indipendentemente da cosa fa e dice l'Europa.

E' questo purtroppo uno dei frutti avvelenati dell'ideologia europeista. La convinzione che l'Unione europea fosse un progetto inevitabilmente destinato a magnifiche sorti e progressive ha alimentato, a cavallo degli anni 2000, un vero e proprio delirio di onnipotenza. C'è stato, in effetti, un momento in cui il progetto europeo emanava un "soft power" tale da attrarre e indurre miglioramenti nei Paesi candidati all'adesione o all'associazione. Ma quel periodo, in cui l'Ue sembrava potesse trasformare in oro qualsiasi cosa toccasse, è ampiamente alle nostre spalle. Se rientrava nella "mission" europea l'adesione dei Paesi dell'Europa orientale appena liberatisi dal giogo sovietico, per una vera riunificazione del continente, fu un clamoroso abbaglio pensare che si potesse includere anche la Turchia, sulla base dei suoi stretti legami con l'Occidente e la natura laica delle sue istituzioni.

L'ancoraggio di Ankara all'Occidente, attraverso la sua appartenenza alla Nato, si deve principalmente alle circostanze della Guerra Fredda e alla modernizzazione kemalista. Ma crollata l'Unione sovietica, venuti meno i vincoli della Guerra Fredda, era logico aspettarsi che rivolgesse altrove la sua attenzione geopolitica, non appena avesse avuto forza e consapevolezza. E in nemmeno due decenni anche la laicizzazione forzata di Ataturk si è sciolta come neve al sole, rivelandosi effimera e superficiale rispetto alla più profonda identità religiosa e culturale islamica del Paese, che ha attraversato il kemalismo come un fiume carsico per poi riemergere prepotentemente.

Dopo il crollo sovietico, come ha spiegato il prof. Alessandro Grossato, orientalista della Facoltà teologica del Triveneto, in un saggio apparso nel 2010 sulla "Rivista di Politica", l'Islam ha ripreso a manifestarsi e a diffondersi dai Balcani alla Turchia, dal Caucaso all'Asia centrale, fino alla comunità uigura nello Xinjang cinese, grazie all'opera di confraternite sufi come la Naqshbandiyya. Molto attiva in Turchia dai tempi di Ataturk, questa confraternita, praticando l'arte della dissimulazione, in arabo taqîya, ovvero tenere nascosta la propria identità islamica, ha giocato un ruolo centrale nella sopravvivenza dell'islam turco, ponendo le basi per la sua rinascita anche politica quando le circostanze lo hanno permesso. Attraverso movimenti culturali e fondazioni caritatevoli, la Naqshbandiyya ha coltivato la futura base elettorale di quelle che saranno, di lì a qualche decennio, le prime formazioni politiche dichiaratamente islamiche, nonché la classe dirigente, riuscendo persino a infiltrare, grazie alla perfetta applicazione dell'arte della dissimulazione, alcuni dei propri affiliati ai vertici dello Stato (come il due volte primo ministro ed ex presidente Turgut Özal).

Nel 1995, Necmettin Erbakan, conduce per la prima volta alla vittoria, in regolari elezioni, un partito dichiaratamente islamico, il "Partito del Benessere". Ma dimenticando le regole della taqîya Erbakan manifesta fin da subito le sue intenzioni di liquidare il kemalismo, spingendo le forze armate al golpe "morbido" del 1997. Ma ormai il processo si era messo in moto. Nel novembre del 2002, complici le cattive condizioni di salute dell'anziano primo ministro Ecevit e la grave crisi politica e sociale del Paese, i militari non possono impedire al partito di Erdogan, l'Akp, solo apparentemente più moderato del precedente di Erbakan, di partecipare alle elezioni. Le vittorie del 2002 e del 2007 sono tali da rendere impraticabile un golpe "morbido".

E qui veniamo al rapporto strumentale di Erdogan con l'Unione europea (e con la democrazia) e al secondo, drammatico sbaglio delle élite europee. Erdogan (e prima di lui Turgut Özal, che nel 1987 inoltrò la domanda formale di adesione alla Ue) ha capito che il processo di integrazione nell'Ue poteva rappresentare un mezzo per scardinare il sistema kemalista e favorire la rinascita dell'islam turco, sia sul piano religioso che su quello politico. Proprio le riforme fortemente richieste dall'Ue quale condizione preliminare per avviare il processo di adesione - libertà d'espressione, apertura democratica, fine dell'ingerenza delle forze armate nella politica - erano la migliore garanzia per i partiti e i movimenti culturali islamici contro la spada di Damocle che le forze armate e la magistratura avrebbero potuto ancora calare sulle loro teste per salvare il sistema kemalista. Sempre in un'ottica eurocentrica, agli occhi degli europei era il ruolo dei militari, non l'islam politico, ad essere incompatibile con una Turchia democratica. Che svista!

Diversa la sorte del governo islamista di Morsi in Egitto, anch'esso democraticamente eletto ma fatto fuori dal golpe del generale Al-Sisi. L'errore di Morsi è stato quello di gettare subito la maschera, procedere a un'islamizzazione a tappe forzate, tra l'altro dimostrando una totale imperizia economica. Erdogan è stato molto più abile: si è presentato come moderato (salutavamo il suo Akp come il corrispettivo islamico della democrazia cristiana, ricordate?), ha dissimulato, ha garantito anni di crescita economica sostenuta e senza precedenti. E quando il golpe è arrivato, era ormai troppo tardi perché potesse riuscire. Ci ha messo un decennio, ma ora può permettersi di abbandonare almeno in parte la pratica della dissimulazione e raccoglierne i frutti.

Erdogan si è servito della democrazia (e dell'Europa) come un tram: "Quando arrivi alla tua fermata, scendi", ebbe a dire lui stesso durante il suo mandato da sindaco di Istanbul dal 1994 al 1997. Una volta sdoganato l'islam politico, rafforzato il suo potere, liquidato il kemalismo, ora che il processo di islamizzazione delle istituzioni è compiuto non ne ha più bisogno. E anche dall'Ue ha ottenuto tutto ciò che gli serviva. Non c'è motivo per cui ora debba temere la minaccia di un "no" a un'adesione che non ha mai voluto e che rischierebbe anzi di inquinare l'identità islamica della nuova Turchia e di legargli le mani rispetto alle nuove ambizioni geopolitiche.

Sciagurato anche il recente accordo sui migranti che l'Ue, Berlino in testa, ha negoziato con Ankara, di fatto appaltando a Erdogan la sicurezza dei confini dell'Europa. Nelle sue mani il rubinetto del flusso di profughi che dalla Siria tentano di raggiungere l'Europa attraverso l'Egeo e la rotta balcanica può trasformarsi in una potente arma di ricatto.

Ma dove vuole arrivare Erdogan? All'interno, dunque, la rinascita islamica. Sul piano internazionale, un radicale riposizionamento geopolitico. Grazie all'indulgenza americana ed europea, finora l'appartenenza alla Nato e il negoziato per l'ingresso nell'Ue non hanno impedito a Erdogan di proiettare sempre più l'influenza della Turchia in tutt'altre direzioni, ma è chiaro che il nuovo ruolo di Ankara nel mondo passa per la progressiva emancipazione dall'Occidente. Il primo segnale già nel 2003, quando Erdogan rifiutò il passaggio attraverso il territorio turco della Quarta divisione di fanteria americana verso il fronte settentrionale iracheno.

L'importanza strategica della Turchia deriva dalla sua particolare collocazione geografica, crocevia tra Europa e Medio Oriente, Caucaso e Asia centrale, ma anche dalle sue identità culturali (quella islamica e quella turcofona) e dall'eredità ottomana. Tutti elementi che fino ad ora Erdogan è riuscito a combinare con un equilibrismo quasi perfetto.

Innanzitutto, l'appartenenza islamica, quindi i vicini Paesi arabi, in particolare Siria, Iraq e palestinesi, ma anche i lontani Qatar e Arabia Saudita, e persino l'Iran sciita. Il punto è che tutte le sue abili e spesso contraddittorie manovre si spiegano con l'intenzione di sfruttare qualsiasi opportunità - e la cosiddetta "primavera araba" ne ha offerte molte - per far emergere la Turchia come Paese guida e modello per il mondo sunnita al posto dei declinanti Egitto e Arabia Saudita.

La gestione della crisi siriana è emblematica delle sue doti di equilibrismo, del saper tirare al massimo la corda senza spezzarla. Fin tanto che la priorità dell'Occidente sembrava essere quella di sbarazzarsi del regime di Assad, ha permesso agli aerei russi di raggiungere la base siriana di Tartous, senza che la Nato potesse far nulla. Fino all'estate scorsa ha negato l'utilizzo della base Nato di Incirlik per bombardare l'Isis. Poi l'abbattimento del jet russo e le accuse di Mosca sul suo flirt con l'Isis in funzione anti-Assad e anti-curda. Ha ostacolato il processo politico di Ginevra, cercando di escludere i curdi e di includere gruppi islamisti. Infine, proprio nei mesi precedenti il tentato golpe, e quando Usa e Russia hanno finalmente iniziato a collaborare in funzione anti-Isis, rischiando di finire isolato si è riallineato. Un prezzo l'ha pagato: l'Isis ha punito la sua ambiguità con l'attentato all'aeroporto Ataturk di Istanbul.

Il protagonismo turco nella crisi siriana ha l'obiettivo di mostrarsi al mondo sunnita come potenza regionale in grado di contenere, e se possibile respingere l'influenza iraniana, in ascesa in tutta l'area dall'Iraq alla Siria e al Libano, e di giocare alla pari con Usa e Russia (nonché ovviamente di debellare la minaccia curda). Né va dimenticato il tentativo di giocare un ruolo sul futuro della martoriata Libia. E già da anni, l'appoggio senza precedenti di Ankara alla causa palestinese, e soprattutto a quella di Gaza (e, quindi, di Hamas), con le conseguenti tensioni con Israele, aveva garantito di per sé una forte legittimazione da parte di tutte le masse arabe.

Ma Erdogan ha saputo allo stesso tempo instaurare rapporti di buon vicinato, e di relativa collaborazione, anche con Teheran. Il presidente iraniano Rouhani ha salutato la sconfitta del golpe molto più calorosamente di Obama e dei leader europei. E oltre ai rapporti economici, nonostante si trovino su fronti contrapposti nella crisi siriana, i due Paesi collaborano su singole questioni come quella curda e sul nucleare. Ricordiamo le operazioni militari congiunte turco-iraniane contro la guerriglia curda lungo il confine tra i due Paesi. E il sostegno di Ankara a una soluzione diplomatica sul nucleare iraniano, riconoscendo a Teheran il diritto a dotarsi del nucleare civile. Chissà, un giorno potrebbe servire che Teheran ricambi il favore...

Ora Stati Uniti ed Europa non devono commettere l'ennesimo errore, non devono farsi prendere dall'ansia di corteggiare Erdogan, rafforzandolo, per paura di spingerlo nelle braccia russe o iraniane. Erdogan non vuole affatto finirci. Gioca alternativamente la carta Nato e la prospettiva europea nei confronti della Russia, e la carta Putin per dimostrare a Stati Uniti e Ue che ha un'alternativa rispetto all'alleanza occidentale. L'importante è mettersi in mezzo, sempre, giocando da imprevedibile guastatore o indispensabile alleato. Ma in realtà non vuole legarsi a nessuno. Prende ciò che può da entrambi i forni per rafforzarsi internamente e per scalare posizioni sul piano internazionale. Non vede la sua Turchia come membro dell'Ue, ma neppure dell'Unione eurasiatica (l'unione economica tra Russia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Armenia). Entrambe le membership sarebbero incompatibili con il ruolo di potenza egemone che intende esercitare in Medio Oriente e nel nuovo spazio eurasiatico, perché dovrebbe rispondere delle sue azioni in un caso a Bruxelles, nell'altro a Mosca.

Il riavvicinamento alla Russia non significa quindi che Erdogan voglia sposarsi a Putin, né d'altra parte Putin intende accoglierlo a braccia aperte. Primo, perché il livello di fiducia è ancora troppo basso: Putin non si fida. Non scordiamoci che Mosca ha accusato esplicitamente Ankara di fornire appoggio all'Isis, ha denunciato l'estrema permeabilità del confine turco per i terroristi, nonché gli strani commerci di petrolio che dalla Siria attraversavano tutta la Turchia fino al Mediterraneo. Per la Russia sarebbe già positivo e utile se la Turchia si emancipasse dall'Occidente, restando un elemento separato. Ma questo non significa che il Cremlino si fiderà di Ankara. Anche perché sulla questione siriana nel frattempo si è ammorbidita la posizione americana ed è partito un vero dialogo tra Washington e Mosca. Inoltre, le ambizioni di Erdogan vanno oltre il Medio Oriente, si estendono a tutta la vasta area turcofona dell'Asia centrale. Il che confligge con la sfera di influenza russa. Proprio nell'area eurasiatica i due sono destinati a confliggere molto più che incontrarsi (il che non esclude progetti comuni se e quando convengano a entrambi).

Insomma, dal mondo sunnita del Medio Oriente (dalla Libia al Golfo persico) a quello turcofono fino al Mar Caspio e al rapporto dialogico con l'Europa (non da Paese candidato all'adesione ma da pari a pari), l'area verso la quale la Turchia di Erdogan sta tentando di proiettare la sua influenza ricorda sempre più quella compresa e integrata nel Califfato ottomano.

Già nell'estate del 2011, su Newsweek lo storico Niall Ferguson segnalava tra le ambizioni di Erdogan quella di far "rivivere l'Impero ottomano", intravedendo "buone ragioni" per sospettare che sognasse di "trasformare la Turchia in modi che Solimano il Magnifico avrebbe apprezzato", cioè in un "nuovo impero musulmano in Medio Oriente". E ricordava come nel 1998 Erdogan fu imprigionato per aver recitato i versi di un poeta panturco di inizio secolo: "Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati". Emblematiche anche le sue parole dopo la vittoria alle elezioni del 2011: "Sarajevo ha vinto oggi quanto Istanbul; Beirut quanto Izmir; Damasco quanto Ankara; Ramallah, Nablus, Jenin, la Cisgiordania, Gerusalemme hanno vinto quanto Diyarbakir". "La sua ambizione, sembra chiaro - scriveva Ferguson - è tornare all'era pre-Ataturk, quando la Turchia era non solo musulmana militante, ma anche una superpotenza regionale".

Dunque, si pone eccome il tema dell'espulsione, o quanto meno della sospensione della Turchia dalla Nato e degli accordi con l'Unione europea: è in gioco la condivisione dei sistemi di difesa della Nato con un governo islamista il cui sistema di alleanze è quanto meno troppo variabile e spregiudicato. E l'Europa? Si può permettere una potenza islamista alle proprie porte? La Turchia di Erdogan, e in generale l'islam politico, è incompatibile con i valori e gli interessi occidentali? Urgono risposte coraggiose.

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