
In queste parole, pronunciate da Enrico Boselli aprendo il V Congresso dello Sdi, sta tutto l'attuale pantano strategico in cui si trovano i radicali.
La mia è un'amarezza sincera e ragionata. All'inizio dell'esperienza della Rosa nel Pugno non avrei mai creduto che una vecchia volpe come Pannella si facesse fregare da due come Boselli e Villetti. Né che, una volta evidente quale fosse, dall'inizio, il loro disegno, continuasse a rincorrere, in quel "dramma della gelosia" che il tratto di Vincino ha così ben rappresentato ieri su Il Foglio. Eppure è ciò che è accaduto e mi è tornato in mente qualche vecchio dibattito di Direzione (dell'estate scorsa), in cui avevo cercato di accenare qualcosa dello schema che si andava delineando, in modo che si potessero studiare per tempo delle contromosse.
Entrare in Parlamento era per i radicali l'obiettivo minimo che chiedevano all'esperienza della Rosa nel Pugno. Per lo Sdi era l'unico. L'ennesima bicicletta da riportare in cantina alla domenica sera. Il loro disegno è riuscito in pieno, quello di Pannella è fallito. Oltre al danno, la beffa. Ad oggi la Rosa nel Pugno esiste solo in Parlamento e lo Sdi ne ha il pieno controllo. Il Gruppo è guidato da Villetti, che prende posizione anche per nome e per conto dei radicali, senza che il soggetto politico abbia una vita propria e democratica.
Intanto, lo Sdi ha mani libere di muoversi, progettare costituenti e ricostituenti, vagheggiare un improbabile partito con Mussi e Angius alla sinistra dei Ds, ma molto più prosaicamente accontentandosi - e sarebbe già molto - di una fragile unità socialista da esporre per alzare il prezzo dell'entrata differita nel Partito democratico. Mentre i radicali hanno mani e piedi legati a quel cartello elettorale ormai asfittico con il quale sono stati accettati, seppur malvolentieri, nell'Unione e al ministero che ne hanno ottenuto.
Ma le parole di Boselli non solo rivelano il compimento di quello che fin dall'inizio, da dopo le amministrative della primavera scorsa, era l'assetto cui mirava lo Sdi.
A questo punto Boselli completa l'operazione di normalizzazione dei radicali: le uniche battaglie da fare insieme sono quelle sui diritti civili. Sul resto guai a toccar palla. Uno schema classico, sempre usato dai comunisti negli anni '70, ripreso dal centrosinistra di oggi, per neutralizzare i radicali. Aprono il corral dei diritti civili e i radicali ci si ficcano ben contenti, credendo tramite quelli di entrare in sintonia con il popolo della sinistra e di instaurare un rapporto finalmente costruttivo con i suoi vertici, mentre quelli continuano indisturbati a mettere a sacco lo Stato e a rafforzare il regime partitocratico attraverso lo schema tasse-spesa pubblica.
Dopo di che, arriva un Bertinotti a riconoscere, rispondendo a Paolo Mieli durante la presentazione del suo libro, "La città degli uomini", che dai radicali «abbiamo imparato», «siamo andati avanti a rubargli sempre qualche cosa», la nonviolenza, i diritti civili e, infine, anche il nome: sinistra radicale, appunto.
C'è molto poco di cui essere soddisfatti per i radicali. Si tratta, infatti, di un'appropriazione puramente nominalistica, non di una vittoria culturale. La nonviolenza bertinottiana è semplicemente, sul piano degli strumenti di lotta del suo partito, rifiuto della violenza nelle manifestazioni, e su quello della politica estera, nient'altro che ambiguo pacifismo. Non c'è alcuna cultura liberale del rispetto della legalità e dello stato di diritto. L'aggettivo "radicale" accostato alla sinistra bertinottiana e neocomunista è ritornato ad essere sinonimo di estremo, se non estremista. Un fenomeno mediatico non so fino a che punto pianificato, quanto piuttosto sintomo dell'irrilevanza e dello svuotamento di significato del radicalismo liberale.