Andava invece perseguita con maggiore determinazione e oggi avremmo temuto meno il post-Mubarak
Neanche l'amministrazione Bush è riuscita a ottenere da Mubarak le riforme politiche ed economiche che chiedeva, né che favorisse l'emergere di partiti politici non islamici, e forse la colpa di questa situazione è solo sua, di Mubarak, come ha scritto Stephen J. Hadley, consigliere per la sicurezza nazionale dell'ex presidente repubblicano, sul Wall Street Journal. Ma i fatti di questi giorni sembrano dimostrare che Bush aveva visto giusto, che l'idea alla base della Freedom Agenda del contestatissimo ex presidente, che faceva propria la visione dell'area neocon, era corretta. In centinaia di migliaia – dalla Tunisia all'Egitto, dal Libano allo Yemen, come due anni fa in Iran – marciano non per la Jihad, come vorrebbe al Qaeda, non per la causa palestinese contro Israele, né contro l'America. Marciano per la libertà e per migliori condizioni economiche. In una parola: per la modernità. E questa aspirazione era, ed è, la migliore arma in mano all'Occidente per combattere la minaccia dell'estremismo islamico. Anziché nutrire questa aspirazione, tuttavia, i leader occidentali, e persino quelli americani, l'hanno trascurata: per allontanarsi il più possibile dalle impopolari politiche di George W. Bush; nell'illusione che i regimi autoritari avrebbero svolto il lavoro sporco al posto nostro; e in attesa che la soluzione del conflitto israelo-palestinese, prima o poi, scrivesse magicamente la parola fine su tutti i mali del Medio Oriente.
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Non sempre la sua amministrazione ha agito coerentemente con la Freedom Agenda, ma Bush ne era consapevole quando affermava che «aver giustificato per sessant’anni la mancanza di libertà in Medio Oriente non ci ha resi più sicuri, perché nel lungo periodo la stabilità non può essere ottenuta a scapito della libertà» e «finché il Medio Oriente rimane una regione in cui la libertà non fiorisce, rimarrà una regione di stagnazione, risentimento e violenza pronti per essere esportati».
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Per l'Occidente, e l'America soprattutto, mostrarsi «amici» di tali regimi, molto più che le guerre combattute contro i talebani e Saddam Hussein, ha significato perdere la battaglia per le menti e i cuori di gran parte delle "piazze arabe". E ad approfittarne sono stati proprio gli islamisti, che invece hanno saputo cavalcare il malcontento. Non solo sui ceti più popolari...
Da un articolo di Leon Wieseltier su The New Republic, ripreso e tradotto da Il Foglio, risultano chiari i limiti del cosiddetto "realismo" e della politica di Obama:
«Ciò che appare molto chiaro è che l'amministrazione Obama – e più in generale la galassia liberal americana – si è fatta cogliere del tutto impreparata da questa crisi... Le paure dell'amministrazione riflettono la svalutazione della "democratizzazione" come uno dei principi fondamentali della politica estera americana, specialmente nei confronti del mondo musulmano... Il rifiuto totale della politica estera di Bush implicava l'abbandono di qualsiasi cosa che potesse assomigliare alla sua "Freedom agenda", che appariva come un pretesto per la guerra. Ma qualsiasi cosa si pensi della guerra in Iraq, non sarebbe esagerato chiedere ai liberal di considerare con meno severità la politica della democratizzazione – non solo per il suo significato etico, ma anche per la sua importanza strategica. Una delle prime lezioni che si possono trarre dalla rivolta contro Mubarak è che il sostegno americano ai dissidenti democratici è una questione strategica. La mancanza di tale sostegno può determinare un disastro. E' questo il prezzo del realismo... Il realismo non consente di giungere a un'adeguata comprensione delle forze storiche che promuovono la democratizzazione. Da questo punto di vista, il realismo è sorprendentemente irrealistico. Sembra un'opzione intelligente soltanto finché i dittatori rimangono al potere senza essere disturbati dai propri popoli; ma non appena questo accade, risulta incredibilmente stolta».
«Obama ha sostituito la "Freedom agenda" con "l'agenda della accettazione". La sua politica estera è stata caratterizzata da uno spirito vigorosamente multiculturalista. Ha giustamente compreso che porre l'accento sulla democratizzazione significava esprimere una severa condanna dei sistemi di governo in paesi retti da regimi autocratici o dittatoriali; ma Obama non era diventato presidente per condannare e rimproverare, bensì per "restaurare la posizione e il prestigio dell'America". E ha cercato di farlo esaltando la diversità e la legittimità di tutte le religioni e le civiltà... Facendo sembrare la democratizzazione una sorta di "imposizione", con tutte le sue connotazioni imperialiste, e facendola coincidere con l'invasione militare, Obama ha commesso un terribile errore... Senza dubbio, ci sono casi in cui i nostri interessi e i nostri valori possono non coincidere, perché forze antidemocratiche e antiamericane possono giungere al potere per mezzo di un processo democratico; ma non esiste sistema più sicuro per portarli al potere che trascurare l'illegittimità dei governi tirannici e ignorare le proteste delle popolazioni oppresse. La bizzarra ironia del multiculturalismo globale di Obama sta proprio nel fatto che ha avuto l'effetto di allineare l'America al fianco dei regimi autocratici e contro le popolazioni... La cosa che più colpisce della "mano tesa" di Obama è la sua assoluta irrilevanza rispetto agli eventi epocali che si stanno svolgendo».
2 comments:
...ma neanche un commentino sul fatto che, nel mondo, gli unici rimasti a difendere Mubarak sono gli israeliani e il governo Berlusconi?
che fai, il portavoce di Ron Paul e degli altri anarco-capitalisti della cattedra stile Lew Rockewell che odiano Israele?
Speriamo che Moubarak scateni la controreazione, costi quel che costi, il rischio di una svolta islamica è sempre presente, a 'sto punto non si può rischiare. Ormai l'occidente si è fatto cogliere imperparato, quindi bisogna stare dalla parte di Suleiman, i diritti umani e roba del genere possono aspettare, prima viene la realpolitik.
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