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Wednesday, June 22, 2011

Doppia monnezza

Oltre al dramma, c'è la metafora. Monnezza nelle vie di Napoli. Monnezza che dalla procura di Napoli finisce sui giornali: 19.000 pagine di intercettazioni ambientali e telefoniche. Un'operazione di puro e semplice spionaggio. Avvalendosi però dei poteri pubblici e del denaro dei contribuenti. Intrattenere una vasta rete di relazioni con persone che contano sembra diventato di per sé un reato. E dev'essere l'unica cosa certa che emerge dalle indagini di Woodcock e Curcio su Bisignani, se almeno da tre giorni nei titoloni dei quotidiani non si fa riferimento ad alcun reato, ma solo, appunto, a fumose "P4", "reti", "mediazioni", "ragnatele", "governi-ombra". Persino un impressionante "Bisignani conosceva tutti", sparato così, in prima pagina, come se fosse la confessione di un assassino.

Il giochino ormai è talmente scoperto che solo chi è in malafede può fingere di non vederlo: si prende un personaggio con una rete di contatti di primo piano nella politica; si ipotizza nei suoi confronti un reato minore, abbastanza sfumato da poter essere sostenuto sulla base di prove puramente indiziarie; si mettono sotto controllo le sue utenze telefoniche, i pc, gli uffici, i suoi spostamenti. Prima o poi, gettando in questo modo, a strascico, la rete delle intercettazioni, è inevitabile che qualche pesce grosso rimanga impigliato. E se pure non fa nulla di male, se non è indagato, non importa. Basta che compaia il suo nome perché i giornali imbastiscano il romanzo. E come si supera il vincolo del segreto istruttorio per far finire le intercettazioni sui giornali? Presto detto: o si passano direttamente le carte ai giornalisti amici, oppure, "legalmente", basta allegare nell'ordinanza di custodia cautelare o nella richiesta al Parlamento tutte le intercettazioni che si vogliono, quelle più sfiziose, anche se palesemente non hanno nulla a che fare con i reati ipotizzati, ma che solleticano la fame di scandali dei media e del pubblico. E il gioco è fatto, via con la giostra. Male che vada al magistrato, popolarità e carriera politica assicurate. Consumati gli effetti politici e mediatici, dopo qualche mese, nessuno farà più caso agli inevitabili proscioglimenti.

A meno che non si contesti un episodio di corruzione - reato che però il gip non ha incluso tra quelli che a suo avviso giustificano le richieste di arresto -, fare e ricevere favori, tessere relazioni, scambiarsi confidenze, informazioni e pareri, raccomandare, offrire consigli, persino esercitare un'influenza politica, può essere di per sé un reato? Certo, ci sono le ipotesi di favoreggiamento e di violazione del segreto di indagine. Bisignani e Papa avrebbero riferito al sottosegretario Letta notizie riservate riguardanti inchieste che avrebbero visto in qualche modo coinvolti lui e altri membri dell'Esecutivo. Ora, a parte il fatto che stiamo parlando del segreto di Pulcinella, dato che tali inchieste finivano corredate di tutti i dettagli sulle pagine di tutti i giornali, e l'impressione è che Letta e Berlusconi, se informati, fossero gli ultimi o quasi a sapere, è per queste due ipotesi di reato che il gip ha autorizzato l'arresto del primo e la richiesta nei confronti del secondo. E' comprensibile che si scriva anche degli altri indagati, e delle altre più gravi ipotesi di reato, che per ora non hanno convinto il gip. Ma tutto il resto, le altre chiacchiere e le mezze frasi, non si comprende a che titolo - se non per sputtanare - finiscano sui giornali. Osserva giustamente Fabrizio Rondolino, oggi su il Giornale:
«La seconda generazione giustizialista si differenzia dalla prima per un dettaglio essenziale: le prove, ancorché indiziarie o contraddittorie, non contano un fico secco; conta lo scenario, il contesto, il "teorema", che tanto più eccita la fantasia dei lettori quanto maggiore è il coinvolgimento di personaggi più o meno famosi (non importa che siano indagati: basta che il loro nome interessi ai giornali). De Magistris e Woodcock hanno costruito così la propria immagine di giustizieri inflessibili: da "Why Not" alle "Toghe lucane", da Vallettopoli al "Savoiagate", non c'è inchiesta di questi coraggiosi magistrati che non si caratterizzi per l'enormità dell'intrigo denunciato, per lo sfarfallio mediatico dei suoi protagonisti, e per la mancanza assoluta di prove. Il passaggio alla politica nella sua forma degradata di populismo plebeo è naturalmente coessenziale a questo modo di intendere la giustizia: che non è la fatica e lo scrupolo dell'indagine, né l'imparzialità del giudizio, ma lo strumento irresponsabile per la costruzione della propria immagine di guerriero senza macchia e senza paura. In questo contesto distorto, gli insuccessi dimostrano che i nemici sono ancora forti, non che l'inchiesta non vale nulla. E del resto l'obiettivo non è mai giungere alla condanna, perché le prove non vengono neppure raccolte, ma distruggere la reputazione e la vita privata di coloro che, ricoperti di fango, suscitano gli applausi dei futuri elettori».

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