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Saturday, November 19, 2005

Bush ci fa aprire gli occhi sulla Cina

Mi sembra che l'editoriale di oggi sul Wall Street Journal riassuma in modo esauriente e preciso la strategia di Bush con la Cina. Gli Stati Uniti curano una nuova coalizione di volenterosi in Asia. Nessuna nuova Guerra Fredda, ma si tratta di rassicurare e organizzare gli alleati per contenere le ambizioni cinesi di divenire egemone nella regione. Occorre chiarire a Pechino che gli Stati Uniti hanno amici molto vicini nella regione e che non rinunciano a tutelare i propri interessi. Le parole pronunciate da Bush all'indirizzo della Cina da Kyoto (tradotte su Il Foglio), completano la strategia, indicando a Pechino la via da seguire per far cadere i sospetti dell'America, dei paesi asiatici e del resto della comunità internazionale.

«Noi incoraggiamo la Cina a continuare per la strada delle riforme e dell'apertura - perché quanto più la Cina sarà libera al suo interno, tanto più sarà benvenuta all'estero». Con questo facendo capire che tutti gli occhi degli Stati Uniti e dei suoi alleati in Asia sono puntati su di essa. «Al crescere della prosperità del popolo della Cina, cresceranno anche le domande di libertà politica. Venendo incontro a quelle legittime domande dei suoi cittadini per libertà e apertura, i leader della Cina possono aiutare il loro paese a divenire una nazione moderna, prospera e sicura». Il messaggio è stato lanciato in modo esplicito alla Cina, con il mondo testimone:
Non guadagnerà la fiducia del mondo finché non farà i passi necessari a garantire ai suoi cittadini i loro diritti alla libera espressione e alla tutela della legge. La Cina sta reclamando in modo pressante il suo status di grande potenza, ma non sarà accettata dalle democrazie del mondo finché non farà riforme democratiche. Bush ha voluto chiaramente sottolineare che l'Asia ha solide democrazie che sono più inclini a stare dalla parte degli Stati Uniti che dalla parte della Cina in ogni confronto.
Anche se forse il titolo eccede in enfasi («Mister Hu, butta giù quella Muraglia»), l'articolo di Christian Rocca su Il Foglio spiega bene che quello di Bush è stato un «appello alla libertà del popolo cinese, all'apertura democratica della sua società e al modello di "Free China" rappresentato da Taiwan». Il passaggio in cui Bush loda lo sviluppo economico e democratico di Taiwan è senz'altro uno schiaffo in faccia a Pechino. E nel riferimento alla «free and democratic Chinese society» Bush senz'altro ha voluto intendere, come dice 1972, che «non esiste un'eccezione cinese». Eppure, definendo Taiwan una Chinese society ha utilizzato comunque un'espressione molto diplomatica, considerando quanto Pechino tiene a ribadire che Taiwan è Cina a tutti gli effetti.

Emerge con sempre maggiore evidenza quanto la fiducia riposta dai clintoniani nell'automatismo aperture economiche-riforme democratiche si stia rivelando sempre più un'illusione. Oggi «le relazioni sino-americane non sono né costruttive né cooperative né franche e si ha la prova che le riforme economiche non portano necessariamente la democrazia, non sono condizioni sufficienti per ottenere un miglioramento dei diritti politici e civili». Anzi, si registra un «peggioramento», con «situazioni molto critiche sul fronte della libertà religiosa e di espressione, sui diritti dei lavoratori, sulla pianificazione familiare, sullo stato di diritto e sulla società civile». In America sono sempre più persuasi che «non c'è nessuna speranza che la Cina si democratizzi da sola, senza la pressione morale e l'incoraggiamento tecnico delle democrazie mondiali».

Come sempre Rocca descrive con estrema chiarezza il dibattito che si svolge a Washington: da una parte «chi sostiene che rinviare la presa d'atto della minaccia cinese sia un errore», dall'altra «chi, come i clintoniani e i kissingeriani, crede sia meglio aiutarne la crescita e provare a farseli amici. Bush si barcamena, ma anche in questo caso l'approccio più pragmatico, cioè affrontare il problema, sembra coincidere con la spinta a promuovere una società democratica».

Il nodo di Taiwan verrebbe al pettine con un Anschluss degli anni duemila, ma il mix esplosivo che si sta preparando in Cina è fatto di sviluppo economico, nazionalismo, riarmo e imminente ingresso delle masse in politica. Nel secolo scorso un mix simile degenerò nel cuore dell'Europa. Sarà decisivo l'ultimo fattore: le masse faranno il loro ingresso in un sistema politico ideologico e nazionalista o minimamente aperto e democratico? Promuovere una società democratica in Cina non vuol dire minacciare di dichiararle guerra, ma mettere fin d'ora in campo politiche coerenti con l'obiettivo, senza illudersi che tutto verrà da sé.

La vera «utopia» oggi, sottolinea André Glucksmann a Il Foglio, «sta nella vecchia posizione del governo americano e in quella attuale dell'Unione Europea»: che poco importano i diritti umani, «quello che conta in Cina è la modernizzazione che col tempo porterà allo svilluppo della libertà». Finora ha prodotto solo schiavismo, di contadini e operai.

Il contributo dell'analisi di Glucksmann sta nel rivelare l'eccezionalismo del fenomeno cinese, non paragonabile ad altri casi in cui la liberalizzazione economica e lo sviluppo hanno portato anche le riforme democratiche. In Cina non è detto che avvenga e l'attuale leadership non è intenzionata a intraprendere questa strada. Sa che un'altra via, quella attuale, è percorribile. La via di un sistema che sa combinare una struttura schiavistica con i vantaggi della scienza e della tecnologia moderna e della finanza internazionale. Tutto questo messo al servizio dell'ideologia intrinsecamente nazionalista e militarista delle classi dirigenti cinesi.
«E' riuscita a essere uno Stato ipertecnologico, iperscientifico, ipermoderno, in grado di regolare perfettamente i flussi finanziari, rimanendo al tempo stesso uno Stato schiavistico di tipo faraonico. Da un lato, i grattacieli di Shangai salgono fino al cielo dall'altro i contadini che si sfiniscono a costruirli se solo osano mettersi a lottare vengono subito rispediti nelle loro province. Vivono senza diritti e nella miseria, in una condizione medievale, anzi da impero egizio dei faraoni, perché nel Medio Evo, malgrado tutto, esistevano restrizioni cristiane al martirio dei senza grado».
Sbagliato quindi ragionare secondo gli schemi del '900.
«Non possiamo lasciare sviluppare uno Stato faraonico con tutte le risorse di scienza, tecnica e finanza, senza allertare l'opinione mondiale... Meglio dire la verità».

2 comments:

Anonymous said...

è un bellissimo blog, complimenti.
CIAO

Anonymous said...

Glucksmann farebbe bene a lasciar stare il paragone con l'Egitto faraonico, perché non regge. Primo perché non specifica di quale periodo va cianciando, visto che la storia dell'antico Egitto è lunga 3000 anni, con una frequente alternanza di crisi e fioriture. Secondo perché l'Egitto faraonico, rispetto al resto delle società del mondo antico, era una civiltà avanzatissima, in cui, tanto per fare un esempio, una donna poteva addirittura diventare faraone.

E, tanto per essere precisi, in Egitto non sono mai esistiti gli schiavi. Le piramidi sono state costruite da operai PAGATI (e a volte anche scioperanti). Tutto registrato, comprovato e dimostrato.

Perciò Glucksmann avrebbe dovuto scegliere un altro paragone, che magari non ci faceva 'sta magra figura.