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Monday, November 24, 2003

Ricordare John Fitzgerald Kennedy a 40 anni dalla morte significa fare i conti con il suo mito, con l'immagine distorta della sua figura che si è accreditata nel corso degli anni. Troppo spesso la ricostruzione storica e l'analisi di eventi e personaggi vengono inquinate dall'applicarvi parametri e giudizi infantilmente, o ideologicamente, legati ad una visione e ad un approccio moralistici. Pur di alimentare un mito che incarnasse aspirazioni e passioni politiche si è costruito sul carisma, sullo stile di vita, sulla morte del più giovane presidente Usa, soprattutto da parte di certa sinistra, un Kennedy che semplicemente non è esistito, ma che ha conquistato i cuori delle opinioni pubbliche colte e meno colte, giovani e meno giovani. Un Kennedy conciliante con i sovietici avendo a cuore innanzitutto la pace mondiale, per la quale scongiurò una guerra nucleare, un Kennedy che al primo posto della sua presidenza ha messo i diritti civili e la lotta alla povertà, un Kennedy che se non fosse stato ucciso non avrebbe cacciato l'America in quel brutto guaio in Vietnam, un Kennedy la cui azione politica fu sempre ispirata dal puro idealismo progressista e che diede il via alle grandi riforme di giustizia negli States. Questo Kennedy non è mai esistito e se questi sono i motivi per cui è ritenuto un grande presidente, fa bene chi riesce a dubitare, poiché forse i motivi per cui lo si può definire un buon presidente sono opposti.

JFK diviene presidente in un momento critico per gli Stati Uniti e per l'ordine internazionale. L'accelerazione del processo di decolonizzazione e di affrancamento dei popoli del Terzo mondo dagli ex imperi europei porta la sfida del comunismo in tutto il mondo, un avversario non più contenuto, ma che affiora in ogni parte del globo. Il nuovo tipo di competizione evidenzia il declino della pur valida, ma vecchia e stanca leadership Eisenhower-Dulles. Gli americani hanno una percezione di loro stessi nel sistema mondiale come fortemente indeboliti. Si vive un senso di insicurezza, di un'epoca alla fine, si coltiva la speranza e il bisogno di un nuovo inizio, di nuovi strumenti per il confronto con l'Urss guidata dall'irruente Kruscev. Il nuovo presidente è l'immagine della giovinezza, dell'opulenza, dell'intelligenza. La sua è una delle grandi famiglie dell'aristocrazia americana. La sua ambizione, la sua dedizione, il suo dinamismo, la sua fantasia, l'intraprendenza individuale e il suo pur discusso stile di vita colpiranno l'immaginario dei cittadini americani, nonostante Kennedy abbia battuto Nixon per un pugno di voti e il consenso intorno alla sua presidenza vedrà assottigliarsi nei primi due anni di mandato.

Ma di fronte alla nuova situazione internazionale, JFK sa raccogliere la nuova sfida del comunismo, è determinato a vincerla, con il famoso discorso sulla Nuova Frontiera caratterizza l'apertura del nuovo ciclo di cui gli americani sentono il bisogno. La dottrina della risposta flessibile sostituisce quella della rappresaglia massiccia, ma il presidente è convinto che alla sfida globale lanciata dai sovietici si risponde proiettando nel mondo la potenza americana con la totale mobilitazione delle energie della nazione. JFK sa che si tratta di competere col modello sovietico per portare nel proprio campo il maggior numero di popoli in via di decolonizzazione. Abbandona dunque l'atteggiamento pacato, soprattutto negli ultimi tempi, di Eisenhower: la politica del contenimento e dell'accerchiamento dell'avversario con sistemi di alleanze non paga più. La deterrenza si ottiene con la supremazia spaziale e militare, sia convenzionale, sia nucleare, quindi via al riarmo. Con 41 nuovi sottomarini nucleari e 700 nuovi Irbm a testata multipla Kennedy riarma l'America forse più di ogni altro presidente in tempo di pace, anche se dopo la crisi dei missili la normalizzazione, che a molti parve distensione, porta al bando dei test nucleari nell'atmosfera. Già nei primi incontri il presidente mostra i muscoli e Kruscev è costretto ad abbassare i toni.

L'operazione della Baia dei Porci provoca conseguenze fallimentari. I piani erano stati elaborati dalla precedente amministrazione, ma il presidente Eisenhower non avrebbe mai consentito di mettere a repentaglio il prestigio nazionale. Dopo quel clamoroso insuccesso, il regime castrista si sarebbe consolidato e avvicinato definitivamente all'Unione sovietica, sarebbe stato offerto a Kruscev un forte alibi per tentare l'installazione di missili sull'isola caraibica, Fidel Castro sarebbe stato percepito dall'opinione pubblica mondiale come il campione della resistenza alla prepotenza e al neocolonialismo americano. JFK sa riscattarsi nella gestione e nella risoluzione della crisi dei missili a Cuba, che porta il mondo sull'orlo di una guerra nucleare. Kruscev alla fine accetta di ritirare i missili da Cuba e Kennedy dichiara pubblicamente l'impegno degli Stati Uniti a non minacciare in alcun modo il regime di Castro. Agli occhi del mondo Kruscev, che aveva sfidato la potenza americana doveva alla fine cedere. L'esito di quel confronto assume una valenza diversa se letto in funzione di un secondo accordo intercorso tra le parti, ma non reso pubblico, nel quale gli Usa si impegnano a ritirare i missili jupiter dalla Turchia. Ai fini dell'equilibrio tra le due superpotenze non si tratta di una rinuncia determinante, ma in termini politici ha considerevoli effetti nei rapporti tra Stati Uniti ed Europa. In particolare, il presidente della RFT Adenauer e francese De Gaulle dubitano delle intenzioni americane di continuare a sostenere gli interessi e la sicurezza europee. Kennedy parla con enfasi della necessità di una partnership atlantica, ma opera per concentrare negli Usa il processo decisionale dell'Occidente: la special relationship con la Gran Bretagna e il rifiuto di offrire ai francesi gli stessi aiuti dati agli inglesi sull'atomica spingono De Gaulle dapprima a porre il veto sull'entrata della Gran Bretagna nella Cee, poi a siglare, il 22 gennaio 1963, un trattato di cooperazione con la Germania. Kennedy dà il via all'impegno militare Usa in Vietnam, sulla base della teoria del domino, ed è artefice del colpo di Stato che costa la vita al presidente Diem. Al momento della sua morte non possiamo sapere se avesse o meno l'intenzione di impegnarsi in un'escalation, come poi fece il successore Johnson, ma nulla dimostra che pensasse ad un ritiro.

Kennedy avverte il problema di vincere il nuovo confronto con lUrss anche sul piano dei modelli di sviluppo: esportare la democrazia per favorire un tipo di crescita che possa rivelarsi preferibile al modello socialista agli occhi dei Paesi in via di sviluppo. L'Alleanza per il progresso con i Paesi dell'America Latina, anche se priva di successi, va letta in questa chiave, come primo serio tentativo per rapporti di collaborazione e integrazione. Tuttavia, non mancano compromessi equivoci nei processi di democratizzazione: dove guidare il progresso in chiave democratica non è possibile, sostenere regimi autoritari ma anticomunisti diviene una scelta praticata nell'ottica della Guerra fredda.

Sul fronte interno sono poche le conseguenze pratiche e legislative. Consapevole di aver ottenuto un fragile mandato, attento alla rielezione, per la quale sono determinanti i voti dei democratici del sud segregazionisti, non si adopera per superare le resistenze di un Congresso nel quale un asse conservatore repubblicani-democratici del sud blocca o annacqua i progetti della presidenza su povertà, istruzione, previdenza, salari, infrastrutture. E' il suo successore Johnson a varare la legislazione desegregazionista, che poneva le basi giuridiche, anche se non economiche, sociali, culturali, per i diritti civili dei neri, e le riforme sociali per la Great Society. JFK appare invece distante dai movimenti per i diritti civili che già operano da tempo, è convinto delle loro posizioni, ma non appassionato. La svolta solo nel '63, quando una brutale repressione contro i neri in Alabama suscita l'indignazione generale contro i segregazionisti e il presidente cerca di prendere la guida del processo già in azione: con il suo linguaggio, ma sempre cercando la mediazione, legittima i movimenti, parla di questione morale, prepara una legge, ma non spinge il Congresso ad approvarla, deludendo le speranze. Un contributo decisivo per la causa dei diritti civili, privato però della sua leadership.

Sia in campagna elettorale sia da presidente JFK non si sbilancia, è prudente, quasi esitante, indeciso, si circonda di intellettuali stimolanti. Dall'agenda liberale-riformista estrae molto poco, più attento al rilancio dell'economia che alle riforme e ai diritti civili, cerca di farsi accettare dalle imprese con una riduzione fiscale, che però non è determinante per la crescita economica quanto lo saranno gli investimenti nella ricerca e nella difesa. Poche le iniziative rispetto alle aspettative di cambiamento suscitate dal suo personaggio. Tuttavia, al crocevia dei cambiamenti ha il merito di non ostacolarli, di legittimarli, seppure esitante nel realizzarli, cosicché molte speranze rimangono tali. Grande però, la sua volontà di confronto e scontro col comunismo.

«I nostri armamenti devono sempre essere adeguati ai nostri impegni. Monaco ci dovrebbe insegnare questo: che ogni bluff, alla lunga, viene scoperto. Non potremo ordinare a nessuno di tenersi lontano dal nostro emisfero finché i nostri armamenti e tutto il popolo che vi è dietro non saranno pronti a eseguire i nostri ordini, anche fino al sacrificio supremo della guerra. Non deve esservi alcun dubbio nelle nostre menti, la decisione deve essere immediata: se discutiamo, se esitiamo, se poniamo dei quesiti, sarà troppo tardi». John F. Kennedy (dal suo libro Perché l'Inghilterra dormì, scritto nel 1940).

  • Lo speciale di RadioRadicale.it

  • Antonio Versori, Storia delle relazioni internazionali Università di Firenze

  • Federico Romero, Storia dell'America del Nord Università di Firenze

  • Leopoldo Nuti, Storia delle relazioni internazionali, Università di Roma Tre

  • Massimo Teodori, Il Foglio
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