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Wednesday, September 17, 2008

Perché Aig sì e Lehman no?

Perché, ci si potrebbe chiedere, la Fed ha salvato Aig e non Lehman Brothers?

Il fallimento della banca d'affari danneggia facoltosi manager e broker finanziari, e una ristretta cerchia di investitori, che dopo qualche mese torneranno a guadagnare, magari anche più di prima. La bancorotta di Aig avrebbe avuto ripercussioni devastanti sull'economia reale. Bernanke e Paulson hanno mandato un messagguio chiaro a Wall Street e all'economia Usa: non sono disposti a utilizzare i soldi dei contribuenti per salvare tutti, ma sanno discernere con attenzione caso per caso.

Il rischio del fallimento è essenziale per l'efficienza del sistema economico e non può essere azzerato da troppi salvataggi statali, che finirebbero per provocare un effetto domino, anziché prevenirlo. Salvando alcune istituzioni finanziarie e altre no, la Fed e il Tesoro Usa intendono penalizzare i loro comportamenti spericolati e irresponsabili, ma allo stesso tempo cercando il più possibile di proteggere l'economia reale dalle conseguenze dell'instabilità finanziaria. Il governo Usa si muove con l'autorità e il pragmatismo di chi non può certo essere accusato di statalismo. La Fed si è avvalsa, credo per la seconda volta nella sua storia, di una clausola "d'emergenza" prevista dal suo statuto solo in casi eccezionali.

Capita che gli operatori economici e finanziari superino il confine oltre il quale il rischio, fisiologico in ogni attività economica, diventa un azzardo. Queste crisi - passando attraverso salvataggi onerosi per i governi, dunque per i contribuenti, e dolorosi fallimenti - servono al sistema per ritrovare quel confine e darsi nuove e migliori regole.

A parte il fatto che molti vedono nell'America solo il mito negativo del reaganismo, ignorando che dagli anni '30 agli anni '70 i governi Usa hanno fatto un massiccio ricorso all'intervento statale e che nei decenni la Corte Suprema ha avallato interpretazioni espansive dei poteri del governo centrale, a parte questo, sì: la nazionalizzazione di Aig è l'eccezione che conferma la regola, gli Stati Uniti rimangono una nazione liberale e l'economia di mercato funziona (non è per un paio di schiaffoni che un genitore dai metodi delicati diventa un violento); Alitalia compagnia statale rimane uno dei tanti scandali di un'economia solo parzialmente libera.

Toccando il gigante delle assicurazioni la crisi finanziaria partita dai mutui subprime sembra aver raggiunto un secondo, preoccupante, stadio. Se volete un resoconto puntuale di come si è innescata e sviluppata la crisi vi segnalo Nicola Porro, su il Giornale.
«Di fronte a questo scenario ci sono due poli opposti di intervento. Lo Stato (quello americano) si prende in casa i rischi e ne sopporta gli eventuali costi. Oppure lascia fallire gli improvvidi. La via scelta per ora sembra una strada di mezzo. Contribuire al salvataggio del possibile e soprattutto di quelle istituzioni il cui crollo avrebbe maggiori impatti sociali. Aig fa parte di queste ultime».
Andiamo incontro ad un'altra Grande Depressione come quella del 1929? Sembrerebbe di no, ma se fate fatica a tranquillizzarvi vi consiglio Alberto Alesina, su Il Sole24 Ore di oggi, che elenca gli errori da non ripetere.
«I dipendenti di Lehman Brothers che lasciano con gli scatoloni gli uffici ricordano le immagini della crisi del 1929 e i media hanno subito sfruttato l'analogia. Ma il paragone è errato: il crollo finanziario del'29 si tramutò in una tremenda recessione per clamorosi errori di politica economica. Dato che questi sbagli non sembrano ripetersi, la crisi finanziaria di oggi potrà avere sì delle conseguenze sull'economia reale, ma nulla di paragonabile ad allora».

Tuesday, September 16, 2008

Il libero mercato è vivo e in mezzo a noi

Almeno una generazione di italiani ha girato il mondo come se Alitalia non fosse esistita

«Il fallimento, nel libero mercato, è la giusta sanzione che condiziona positivamente la condotta degli attori, e contribuisce a lenire il rischio di comportamenti opportunistici. Che si lasci cadere nell'abisso una grande banca d'affari come Lehman è una prova di maturità, proprio come non lo è, simmetricamente, considerare inconcepibile il fallimento di una compagnia aerea di medie dimensioni. Se, nella tragedia, possa essere un segnale persino incoraggiante, per ristabilire i corretti incentivi di mercato, lo sapremo solo fra un po'». Parole come al solito condivisibili, quelle di Alberto Mingardi su il Riformista di oggi.

I salvataggi a spese dello stato sono sempre un «azzardo», economico prima che «morale». Se gli operatori economici avvertono che «i costi vengono sostenuti dalla collettività», allora «possono sentirsi incentivati ad intraprendere comportamenti eccessivamente rischiosi».

C'è chi assistendo alla bancarotta della Lehman Brothers crederà di vedere la fine di un mondo, il fallimento del libero mercato e del capitalismo. "Finalmente", esclamerà tirandosi qualche sega (scusate la volgarità). Altri con un sorrisetto compiaciuto da professorini, alla Tremonti, osserveranno che il mercato da solo non basta, ci vuole l'intervento statale, o in modo più politicamente corretto "la" politica.

Eppure la bancarotta della Lehman Brothers non è il segno del fallimento, bensì del corretto funzionamento del libero mercato in un passaggio di crisi. Gli impiegati della Lehman non si arroccano nei loro uffici chiedendo l'intervento pubblico, come accadrebbe in Italia, ma raccolgono in uno scatolone i loro effetti personali e se ne vanno, pure con una certa fretta, che' nuove opportunità sono dinanzi a loro.

Anche la nazionalizzazione di Fannie Mae e Freddie Mac da parte del governo Usa ha galvanizzato politici e commentatori statalisti. Ma quanti sanno, e quanti hanno taciuto, che Fannie Mae e Freddie Mac erano colossi para-statali, e che la loro bancarotta è un fallimento non del libero mercato, bensì proprio di quel po' di interventismo statale e di politica sociale che c'è in America? A chi è capitato di leggere o ascoltare sui mainstream media le considerazioni di Marco Taradash?
«... sono nate da una scelta politica, per favorire la diffusione più ampia possibile della proprietà immobiliare negli Usa, con miliardi di dollari di linee di credito garantite dallo stato, tassi di credito di favore da parte della Fed, esenzione fiscale a livello statale e federale, e soprattutto, una garanzia di fatto assoluta di non fallire. L'effetto di questo sistema è la crisi finanziaria in corso da mesi. Freddie e Fannie sono state gestite irresponsabilmente, hanno diffuso irresponsabilità nell'intero sistema bancario americano, hanno fatto dilagare l'irresponsabilità fra i cittadini americani. Questi due istituti sono stati tenuti in vita artificialmente grazie a un enorme e costosissimo lavorio di lobby, grazie al loro essere una gallina dalle uova d'oro per decine di uomini politici, quasi tutti democratici, in attività o in pensione, e soprattutto, grazie ai falsi in bilancio».
Una versione confermata da Alberto Bisin, tra i pochi a raccontare la vera storia di Fannie Mae e Freddie Mac. Sebbene formalmente società private, si sono comportate come istituti para-statali:
«La loro origine è pubblica. Fannie Mae è stata creata nel 1938 dal governo per rendere liquido il mercato secondario dei mutui. Ha operato in condizioni di monopolio fino alla fine degli anni '60, quando è stata privatizzata, e Freddie Mac è stata fondata dal Congresso per garantire una qualche forma di concorrenza nel mercato. Nonostante entrambe le società fossero private dagli anni '70 in poi, la loro origine pubblica ha fatto sì che esse ricevessero notevoli vantaggi ed esenzioni fiscali, stimate in circa 6,5 miliardi di dollari l'anno. Ma soprattutto, l'origine pubblica delle due società ha fatto sì che esse godessero di una generalmente riconosciuta "implicita garanzia pubblica". Questa implicita garanzia si è manifestata nella loro capacità di indebitarsi ad interessi passivi vicini a quelli pagati dal governo federale americano sul debito pubblico; interessi quindi notevolmente inferiori a quelli pagati da qualunque altra società privata. Un esempio da manuale di quello che in Italia si chiama privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite. Naturalmente, ogni società che operi in regime di socializzazione delle perdite tende a prendere rischi eccessivi e decisioni inefficienti... Fino alla crisi dei mercati finanziari e immobiliari del 2007 (che non hanno saputo prevedere e che hanno sottovalutato), Fannie Mae e Freddie Mac si sono ingrandite indebitandosi enormemente, hanno arricchito un management fallimentare, hanno generosamente remunerato i propri azionisti, e hanno ripetutamente commesso falso in bilancio... Le vicende di Fannie Mae e Freddie Mac e di Alitalia dimostrano solo che società cui sia garantita la socializzazione delle perdite finiscono inevitabilmente per fare grosse perdite. Questo è vero negli Stati Uniti come in Italia».
Ma che c'è di male, allora, a salvare Alitalia? Il fatto è che non si tratta di alcun «salvataggio», a ben vedere. Nazionalizzando i due colossi dei mutui il governo degli Stati Uniti ha di fatto evitato che un danno provocato nel corso dei decenni da sbagliate politiche pubbliche avesse effetti ancor più catastrofici su una crisi finanziaria che proprio la condotta irresponsabile delle para-statali Freddie e Fannie ha contribuito a innescare.

Il fallimento di Alitalia non avrebbe alcun contraccolpo sulla nostra economia. Ogni anno migliaia di lavoratori in Italia perdono il posto senza ricevere le attenzioni che stanno ricevendo i piloti della nostra compagnia di bandierina ed esiste almeno una intera generazione di italiani (diciamo chi ha avuto tra i 20 e i 30 anni negli anni '90 e 2000), che non ha mai neanche lontanamente immaginato di volare con Alitalia. Sarebbe potuta anche non esistere affatto, ma quelle generazioni avrebbero comunque girato l'Europa e il mondo a prezzi bassissimi come nessuna generazione prima di loro. In effetti il governo italiano non sta operando alcun «salvataggio», ma sta piuttosto garantendo «ad una nuova compagnia privata condizioni di monopolio sulle rotte interne che sarebbero altrimenti state coperte da altre compagnie in condizioni di concorrenza», ha osservato Bisin.