Come temevamo, il silenzio e l'oscurità in cui il regime ha fatto sprofondare la Birmania dopo le manifestazioni di protesta di monaci e civili hanno favorito una repressione durissima, che possiamo solo immaginare dalle deboli voci che si levano da quel paese: qualche dissidente in contatto con la gente del posto; i disertori dall'esercito, diplomatici occidentali.
Si parla di centinaia di morti e di migliaia di arresti, tra monaci e attivisti democratici, di deportazioni di massa, di veri e propri gulag, di monaci spariti nel nulla, catturati dai militari o nel tentativo disperato di lasciare il paese. Probabilmente la decapitazione della leadership della National League for Democracy metterà il movimento democratico in ginocchio, non più in grado di nuocere alla Giunta per anni.
E avevamo anche palesato il nostro scetticismo sulle ipotesi di divisioni interne alla Giunta al potere a Yangon. Piuttosto, ipotizzavamo, la Cina potrebbe lavorare a un "rimpasto" nella Giunta. E' questo uno sbocco possibile delle voci di questi giorni sui contrasti all'interno dell'esercito tra il generale più "moderato", il numero due del regime, Maung Aye, che ha incontrato anche la leader democratica Aung San Suu Kyi, e l'odiato Than Shwe, ormai inviso alla comunità internazionale.
Un generale che oggi gioca la carta del "moderatismo" per sostituirsi a Shwe alla guida della Giunta è ciò che fa al caso di Pechino: favorendo l'avvicendamento dimostrerebbe alla comunità internazionale di aver risolto la crisi, tenendo in piedi il regime e, anzi, rafforzando la sua influenza su di esso. Ma sarebbe un esito catastrofico per i sogni di democrazia. Nulla di sostanziale cambierebbe nella natura del regime birmano ma l'Occidente, impotente, si accontenterebbe del risultato di facciata rivendicando, o illudendosi, di aver contribuito a riportare la calma nel paese. Una calma che non è pace ma morte.
Una considerazione sull'uso della nonviolenza. Pur essendo determinante per portare dalla propria parte sia la popolazione, sia i governi democratici e le opinioni pubbliche occidentali, da sola la nonviolenza non può nulla nei confronti di una dittatura disposta a massacrare il suo stesso popolo. Servono interventi dall'esterno. Non solo le sanzioni contro il regime, ma anche l'aiuto diretto, finanziario, logistico, tecnologico e persino militare, alle opposizioni democratiche.
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Thursday, October 04, 2007
Tuesday, September 25, 2007
Birmani marciate, non siete soli

Il Presidente Usa annuncia sanzioni contro il regime
E' la manifestazione più imponente degli ultimi anni contro una dittatura. Partiti in poche centinaia, ai monaci buddisti che marciano contro la Giunta militare birmana, sotto una pioggia incessante, per le strade della capitale si sono uniti anche semplici cittadini. Ora sono in 300 mila a marciare armati di nonviolenza. E' una dinamica che ricorda la gandhiana marcia del sale.
I manifestanti, giunti a questo punto, non possono fermarsi, non possono spegnere loro stessi i riflettori sulla protesta, altrimenti il regime approfitterà del momento per scatenare una repressione sanguinosa.
Attenzione, però, perché qui si rischia comunque una nuova Tienanmen. Gli organi di informazione e i governi occidentali devono far percepire la loro presenza. Il presidente americano George W. Bush, coerente nello schierarsi al fianco di ogni popolo in lotta per la propria libertà, parlerà presto, già domani, all'Assemblea generale dell'Onu: annuncerà che ci saranno «sanzioni aggiuntive verso membri chiave del regime e a chi fornisce loro finanziamenti», ha detto il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Stephen Hadley. Anche «un divieto di visto per individui precisi attivi nel regime e le loro famiglie».
Il regime si trova di fronte a un dilemma: reprimere duramente la manifestazione guidata dai monaci buddisti, rischiando però di suscitare un moto di sdegno in tutta la nazione. Oppure, lasciar marciare i religiosi nella capitale e in qualche altra città, rischiando che il movimento prenda slancio e si diffonda ad altri strati sociali, come gli studenti e i dipendenti pubblici. Scongiuriamo anche la presidenza dell'Ue di intervenire, e di lanciare una proposta ai monaci e al regime birmano: la fine delle manifestazioni in cambio di un calendario certo per portare il paese a elezioni libere sotto il controllo dell'Onu.
Vi segnalo, sulla Birmania, lo splendido reportage di Enzo Reale, che sul suo blog segue gli eventi, e la cronaca della protesta, di Luca Martinelli, entrambi su LibMagazine.
E' la manifestazione più imponente degli ultimi anni contro una dittatura. Partiti in poche centinaia, ai monaci buddisti che marciano contro la Giunta militare birmana, sotto una pioggia incessante, per le strade della capitale si sono uniti anche semplici cittadini. Ora sono in 300 mila a marciare armati di nonviolenza. E' una dinamica che ricorda la gandhiana marcia del sale.
I manifestanti, giunti a questo punto, non possono fermarsi, non possono spegnere loro stessi i riflettori sulla protesta, altrimenti il regime approfitterà del momento per scatenare una repressione sanguinosa.
Attenzione, però, perché qui si rischia comunque una nuova Tienanmen. Gli organi di informazione e i governi occidentali devono far percepire la loro presenza. Il presidente americano George W. Bush, coerente nello schierarsi al fianco di ogni popolo in lotta per la propria libertà, parlerà presto, già domani, all'Assemblea generale dell'Onu: annuncerà che ci saranno «sanzioni aggiuntive verso membri chiave del regime e a chi fornisce loro finanziamenti», ha detto il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Stephen Hadley. Anche «un divieto di visto per individui precisi attivi nel regime e le loro famiglie».
Il regime si trova di fronte a un dilemma: reprimere duramente la manifestazione guidata dai monaci buddisti, rischiando però di suscitare un moto di sdegno in tutta la nazione. Oppure, lasciar marciare i religiosi nella capitale e in qualche altra città, rischiando che il movimento prenda slancio e si diffonda ad altri strati sociali, come gli studenti e i dipendenti pubblici. Scongiuriamo anche la presidenza dell'Ue di intervenire, e di lanciare una proposta ai monaci e al regime birmano: la fine delle manifestazioni in cambio di un calendario certo per portare il paese a elezioni libere sotto il controllo dell'Onu.
Vi segnalo, sulla Birmania, lo splendido reportage di Enzo Reale, che sul suo blog segue gli eventi, e la cronaca della protesta, di Luca Martinelli, entrambi su LibMagazine.
Sunday, April 15, 2007
Il pantano strategico dei Radicali

In queste parole, pronunciate da Enrico Boselli aprendo il V Congresso dello Sdi, sta tutto l'attuale pantano strategico in cui si trovano i radicali.
La mia è un'amarezza sincera e ragionata. All'inizio dell'esperienza della Rosa nel Pugno non avrei mai creduto che una vecchia volpe come Pannella si facesse fregare da due come Boselli e Villetti. Né che, una volta evidente quale fosse, dall'inizio, il loro disegno, continuasse a rincorrere, in quel "dramma della gelosia" che il tratto di Vincino ha così ben rappresentato ieri su Il Foglio. Eppure è ciò che è accaduto e mi è tornato in mente qualche vecchio dibattito di Direzione (dell'estate scorsa), in cui avevo cercato di accenare qualcosa dello schema che si andava delineando, in modo che si potessero studiare per tempo delle contromosse.
Entrare in Parlamento era per i radicali l'obiettivo minimo che chiedevano all'esperienza della Rosa nel Pugno. Per lo Sdi era l'unico. L'ennesima bicicletta da riportare in cantina alla domenica sera. Il loro disegno è riuscito in pieno, quello di Pannella è fallito. Oltre al danno, la beffa. Ad oggi la Rosa nel Pugno esiste solo in Parlamento e lo Sdi ne ha il pieno controllo. Il Gruppo è guidato da Villetti, che prende posizione anche per nome e per conto dei radicali, senza che il soggetto politico abbia una vita propria e democratica.
Intanto, lo Sdi ha mani libere di muoversi, progettare costituenti e ricostituenti, vagheggiare un improbabile partito con Mussi e Angius alla sinistra dei Ds, ma molto più prosaicamente accontentandosi - e sarebbe già molto - di una fragile unità socialista da esporre per alzare il prezzo dell'entrata differita nel Partito democratico. Mentre i radicali hanno mani e piedi legati a quel cartello elettorale ormai asfittico con il quale sono stati accettati, seppur malvolentieri, nell'Unione e al ministero che ne hanno ottenuto.
Ma le parole di Boselli non solo rivelano il compimento di quello che fin dall'inizio, da dopo le amministrative della primavera scorsa, era l'assetto cui mirava lo Sdi.
A questo punto Boselli completa l'operazione di normalizzazione dei radicali: le uniche battaglie da fare insieme sono quelle sui diritti civili. Sul resto guai a toccar palla. Uno schema classico, sempre usato dai comunisti negli anni '70, ripreso dal centrosinistra di oggi, per neutralizzare i radicali. Aprono il corral dei diritti civili e i radicali ci si ficcano ben contenti, credendo tramite quelli di entrare in sintonia con il popolo della sinistra e di instaurare un rapporto finalmente costruttivo con i suoi vertici, mentre quelli continuano indisturbati a mettere a sacco lo Stato e a rafforzare il regime partitocratico attraverso lo schema tasse-spesa pubblica.
Dopo di che, arriva un Bertinotti a riconoscere, rispondendo a Paolo Mieli durante la presentazione del suo libro, "La città degli uomini", che dai radicali «abbiamo imparato», «siamo andati avanti a rubargli sempre qualche cosa», la nonviolenza, i diritti civili e, infine, anche il nome: sinistra radicale, appunto.
C'è molto poco di cui essere soddisfatti per i radicali. Si tratta, infatti, di un'appropriazione puramente nominalistica, non di una vittoria culturale. La nonviolenza bertinottiana è semplicemente, sul piano degli strumenti di lotta del suo partito, rifiuto della violenza nelle manifestazioni, e su quello della politica estera, nient'altro che ambiguo pacifismo. Non c'è alcuna cultura liberale del rispetto della legalità e dello stato di diritto. L'aggettivo "radicale" accostato alla sinistra bertinottiana e neocomunista è ritornato ad essere sinonimo di estremo, se non estremista. Un fenomeno mediatico non so fino a che punto pianificato, quanto piuttosto sintomo dell'irrilevanza e dello svuotamento di significato del radicalismo liberale.
Saturday, February 17, 2007
Né radicali, né nonviolenti, ma comunisti
«Siate radicali ma non violenti». Sta nell'appello lanciato ieri da Bertinotti ai manifestanti di Vicenza l'offensiva politico-lessicale, a cui la stampa e le tv - dalle cronache ai più attenti editorialisti, come Stefano Folli - stanno irresponsabilmente dando cassa di risonanza, per proiettare sulla sinistra comunista (vetero- o neo-) un'immagine più presentabile, più attraente.
A questa offensiva, e non alla supposta congiura anti-radicale del Corriere, Pannella e i Radicali dovrebbero prestare attenzione. Se non si può pretendere che il termine "radicale" non sia usato per indicare un atteggiamento, un comportamento, e non solo una storia e un'identità politica precisa, non si può però neanche dare per scontato che sia usato come sinonimo di estremismo e massimalismo.
La radicalità di una riforma non equivale a massimalismo. E il termine "radicale" è anche politicamente il contrario di "conservatore". E la sinistra comunista sempre più appare, nella sua identità e nelle sue politiche, conservatrice, quando non reazionaria. Dunque, non chiamateli né radicali, né nonviolenti, ma per il nome e per il cognome che loro stessi si sono scelti: comunisti e pacifisti.
A questa offensiva, e non alla supposta congiura anti-radicale del Corriere, Pannella e i Radicali dovrebbero prestare attenzione. Se non si può pretendere che il termine "radicale" non sia usato per indicare un atteggiamento, un comportamento, e non solo una storia e un'identità politica precisa, non si può però neanche dare per scontato che sia usato come sinonimo di estremismo e massimalismo.
La radicalità di una riforma non equivale a massimalismo. E il termine "radicale" è anche politicamente il contrario di "conservatore". E la sinistra comunista sempre più appare, nella sua identità e nelle sue politiche, conservatrice, quando non reazionaria. Dunque, non chiamateli né radicali, né nonviolenti, ma per il nome e per il cognome che loro stessi si sono scelti: comunisti e pacifisti.
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