Al Partito Radicale va il merito di dare voce ai dissidenti e ai democratici di tutto il mondo in quel convegno, che si svolge annualmente a Bruxelles, ormai diventato una sorta di congresso mondiale dei popoli oppressi. Quest'anno l'obiettivo era il rilancio nel 2008 del "Primo Satyagraha Mondiale per la Pace". Tuttavia, perché questo appuntamento non si riduca a mera passerella – comunque importante – di dissidenti, i radicali dovrebbero sforzarsi di approfondire le loro analisi e le loro proposte per le aree di crisi del pianeta, laddove manca la democrazia e i diritti umani vengono calpestati. La mozione generale approvata non aiuta. L'approccio è suggestivo, ma generico, non calato nelle diverse realtà. Il direttore di Radio Radicale, Massimo Bordin, è stato forse l'unico a prendere di petto le ambiguità.
Innanzitutto, la mozione definisce la nonviolenza «come l'unico strumento politico» di affermazione dei diritti umani e di alternativa alla guerra. La si presenta come "terza via" tra il pacifismo (insufficiente, spesso nociva invocazione della pace) e l'uso dello strumento militare, che «congiuntamente» perpetuano oppressione e conflitti. Autorevoli studi dimostrano in effetti come la nonviolenza sia particolarmente efficace nel promuovere la democrazia in presenza di determinati contesti e condizioni. Tuttavia, mi sembra illusorio evocare "terze vie". Continuo a vedere la solita bipartizione: da una parte i nemici della democrazia (più o meno dichiarati, o inconsapevoli, come i genuini pacifisti); dall'altra chi si batte per la democrazia, cercando di volta in volta di calibrare il giusto mix di strumenti, violenti e nonviolenti (hard e soft power). Prima bisogna scegliere chiaramente il campo in cui si gioca, poi discutere la strategia.
Il riferimento a Kant rende i radicali più figli di "questa" Europa. Gli europei, condizionati dal lungo periodo di pace e benessere coinciso con il processo di integrazione, si sentono in "un paradiso post-storico", sembrano proiettare sul mondo l'immagine della "pace perpetua" kantiana, credono, confondendo desideri e realtà, che la storia porti inevitabilmente non solo loro, ma tutto il mondo, in quella direzione. Una sorta di disegno della provvidenza europea, di messianismo kantiano. Gli Stati Uniti, invece, rimangono "impantanati nella storia", si muovono secondo una concezione hobbesiana delle relazioni internazionali, quella dell'"homo homini lupus", in cui la sicurezza, la difesa e la promozione dei valori liberali dipendono ancora in modo preponderante dal possesso e dall'uso della forza militare.
Ma quanto quella europea sia solo un'illusione ottica, lo dimostra il fatto, del tutto trascurato, che questo lungo periodo di pace e benessere è stato ed è ancora oggi possibile grazie all'"ombrello protettivo" della potenza economica, tecnologica, militare degli Stati Uniti. Se osserviamo i comportamenti degli stati, molti non rispettano le leggi internazionali, né la dichiarazione dei diritti dell'uomo delle Nazioni Unite, di cui pure sono membri. Se la democrazia ha trionfato all'interno, dimostrando la possibilità di un'organizzazione statuale diversa dal modello autoritario del Leviatano hobbesiano, sulla scena internazionale ci troviamo ancora in uno stato di natura in cui vale l'"homo homini lupus". La legge della giungla non è certo la premessa inevitabile della convivenza umana, neanche tra gli stati. Lo è, però, ad oggi. Da questa diversa visione del mondo scaturiscono quelle differenze che Robert Kagan riassumeva definendo l'Europa simile a Venere e l'America a Marte. Su questo approccio di fondo non bisogna illudersi troppo sulle distinzioni tra le diverse amministrazioni Usa.
Un'altra impostazione di fondo dei radicali è la convinzione che il carattere nazionale e il principio della sovranità assoluta degli stati siano «cause strutturali» delle guerre e della violazione dei diritti umani. Come alternativa politica e istituzionale allo Stato-nazione propongono quindi «una strutturale Riforma democratica e federalista dei Territori, delle Regioni, degli Stati nazionali devastati da guerre, da fame, da dittature».
E' vero: spesso lo Stato nazionale realizza l'aberrazione di consolidare, anziché rimuovere, la negazione dei diritti individuali e della democrazia. Per molti versi la soluzione "due popoli, due Stati" al conflitto israelo-palestinese appare anti-storica. Anche se bisognerebbe riconoscere che con la presidenza Bush si è cominciata a specificare la condizione, cara ai radicali, "due democrazie".
Ma nella loro lettura di superamento dello Stato-nazione i radicali non sembrano fare differenza tra Europa, Medio Oriente e Asia, né sforzarsi di adattare il loro modello a realtà molto diverse tra loro. Sono convinto che l'ingresso della Turchia nell'Ue sia una necessità strategica, ma non altrettanto che gli europei che chiedono di affrontare il discorso dei confini geografici dell'Europa siano dei nazionalisti. Proprio perché l'Unione europea nasce per dare al continente non una patria, ma un futuro di pace, democrazia, godimento dei diritti individuali, prosperità, non avremo mai una «patria europea», ma qualcosa di diverso. Le identità nazionali continueranno ad essere avvertite, semmai l'urgenza federalista si avverte a livello istituzionale, per dotare l'Unione della necessaria legittimità democratica, oggi carente. Per questo i federalisti, di fronte al prevalere del modello inter-governativo anche tra gli esponenti politici più europeisti, dovrebbero piuttosto collocarsi nel campo degli euroscettici.
Non m'interessa qui tracciare confini, ma l'adesione all'Ue non può essere il naturale sbocco di qualsiasi popolo per il solo fatto di scegliere per sé un futuro democratico. A questo scopo servirebbe una "Lega delle democrazie". Dell'Europa fanno parte molte nazioni. Non è certo un "club cristiano", ma è un "club" di democrazie e un mercato libero. Condizioni necessarie ma non sufficienti per poter entrare in Europa. Esiste una storia comune, di cui fa parte anche la Turchia. Più discutibile che ne facciano parte il vicino Oriente e il Nord Africa.
Qualunque sia il confine geografico dove si ritenga di attestare l'Europa, la sua forza di attrazione democratica può essere esercitata non solo a colpi di allargamento. Non è detto che per continuare a incoraggiare processi democratici l'Ue debba estendere a dismisura i suoi confini e spalancare a chiunque le sue porte. Può anche rappresentare un modello per altri processi di integrazione: ad esempio, per l'Africa. Le proposte di Israele nell'Ue e di una confederazione tra Egitto, Giordania, Libano, Palestina e Israele, che i radicali presentano come un'unica soluzione, a me sembrano due soluzioni, entrambe fondate, ma che seguono logiche differenti, se non antitetiche.
Ai radicali sfugge che l'idea di nazione è da tempo in declino nel mondo arabo, dopo i fallimenti di Nasser, Mubarak, Saddam, Gheddafi e Assad. Il loro nazionalismo non ha prodotto i risultati sperati in termini di modernizzazione, tali da porre in essere una sfida all'Occidente, né ha risvegliato una nazione panaraba. Sottovalutano il fatto che il virus più aggressivo oggi circolante nella regione non è il nazionalismo, ma è quello dell'islamizzazione delle masse e del progetto "transnazionale" di umma musulmana. Il problema è che gli arabi e gli iraniani più che combattere per uno Stato nazionale palestinese combattono in nome di una ideologia politica fondata sulla loro identità religiosa.
La diffidenza "spinelliana" nei confronti dello Stato-nazione era giustificata dal fatto che proprio l'idea di nazione fosse alla base di quel fenomeno, che lo storico George L. Mosse chiamò nazionalizzazione delle masse, che offrì il contesto socio-culturale e ideologico ideale per l'ascesa dei movimenti nazisti e fascisti in Europa. La funzione che ebbe in Europa la nazionalizzazione delle masse negli anni '10, '20 e '30 del '900, rischia di averla nel mondo musulmano l'islamizzazione delle masse.
Si potrebbe anche discutere a lungo del legame positivo - purtroppo per lo più trascurato nell'elaborazione e nella realizzazione di molti esperimenti sovranazionali - che c'è tra democrazia rappresentativa e nazione. La democrazia è tanto più funzionante quanto più riconosciuta, praticata, "controllata" dal basso, scelta da individui che hanno consapevolezza del proprio essere comunità in un territorio geograficamente delimitato e in un dato momento storico, e che riconoscono se stessi nei propri rappresentanti. Maggiore la corrispondenza, l'identificazione con gli eletti come propri simili (al di là delle differenze politiche), più salda è la democrazia. Gli esempi storici ci dimostrano che spesso, rotto quel legame, ci si allontana dagli standard democratici.
Infine, promuovendo democrazia e diritti umani, i radicali non possono far finta di non essere al governo. Il ministro Bonino che accetta supinamente la posizione della Farnesina, volta a negare valore politico a qualsiasi incontro con il Dalai Lama, o il suo silenzio assordante, durante la visita in Cina, quando Prodi si disse a favore della revoca dell'embargo europeo sulle armi (al convegno di Bruxelles il cinese Wei Jingsheng e la uigura Rebiya Kadeer hanno scongiurato di non revocarlo), pongono un problema. Non è vero, come dice Pannella, che «nessuno può imputare alcunché ai radicali», perché hanno «tutte le credenziali». Quelle credenziali vanno rinnovate di giorno in giorno, mentre la loro presenza al governo, e il modo di interpretarla, hanno messo in crisi la loro credibilità. Nel '94 convinsero Berlusconi a incontrare il Dalai Lama. Il guaio, oggi, non è tanto non esserci riusciti con Prodi, quanto il non aver nemmeno tentato.
9 comments:
Dunque, lo sbobbone lunghissimo non sono riuscito a leggerlo tutto, però mi ha colpito una cosa, molto tranchant: io che sono un pacifista sarei nemico della democrazia, fantastico... cioè voi non so come definirvi... radicali, liberali, filocristianrocchiani, amebe di gioielli pensanti come... (come si chiama l'uomo lupo?) wolfowitz... siete la vera avanguardia... illuminate con le vostre disamine di politica scientifica e vi divertite a dare patenti di circolazione esistenziale un po' a tutti, è ovvio che noi ci si senta a disagio di fronte a cotanta maestà
non so se piangere o ridere in effetti, mi farò consigliare da qualche messia kantiano
ma mi speghi una cosa, o forse me la spiega pannella perché non l'ho ancora capita, la differenza fra non violenza e pacifismo. a mente ricordo che i non violenti radicali hanno fortemente caldeggiato l'intervento militare di bush in iraq, sperano in quello in iran e rimipangono che in vietnam non siano andati fino in fondo... mi sfugge qualcosa rimasto incompiuto a hiroshima?
insomma ci spieghi che i pannelliani sono un po' ideologici oltre che "clericali" nei modi?
Bella novità!
Che sono anche contraddittori?
E di chi se ne va con l'amico del democratico Vladimir che si può dire?
Le tue opinioni sul fascio Vladimiro sono note, ma una qualche critica verso il deputato di cui sopra, appena appena un po' contraddittotio pure lui?
Mamma mia, Federico!
;)
Enzo
"Autorevoli studi dimostrano in effetti come la nonviolenza sia particolarmente efficace nel promuovere la democrazia in presenza di determinati contesti e condizioni".
Sarebbe d'uopo citarli. Giusto perchè così, l'affermazione sembra una cazzata.
aa
qui uno studio empirico di "Freedom House": http://www.freedomhouse.org/uploads/special_report/29.pdf
adriano dicci: come impedire al tiranno iraniano di continuare a massacrare omosex., donne e dissidenti.?
Dicci amico pacifista che fare?
non criticare solo, non invocare solo peace&love: proponi soluzioni, tattiche , strategie, mezzi e metodi.
Insomma sii propositivo e piantala di dileggiare se puoi se ti riesce, come dice Crozza "poco poco" piantala!
Proponi siamo in attesa noi lupi cattivi neocon alla matriciana.
Siamo in attesa di illuminanti orizzonti cui volgerci.
Dalla sinistra liberal siamo emigrati alla destra , non sai come vorremmo poter tornare a fianco dei pacifisti, ma siamo esigenti: le bandierine arcobaleno, le deprecazioni della guerra non ci bastano: vogliamo idee che ci conquistino, analisi che ci convincano e soluzioni che ci sembrino praticabili
alessaNdro
lo studio di freedom house non dimostra, dice. Dice che la democratizzazzione avviene spesso in concomitanza con movimenti non-violenti. Questa sia chiama correlazione. La causazione è tutta da dimostrare.
Le due cose non seguono. Lo studio di freedom house ci dice quanto è avvenuto in passato. Non è in grado di dirci quanto accadrà in futuro. Per quello servono teorie. E freedom house non fa teorie. Fa ottimi studi empirici.
aa
Caro ale
non saprei, non ho la soluzione, a occhio mi sembra che ovunque si voglia imporre il nostro sistema economico in primis e poi quello politico le cose prendono una brutta piega. In pochi si arricchiscono, molti sopravvivono come possono, le divergenze sociali si acuiscono, la frustrazione raggiunge livelli di guardia così come l'odio e la violenza, soprattutto quella subdola che comincia dalle famiglie e nelle scuole, in cui ti si incute subito il senso del dover arrivare, di fare soldi, di emergere, di competere. La democrazia è un tipo diverso di dittatura, più sottile. Meno brutale sicuramente (gli oppositori non vegnono uccisi ma tacitati)
Quale sistema è migliore? Non lo so, certo preferisco vivere in una democrazia (non sono comunista e non vorrei mai vivere in un sistema di socialismo reale) ma se permetti voglio poterla contestare, questa democrazia, e soprattutto questo sistema economico, ammantato di falsa meritocrazia, caratterizzato invece da una spiccata sfacciataggine e impunità da parte dei soliti burattinai.
non ha lasciato la firma, non so perché, il post sopra è mio
ciao adriano
Post a Comment