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Wednesday, November 23, 2005

Il paese che non ce la farà

L'impietoso quadro disegnato da Ferrucio De Bortoli sulla realtà economica italiana coincide non a caso con la nervosa vigilia della pubblicazione, giovedì, dell'inchiesta dell'Economist sullo stato del nostro paese, che si preannuncia drammatico. Non si tratta stavolta di definire unfit a governare Berlusconi o Prodi, ma unfit l'intero paese a stare nel mondo di oggi.
«Guardando alla qualità, risibile, del nostro confronto sui temi della concorrenza e della crescita viene il dubbio che qualunque sia il risultato delle prossime elezioni la situazione non cambi. O cambi poco. L'interrogativo è dunque se non vi siano ancora nel nostro paese troppe riserve sull'economia di mercato e se non sopravvivano molte tossine antindustriali delle due principali eredità politico-culturali del dopoguerra, quella socialista-comunista e quella cattolica. In altre parole, se la cultura prevalente non conservi una resistente riserva mentale sui valori dell'impresa e della imprenditorialità.
(...)
In un Paese come il nostro, nel quale le relazioni contano più dei risultati, le amicizie più del merito, le consorterie più delle scuole, l'impresa anziché essere al primo posto, protagonista dello sviluppo, si ritrova spesso nello scomodo ruolo dell'ospite».
Del «verdetto» dell'Economist ha cominciato a parlare Antonio Polito, osservando che l'antipatico direttore Bill Emmott su una cosa ha ragione:
«Le maggiori istituzioni della storia italiana recente non sono mai state a favore dei valori di mercato... a differenza della Gran Bretagna, la società italiana non possiede in sé nessuna istintiva affinità con valori come la competizione e il mercato».
Il Financial Times, quotidiano certo non di sinistra, osserva che le «priorità» di Berlusconi - come la ex Cirielli e la riforma elettorale, cioè «il ritorno al vecchio sistema proporzionale che ha prodotto governi cronicamente instabili per 45 anni» - «mettono in pericolo le riforme». Mentre le priorità dell'Italia sarebbero altre: stagnazione economica, perdita di competitività, regressione del reddito nazionale (fra cinque anni saremo superati dalla Spagna, sostiene l'Economist).

Berlusconi «ha sprecato una grande opportunità di riforme economiche» per inseguire «priorità troppo spesso di natura personale o di miope politica di partito», dice a il Riformista l'autore dello studio dell'Economist sull'Italia, John Peet.
«Ha promesso molto e fatto poco. Non ha affrontato quegli interessi costituiti, quelle lobbies, che frenano la trasformazione del paese in un'economia più moderna e dinamica. A me l'Italia è parsa immersa in guai seri. La crisi della sua economia appare strutturale, non solo condizionata da fattori contigenti. Diciamo che le grandi tendenze dell'economia globalizzata rischiano di mettere ai margini un paese che non ha fatto in tempo i mutamenti che erano necessari».
E Prodi? Naaaa. Non appare certo come un «natural believer» nelle teorie del free market, nei confronti delle quali appare anzi sospettoso. E poi c'è la coalizione, con ben due partiti che oltremanica non esitano a definire «unriformed communist».

Competitività delle imprese; costo dei servizi (banche ed energia); costo e rigidità del lavoro; contrazione della forza lavoro; crisi della previdenza e del debito pubblico. Sono tutti i punti critici del nostro sistema che richiedono un approccio liberale che Berlusconi ha disatteso e da cui il centrosinistra è ancora lontanissimo. Se siamo di meno a lavorare e lavoriamo meno ore come possiamo pretendere il benessere di chi lavora di più? Chi per cultura e per volontà potrebbe liberare il paese dal peso delle lobby, delle corporazioni, degli interessi protetti? Chi può attuare l'"agenda Giavazzi"?

Prendiamo la riforma della previdenza complementare. E' stata fatta la scelta illiberale di regalare il monopolio del tfr a sindacati e padronati senza tenere in nessun conto la volontà e il diritto a scegliere dei lavoratori, cui il tfr apparterrebbe. E' il liberalsocialista Giuliano Cazzola ad avvertire «l'esigenza di fare del lavoratore - come singolo - un soggetto capace di scegliere e decidere in proprio, senza padrini né tutori».
«L'esperienza, fino ad ora compiuta, sta a dimostrare, con i suoi limiti, che una maggiore concorrenza, nel contesto dell'offerta di un'effettiva articolazione di opportunità, renderebbe più efficiente ed esteso il sistema della previdenza complementare. Sbagliano, invece, le parti sociali a rivendicare un primato che non hanno la forza e la capacità organizzativa di gestire, in condizioni di sostanziale monopolio».
Non bisogna temere di chiamare le cose con il loro nome: dire che dalla casa e dalla previdenza dovrebbe ripartire il rilancio della nostra società come una società di proprietari e di servizi. Proprietà è sicurezza, stabilità, benessere, risorse da destinare ai non-proprietari e agli esclusi per far sì che lo siano temporaneamente. L'idea alla base del vasto programma di riforme "di sinistra" della presidenza Bush negli Stati Uniti. Che si coniuga bene con l'approccio liberale e blairiano dell'Enabling State. Lo Stato che "abilita": accresce le facoltà e le opportunità degli individui secondo l'inscindibile binomio libertà-responsabilità e rende i cittadini capaci di scegliere e decidere in proprio, senza padrini né tutori («Possiamo creare delle opportunità, ma non possiamo gestire le vite o gli affari delle persone»). Education, education, education e lotta dura contro i privilegi, contro tutti i privilegi, sono le vere questioni sociali (e radicali) di oggi.

Se solo la sinistra si liberasse della cultura catto-comunista che rischia di portare nel XXI secolo l'arretrato pregiudizio antimercato, e se i semi liberali venissero fatti germogliare senza timore da parte dei partiti di perdere posizioni acquisite, vi sarebbe almeno una chance di approdare a un sistema politico secondo uno schema destra conservatrice/sinistra liberale. Il nodo da sciogliere, che farà la differenza tra il fallire e il riuscire, lo ha indicato oggi Oscar Giannino su il Riformista: fare ministri i liberali. Altrimenti, saranno soltanto parole quando va bene, o grida contro la "macelleria sociale" quando va male.

«Per noi le libertà non possono essere distinte dalle responsabilità, i diritti non possono essere disgiunti dai doveri». (Emma Bonino)

4 comments:

JimMomo said...

Però si può lavorare ai fianchi, no? Credi che durino molto Berlusconi e Prodi? Teniamoci pronti :-))

Anonymous said...

Il problema non riguarda solo le incapacità di Berlusconi o di Prodi...una rivoluzione Liberale e Liberista richiede alfabetizzazione al riguardo.....mentre in un paese come il nostro in cui, ancora un decennio fa, si andava in pensione da insegnanti a 51 anni...è difficile da far accettare un sistema economico basato sì sulla libertà, ma anche su di una maggiore responsabilità individuale...noi viviamo ancora in un Paese in cui è vivida l'immagine che usava Bastiat:" Lo Stato è l'illusione attraverso la quale tutti cercano di vivere alle spalle di tutti gli altri"....

Carletto Darwin said...

Condivido come sempre le analisi dell'Economist e del FT. Non mi va di dimenticarmi delle prese in giro fatte da Tremonti e dal nano. Con apparizioni televisive e interviste in cui per ANNI si mascheravano i problemi.
Lo diciamo una volta per tutte: vi hanno venduto il sogno di un liberale, che invece era un uomo di trust. Uno che non conosce le dinamiche di mercate, perchè è cresciuto in un mondo di lobby e amicizie.
In quanti ci avete creduto. In quanti. Mi dispiace per il risveglio (e di quello di Pannella sono contento), ma cinque anni buttati sono tremendi. Sono i 5 anni dell'Euro e della Cina nel WTO, dell'europa orientale e della Russia moderna.
Ragazzi, siamo fuori. Abbiamo perso il treno. Però che bello il contratto firmato da Vespa.

Anonymous said...

Massì, sono d'accordo. Il punto è che Prodi è sicuramente peggiore di un Berlusconi: il suo governo i Martino li manderebbe al confino (in realtà no: ma peggio, di fatto). Mentre un Berlusconi bis forse preparerebbe meglio il paese alla transizione liberale necessaria. E' la mia idea, anche se vedo che la pratica è ancora diversa: in realtà è tutto il ns. sistema paese che è saldo a vendere: in Liguria vedo le municipalizzate e le società dell'acqua che passano ai francesi... so che i tedeschi devono risalire la china... Mi sembra insomma che ci sia poco da fare, a Roma, se non investimenti nella ricerca, ma molto in sede internazionale. Le liberalizzazioni sono asservite a questo quadro...
Paolo di lautreamont